Carissimi
lettori e lettrici,
ecco
qui un altro po’ di mappazzone, spero che non vi sia ancora venuto a
noia.
Come
sempre vi ringrazio per il vostro costante sostegno e vi auguro buona
lettura^^
Quando
von Knobelsdorff riaprì gli occhi, seduto sullo sgabello c'era un
ufficiale diverso dal capitano medico.
Era
un tizio che poteva avere forse trent’anni, di corporatura
poderosa, probabilmente altissimo. Rannicchiato sul piccolo sedile,
dava l'idea di riempire completamente il ridotto con le sue enormi
spalle.
“Maggiore
Klaus Wrede,” si presentò, tendendo una mano larga come una vanga
da trincea.
Il
giovane la intercettò con la propria, che vi scomparve dentro come
quella di un bambino, e sua volta si presentò: “Tenente Maximilian
von Knobelsdorff.”
“Ha
sete, tenente? Vuole bere un po’ d’acqua?”
Egli
annuì. “Sì, per favore.” Con un riflesso involontario provò a
deglutire, ma il movimento rimase a metà.
L’altro
lo prese per le spalle e lo sollevò come avrebbe fatto con un gatto,
aiutandolo a mettersi seduto. Gli porse a quel punto un bicchiere di
latta e gli chiese: “Ce la fa da solo?”
Von
Knobelsdorff, che malgrado ogni proposito di dignità e compostezza
non aveva occhi che per l’agognato liquido, lo prese con due mani e
se lo portò alle labbra.
Lo
vuotò d’un fiato.
“Ancora?”
chiese Wrede.
“Sì,
grazie.”
Mentre
si dissetava, von Knobelsdorff si accorse di avere due vistose
medicazioni ai polsi. Portò una mano a toccarsi cautamente la
schiena e percepì anche quella coperta di garza.
Il
maggiore attirò la sua attenzione: “E così, lei è un ulano.”
“Sissignore.”
“E
un pilota da caccia.”
“Sissignore.”
L’altro
si mosse sullo sgabello, che scricchiolò sotto il suo peso, poi
disse: “Cavalleria. Anche a me sarebbe piaciuto, sa? E non parliamo
degli aeroplani.”
Il
tenente non replicò: forse quel gigantesco ufficiale sarebbe potuto
entrare nella Garde du Corps, posto che avesse anche gli altri
requisiti necessari per far parte di quell'unità d'élite, ma di
certