Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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Il Cardinale Sansoni Riario si era appena chiuso in camera, e si era messo alla scrivania, sotto alla luce gialla di un paio di candele consumate già per metà.

Era stata una giornata strana e si sentiva stremato. Una cosa odiava, soprattutto, della vita romana: l'incertezza. Il Vaticano non era come altri principati, in cui, salvo colpi di scena, si sapeva chi comandava e chi, una volta morto il principe in carica, ne avrebbe preso il posto. Roma era un dado perennemente in bilico, pronto a cadere sull'una o l'altra faccia al minimo soffio di vento.

Ed ecco perché aveva cercato rifugio a Milano. Non era stato facile, all'inizio, ma toccando le corde giuste, come aveva imparato a fare in tanti anni passati tra i prelati, si era assicurato un angolo di quiete nella città che era stata degli Sforza.

La sua sensazione di precarietà, comunque, non era stata del tutto domata: era arrivata, quel pomeriggio, sul tardi, la notizia la morte del Cardinale Juan Lopez, fedelissimo del papa e, forse ancor di più, di suo figlio Cesare.

Quel valenciano era entrato alla corte di Rodrigo ben prima che il Borja diventasse pontefice e grazie al suo sostegno – o forse, pensava Raffaele, in cambio di tutto il lavoro sporco che aveva fatto per lui – era diventato dapprima Vescovo di Perugia, poi Cardinale di Santa Maria in Trasterevere, Amministratore Apostolico di un discreto numero di città, Arcivescovo Metropolita di Capua e infine, proprio nell'anno della sua sventurata morte, perfino Camerlengo del Collegio Cardinalizio e Arciprete della Basilica di San Pietro in Vaticano.

La sua carriera, rapida e brillante, sembrava trovare le sue radici più solide nel periodo in cui Savonarola imperversava a Firenze. Il Cardinale Sansoni Riario ricordava bene quel periodo e non aveva scordato la scomunica, additata poi come un falso, arrivata al frate. Quella era stata la miccia che aveva fatto esplodere definitivamente la questione fiorentina, e le voci che volevano la scomunica scritta e falsificata proprio da Juan Lopez e da un falsario, per volere di Cesare Borja erano state molto pesanti e mai smentite.

La cosa che metteva in profonda agitazione Raffaele, tuttavia, non era tanto ricordare gli intrighi passati, quanto aver saputo di come il Santo Padre avesse preso la morte di Juan Lopez con distacco.

Secondo il messaggero che glielo aveva riferito, nessuno avrebbe potuto dire che fosse morto uno dei suoi più fedeli collaboratori, anzi, Alessandro VI appariva quasi compiaciuto da quanto accaduto, per nulla toccato dall'età ancora relativamente giovane del defunto, ossia quarantasette anni. Forse, non era illogico pensare che con la sua morte Rodrigo pensasse di aver messo nella tomba anche molti segreti che, a quel punto, nessuno avrebbe più potuto svelare.

Quel comportamento, da parte del papa, al Cardinale sembrava la dimostrazione più cocente di quanto i favori e le disgrazie in Vaticano andassero a braccetto. Poteva qualcuno dirsi sicuro della propria posizione, se la morte di uno dei bracci destri del Santo Padre rappresentava quasi una gioia per il Santo Padre stesso?

E dopo tutto, ragionava angosciosamente Raffaele, mentre intingeva la punta della penna e pensava a come iniziare la missiva che voleva inviare il prima possibile a Firenze, come si poteva legarsi al pontefice in modo tale da non doverlo temere? Era possibile? E conveniva?

Di recente, al campo del Valentino, a Napoli, era successa una cosa strana. In città, Giovan Francesco Sanseverino aveva preso prigioniero un mercante, un certo Bragadin, veneziano, dicendo che l'avrebbe usato come capro espiatorio per rifarsi dei torti subiti in passato proprio per colpa di Venezia e del Doge.

Il figlio del papa, dopo un primo momento di incertezza, gli aveva dato campo libero, ma, appena saputolo, il re di Francia, per bocca del Cardinale di Rouen, aveva imposto che il mercante venisse liberato, con grande scorno del Sanseverino che, dicevano, era invecchiato di vent'anni in mezz'ora, quando aveva dovuto cedere così facilmente agli ordini del re di Francia.

Il Borja aveva provato a far la voce grossa, non perché gli interessassero le sorti di Bragadin o le recriminazioni di Giovan Francesco, ma solo per dimostrare di essere più importare di re Luigi, almeno tra i soldati dell'esercito. E invece anche lui aveva dovuto infilarsi la coda tra le gambe e tacere.

Quell'episodio, che Rodrigo aveva voluto etichettare come 'un'inezia', quando gliene avevano parlato, aveva invece dimostrato con chiarezza gli equilibri di potere e il papato, per tramite del Duca di Valentinois, ne era emerso profondamente sconfitto.

Quanto sarebbe durato, dunque, il potere dei Borja? Alessandro VI era ancora un uomo vigoroso, malgrado l'età, ma il Cardinale Sansoni Riario cominciava a credere che il suo potere avrebbe potuto iniziare ad affievolirsi ben prima della sua dipartita.

Così aveva sentito la necessità di provare a fare un passo fuori dallo stretto corridoio che sentiva di aver imboccato. In fondo, Raffaele se l'era sempre cavata restando nell'ombra e saltando sulla barca nuova un istante prima che quella vecchia affondasse.

Non voleva dimenticare la sua parente, Caterina Sforza, e gli sembrava che, ricordandola, avrebbe potuto prendere due piccioni con una fava. Anche se in molti erano scettici, riguardo Firenze, lui sentiva che qualcosa di buono sarebbe arrivato dalla Toscana, perché in quei mesi la Repubblica era tra le poche potenze italiana a potersi dire al sicuro, ma non schierata in modo eccessivamente palese con i vincitori. Da una situazione simile, poteva nascere di certo qualcosa di promettente.

In più, la sua partenza da Roma, temeva, a posteriori avrebbe potuto essere letta come una vera e propria fuga, e quindi bisognava far sì che il Vaticano lo credesse ancora coeso non solo con i francesi, ma anche con il papato. Non era una situazione semplice, non la era affatto.

E così, sperando di fare bene per sé e per i cugini che ormai vivevano a Firenze, il Cardinale fece un profondo sospiro e cominciò a scrivere.

Indirizzò la lettera al Gonfaloniere e ai Priori, ringraziò accoratamente la Repubblica per la gran festa fatta alla cugina, e si produsse in entusiastici commenti sull'accoglienza dei fiorentini.

Terminò la pagina ben più in fretta di quanto avrebbe voluto, ma non trovava altro da dire, così firmò e si alzò dalla scrivania, aspettando che l'inchiostro si asciugasse. Andò alla finestra, stretta e scura, ma sufficiente a fargli vedere fuori dal palazzo nobiliare in cui era ospite.

Infastidito dal volare noioso e invadente di una zanzara, Raffaele si guardò in giro, fino a trovare l'insetto e schiacciarlo nel momento stesso in cui gli si posò sul dorso della mano. Appena uccisa la prima, però, una sua compare arrivò, ancor più agguerrita, a ronzargli vicino all'orecchio. L'Agosto, in Lombardia, era una sorta di trappola mortale: di giorno scioglieva l'animo della gente sotto al sole e al soffio rovente dell'afa, e di notte ne divorava il corpo per mezzo delle zanzare. Lì non c'era il ponentino, alla sera, a spazzare via la calura e le zanzare.

Con un sospiro pesante, il porporato tornò alla lettera e la chiuse. In tutta onestà, c'erano tante cose, di Roma, che gli mancavano...

 

Troilo De Rossi era entrato nel salone da più di un'ora. Bianca era appena fuori dalla porta, sia sperando di carpire qualche parola, sia nell'attesa di vedere uscire la madre e l'emiliano.

Si sentiva quasi una sciocca, eppure non poteva fare altrimenti: era come se una forza invisibile la tenesse lì. Aveva anche lasciato Giovannino a Galeazzo e Bernardino, pur di essere libera di fare quell'appostamento.

Il De Rossi era arrivato alla villa presto, quella mattina, e la ragazza, appena l'aveva saputo, aveva chiesto senza tanti giri di parole dove fosse l'uomo. La serva che le aveva risposto le aveva fatto presente che l'uomo si era già ritirato con la Tigre e che aveva chiesto che nessuno li disturbasse.

Bianca, a quel punto, non aveva potuto far altro se non avvicinarsi alla stanza indicata e aspettare.

Si rendeva conto che il suo interesse per quell'uomo era abbastanza irrazionale, per vari motivi, eppure l'istinto la portava a cercare di rivederlo, anche se la sua mente, per quanto combattuta, le metteva davanti tutte le criticità del caso.

In primo luogo, il De Rossi era molto più vecchio di lei, il che, forse, non sarebbe stato di per sé un motivo per non avvicinarlo, anche se la ragazza si era sempre detta che per lei sarebbe stato molto meglio un coetaneo o, al massimo, qualcuno di poco più grande, ma non certo un uomo con il doppio dei suoi anni. Dopodiché non doveva dimenticarsi che si trattava di uno dei condottieri che aveva sconfitto sua madre in Romagna, anche se non direttamente. Era stato un suo carceriere, anche se era stato poi tra quelli che le aveva permesso di riguadagnare una sorta di libertà. Infine, non poteva non tener conto del fatto che i De Rossi avevano ripreso buona parte delle loro terre grazie alla sconfitta di Milano. Era pur vero che gli Sforza avevano strappato il parmense al padre di Troilo, trasformandolo in colui che veniva soprannominato il Diseredato, ma...

“Allora, se non disturbo, resterò qui qualche giorno.” fu la prima frase che la Riario riuscì a percepire interamente, e ci riuscì perché l'emiliano e la Tigre si stavano avvicinando alla porta del salone per uscirne.

Bianca sentiva il cuore battere più veloce, e, mentre si allontanava un po', giusto per non dare l'impressione alla madre e a Troilo di essere stata lì tutto il tempo in attesa, cercò di tendere l'orecchio per cogliere la risposta.

“Certamente...” disse la Leonessa, aprendo la porta, lo sguardo fisso sul De Rossi e un'espressione difficile da decifrare: “Come foste a casa vostra...”

L'uomo stava chinando un po' la testa, come a ringraziare, e non vide subito la Riario. Si era fatto rasare per bene le guance e sembrava più curato nel vestire della prima volta in cui la ragazza l'aveva visto. Tuttavia, più che questi dettagli, ad attirare la sua attenzione della giovane, anche quella volta, erano stati i capelli biondo rossi e le lunghe gambe dell'emiliano. Anzi, le sembrava quasi che il giacchetto scuro esaltasse la chioma chiara e le brache attillate mettessero in risalto le cosce longilinee di Troilo.

Caterina, che faceva strada all'ospite, notò di sfuggita lo sguardo interessato della figlia. Da un lato non la sorprendeva, in fondo il De Rossi poteva dirsi un bell'uomo e Bianca non era mai stata immune al fascino maschile. La donna ricordava ancora molto bene, anzi, di quando, in più occasioni aveva trovato la figlia intenta a civettare con qualche soldato, se non, seppur in casi più rari, a spingersi anche oltre la soglia della mera civetteria.

D'altro canto, però, irrazionalmente, quell'interessa la infastidiva abbastanza da portarla a dire, sbrigativa: “Messer De Rossi, per voi avrei pensato a una stanza che affaccia sull'entrata...”

Per l'uomo quella decisione non aveva un significato particolare, mentre per la Riario sì: si trattava di un punto quasi diametralmente opposto a quello in cui stava la sua camera da letto. Cercò non leggerci dietro una precisa volontà di sua madre, ma non le risultò così semplice.

“Come preferite...” stava dicendo il De Rossi, quando, finalmente, sollevò gli occhi, che a Bianca sembravano quasi color del miele, e, prendendo un po' di colore, quasi fosse un ragazzino e non un uomo di quasi quarant'anni: “Madonna...” sussurrò, in saluto alla ragazza.

Per la seconda volta nel giro di pochissimo, la Tigre avvertì una strana scossa lungo la schiena. Era il modo in cui Troilo aveva squadrato sua figlia. Era stato un lampo appena, eppure le era bastato per cogliere una nota che conosceva molto bene. Forse, se lui non fosse stato uno dei tanti condottieri al soldo del re di Francia, e se fosse stato più giovane, la Leonessa sarebbe stata quasi lusingata da quel silenzioso apprezzamento fatto a Bianca. Invece tutto il contesto la metteva in allerta.

“Adesso vi faccio accompagnare, così potete sistemare le vostre cose...” propose la donna, facendo finta di niente.

“Sapendo di fermarmi poco, o solo una bisaccia, con me.” rispose prontamente l'uomo: “Viaggio leggero.”

“Si vede che siete un soldato.” sorrise la Sforza, facendo un cenno alla figlia, nella speranza che lei lo prendesse come un commiato: “Anzi, vi accompagno direttamente io...”

Bianca capì l'antifona e, salutando la madre e anche il De Rossi con una mezza riverenza, si avviò verso i suoi alloggi, già contenta di averlo potuto rivedere e di sapere che si sarebbe fermato alla villa per qualche giorno.

“Vostra figlia vi somiglia molto.” disse, con apparente leggerezza l'emiliano, mentre seguiva la padrona di casa.

Caterina si irrigidì e, con tono più freddo di quanto non avrebbe voluto, ribatté: “Mia figlia somiglia molto più a mia madre di quanto non somigli a me.”

L'ospite non sapeva come prendere quell'affermazione, perciò pensò che fosse meglio cambiare discorso. Anche se stava ancora pensando ai capelli dorati della giovane, ai suoi occhi blu scuro e al suo corpo, così fresco, eppure così prorompente sotto l'abito semplice che indossava, Troilo fece del suo meglio per spostare di nuovo la conversazione sulle pretese dei francesi e sugli obblighi a cui la Tigre doveva stare, se voleva continuare a essere una protetta di re Luigi.

La Sforza non prese quella virata nel modo sbagliato. Anche se la infastidiva, sentirsi ricordare la propria condizione di 'nobile schiava' come aveva detto qualche giorno prima, scherzando, frate Lauro, capì l'intenzione del De Rossi di evitare tra loro incomprensioni o imbarazzi e l'assecondò.

Non lo stava ascoltando, però, e quando arrivarono alla stanza invece di ragionare su quanto le stava dicendo, la donna stava ripensando al loro colloquio nel salone. Doveva ammettere che si trattava di un uomo apparentemente molto solido, intelligente e pragmatico. Le aveva parlato con franchezza non solo delle decisioni prese dai francesi, ma anche della sua condizione di figlio di un 'diseredato' rimasto senza terra fino a pochi mesi addietro. Aveva avuto anche l'accortezza di chiedere simbolicamente scusa alla Tigre per l'aver ripreso, assieme al padre, le terre del parmense, ormai sforzesche da tempo, benché, in realtà, sarebbero stati più gli Sforza a dover chiedere il perdono rossiano per avergliele strappate con la forza ancor prima.

“Adesso – aveva concluso Troilo, con una certa semplicità – mio padre è rimasto a San Secondo per riorganizzare il nostro governo in patria, mentre io sto lavorando per rafforzare il nostro governo ingraziandomi il re di Francia.”

“Se per voi va bene, noi pranziamo e ceniamo assieme nella saletta.” disse Caterina, mentre l'uomo prendeva visione della sua stanza.

Senza farselo ripetere, mosso non solo dalla curiosità di conoscere meglio la Leonessa – una donna che aveva a dir poco del leggendario – ma anche i suoi figli, specie Bianca, l'uomo annuì subito e accettò: “Per me va benissimo.”

 

Miguel de Corella stava passando tra le vie di Napoli, sotto al sole cocente d'agosto. Malgrado il caldo, indossava una cappa scura, con un cappuccio che gli celava quasi del tutto il volto. Alle sue spalle, con indosso abiti poco appariscenti, c'era qualche soldato francese che il Valentino l'aveva convinto a tenere a mo' di scorta.

A poco era valsa la sua ostinazione nel dire che era lui, la scorta di se stesso: Cesare aveva insistito con tutte le sue forze. E alla fine Michelotto aveva accettato, un po' lusingato dalla premura che l'amico aveva nei suoi confronti.

I suoi stivali di cuoio erano così coperti di polvere da non sembrare più marroni, ma grigi. Gli odori che si sollevavano dalle bancarelle che invadevano la via erano nauseabondi. Ancora peggio erano gli effluvi che uscivano dalle locande e dai bordelli, che sembravano essere ovunque, in ogni anfratto possibile, come fossero tanti funghi nati tra le radici di una pianta tentacolare.

Miguel, che pure aveva visto tante cose in vita sua, non riusciva a capire i napoletani, reduci da un assedio, eppure già pronti a cantare in mezzo alla strada e a vendere di tutto, a qualsiasi prezzo, gridando le proprie offerte e contrattandole come avrebbero fatto i turchi.

Non era stata tanto la curiosità a spingerlo a fare quel sopralluogo, quanto delle voci che volevano ci fossero dei dissidenti, nascosti nella popolazione civile. Era convinto che, allungando l'occhio laddove nessuno aveva ancora guardato, e chiedendo nei posti giusti, avrebbe trovato facilmente una conferma o una smentita per quei sospetti.

Improvvisamente distratto dal luccichio di un monile, che rifletteva il sole dal banchetto coperto di cenci su cui era stato messo in mostra, il Corella non si accorse di essere scrutato da un uomo dallo sguardo torvo e dalla mano svelta.

“Diavolo di un Duca!” gridò, avventandoglisi contro, un pugnale in alto, ben visibile, ma implacabile.

Miguel si accorse dell'attacco all'ultimo istante e riuscì a schivare il colpo solo perché, voltandosi, il suo mantello si impigliò nel braccio teso dell'attentatore. Ci fu qualche istante convulso, durante il quale nessuno dei tanti napoletani che assistevano alla scena vi prese parte.

Michelotto riuscì ad aver ragione abbastanza in fretta dell'aggressore che, forse anche alticcio, si lasciò disarmare in fretta e, capito di esser stato battuto e quindi di essere concretamente in pericolo di vita, scoppiò a piangere.

“Che aspettate?! Prendetelo!” sbottò il Corella, rivolgendosi ai francesi che gli facevano da scorta.

Questi, dopo essersi scambiati un lungo sguardo, si mossero finalmente in avanti e presero in consegna il napoletano che aveva osato alzare le mani contro il più fidato compare del Valentino.

“Voleva uccidere il Duca!” gridò Miguel, guardandosi attorno, con aria minacciosa: “Avete sentito tutti cos'ha gridato!”

L'uomo, smettendo di colpo di piangere e apparendo confuso, guardò meglio il valenciano, poi, dopo aver boccheggiato per un po', chiese: “Tu chi sei? Non sei il Valentino?”

Michelotto, che aveva già capito di essere stato scambiato per l'amico, scosse la testa e lo squadrò con i suoi occhi sottili e freddi: “No, animale.” sussurrò e, per puro spregio, gli diede un pugno nello stomaco.

Mentre l'attentatore cercava di tornare a respirare, i francesi cominciarono a borbottare qualcosa tra loro. Per farli smettere, il Corella decise di prendere definitivamente in mano la situazione e sottrarsi, almeno, alla curiosità dei napoletani, che sembrava andare quasi oltre il morboso. Ora, oltre alle persone che infestavano la via all'inizio, si erano aggiunti bambini usciti dalle case, anziani che guardavano dalle finestre e pure un cane randagio che mostrava i denti, forse nella speranza di poter attaccar briga anche lui.

“Venite con me. Lo porteremo al Duca: vedrà lui che farne!” ordinò Michelotto.

Malgrado l'uomo avesse cominciato a camminare, però, si accorse che i francesi non stavano facendo altrettanto, anzi, sembravano aver allentato la presa sul prigioniero.

“Che c'è?” chiese allora il valenciano, subodorando qualche problema non indifferente.

Da quando Cesare aveva iniziato quella disgraziata campagna militare, uno dei suoi più grossi problemi era stato farsi rispettare come comandante generale. Ultimamente, poi, aveva commesso errori gravi che gli avevano fatto perdere anche quella poca autorevolezza che aveva conquistato con fatica. Un esempio per tutti era stato lasciare che fosse il re di Francia, anzi, il Cardinale di Rouen, a decidere cosa ne dovesse fare, Giovan Francesco Sanseverino, del suo ostaggio veneziano.

“Andiamo.” ribadì Miguel, girando appena la testa, cercando di cogliere ogni sfumatura nel volto dei soldati che l'accompagnavano.

“Quest'uomo è solo un ubriaco....” minimizzò uno dei francesi: “Ha preso troppo sole e ha bevuto troppo vino... Perché ammazzarlo e farsi odiare per una cosa così...”

“Voleva uccidere il Duca.” fu la logica obiezione del Corella.

“Credeva di aver visto in voi il Duca...” si intromise un secondo: “Non vi basta per capire quanto sia ubriaco e fuori di sé?”

“Se prendessimo e mettessimo ai ceppi tutti gli ubriachi di Napoli, potremmo uccidere mezza città...” sorrise il primo.

Michelotto fu sul punto di mettere mano alla spada. Capiva molto bene le intenzioni di quelli che si dichiaravano alleati. Non era un eccesso di bontà, il loro, né umana comprensione verso un poveraccio. Era ben altro.

“Va bene.” disse, con molta calma, raddrizzando la schiena e sollevando un sopracciglio: “Allora liberatelo.”

I francesi, sorpresi di averla avuta vinta tanto facilmente, fecero comunque quello che era stato detto loro e poi rimasero in attesa.

“Adesso voglio andare un momento in chiesa, a pregare.” la dichiarazione di Miguel, noto spergiuro e miscredente, lasciò gli altri basiti, ma nessuno osò esprimere apertamente la propria sorpresa.

Alzando la mano, in modo che nessuno lo seguisse, l'uomo avanzò in fretta lungo la via, scostando le persone che, ancora accalcate per vedere che stava accadendo, gli imbrogliavano la strada. Si infilò nella prima chiesetta che trovò e, recitando al suo meglio, andò fin quasi all'altare, si buttò in ginocchio e giunse le mani, come se stesse realmente pregando e non solo aspettando che i francesi rientrassero ai loro alloggi, lasciandolo libero di tornare da Cesare. C'erano molte cose di cui doveva parlargli.

 

A pranzo, a sorpresa, Troilo De Rossi non si era presentato a tavola. Si era scusato preventivamente con Caterina, spiegandole che aveva appena ricevuto una missiva che gli imponeva di tornare in città per mezzogiorno per prendere determinati ordini.

Nessuno aveva risentito della sua assenza, tranne Bianca che, comunque, aveva saputo dissimulare tanto bene la sua delusione, da apparire quasi più allegra del solito.

La Tigre, invece, cominciava a essere inquieta, per quella presenza scomoda in casa. Non le piaceva il fatto che l'uomo, appena arrivato, fosse già stato richiamato da chi stava sopra di lui, per ricevere direttive. Evidentemente, era tenuta più sotto controllo di quello che credeva.

Così, nel primissimo pomeriggio, scrisse un paio di righe, in latino, sperando che fosse un deterrente discreto per eventuali intercettazioni da parte della servitù, e chiese che venisse recapitata a Fortunati che, da un paio di giorni, aveva lasciato la villa.

Forse la sua era eccessiva prudenza, ma preferiva ci fosse anche il piovano, con lei. Un po' la metteva a disagio, pensare di aver bisogno di un uomo come Francesco, pacato, un vero diplomatico, per proteggerla. Un tempo, si diceva, lei sarebbe bastata a se stessa grazie alla sua spada, al suo pugnale e alla sua forza fisica.

“Non potete mandare lettere.” aveva borbottato il capo della servitù, quando la donna gli aveva chiesto di far recapitare il suo messaggio al piovano.

“Fortunati è il mio confessore – aveva tagliato corto – ho il permesso di chiedergli di venire qui per dare conforto alla mia anima.”

Siccome il domestico, con un atteggiamento più simile a quello di un carceriere che non a quello di un servo, l'aveva guardata di sottinsu con circospezione, la Leonessa aveva fatto il gesto di riprendersi la missiva, bofonchiando che non importava, che avrebbe fatto a meno della confessione e del conforto che necessitava, anche se ciò andava contro i dettami di Santa Madre Chiesa.

“Avete già frate Lauro.” aveva fatto presente il domestico, ma con minor sicurezza.

“Frate Lauro mi dà conforto, è vero – aveva allora mentito la Sforza – ma messer Fortunati è più colto, può spiegarmi meglio le scritture... Ma se non si può... Mi farò scrivere dal re di Francia in persona un permesso per...”

“E va bene!” l'aveva fermata il servo, riagguantando la lettera: “La farò recapitare il prima possibile.”

E così, prima che scendesse la sera, Fortunati era arrivato alla villa. Troilo, in volata da Firenze, arrivò poco dopo, e i due, appollaiati alla finestra di uno dei salottini, lo videro molto bene.

“Che ne pensi?” chiese Francesco, indicando con un cenno del capo il De Rossi, che stava lasciando il cavallo a uno dei ragazzi che si occupavano della stalla.

“Non lo so.” rispose, con franchezza, la donna: “Mi sembra un uomo di valore, ma è comunque dalla parte dei francesi.”

Il piovano seguì la figura agile e scattante dell'emiliano fino al momento in cui non fu più visibile, e poi tornò a guardare Caterina: “In altri tempi – le disse, senza riuscire a trattenersi – un tipo come lui ti sarebbe piaciuto.”

La Leonessa, dopo i drammatici giorni e le interminabili notti passate con Cesare Borja dopo la caduta di Ravaldino, non aveva quasi più pensato a nessun uomo in quei termini. Solo i ricordi di Giacomo e di Giovanni, e di qualche sporadico amante, come Ottaviano Manfredi, a volte l'avevano accompagnata, ma, per il resto, provava una sorta di disinteresse o, meglio, di fredda repulsione, nei confronti di tutto ciò che aveva a che fare con la carnalità.

Anche se, con l'andare delle settimane, il suo corpo era tornato più in forze, e la relativa tranquillità l'aveva portata a non badare più solo ai bisogni strettamente primari, come mangiare e dormire, per la Leonessa gli uomini non erano ancora tornati a essere qualcosa di interessante.

“Hai ragione.” disse solo: “In altri tempi, forse...”

“Tra poco tuo figlio Sforzino farà quattordici anni, giusto?” cambiò discorso il piovano, scorgendo un'ombra sul viso della Tigre che non gli piaceva.

“Sì.” ammise lei, ricordandosi come quella ricorrenza sarebbe cauta il 17 agosto: “E una settimana dopo li compie mio figlio Cesare. Lui ne fa ventuno.”

Ricordava molto bene le circostanze della nascita di entrambi e quella memoria le acuì il senso di nausea che aveva provato poco prima, riportando alla mente la prigionia trascorsa sotto le dirette grinfie del Valentino.

“Devi cambiarti per la cena?” chiese Francesco, cercando, disperatamente, di cambiare di nuovo argomento, per togliere un po' di cupezza dal viso della milanese.

“No, io resto vestita così.” disse piano lei, che già indossava uno degli abiti più belli che la Scali le aveva donato: “Anzi, vado a vedere se stanno già preparando. Appena il De Rossi ci farà sapere di essere pronto, voglio tutti a tavola.”

E così detto, con il tono militaresco che tante volte aveva animato la sua voce, la donna andò alla porta, lasciando solo il piovano.

Questi, in parte rincuorato da quell'ultimo sprazzo volitivo della donna che aveva deciso di servire fino alla morte, si passò una mano sul giacchetto scuro, si tolse un po' di polvere dalle brache, e decise che, a parte gli stivali, che avrebbe cambiato con calzari più comodi, anche lui poteva già dirsi pronto per la cena. In fondo, pensò, era curioso di conoscere meglio quell'emiliano che tutti dicevano essere di buone maniere, ma dall'animo imperscrutabile.





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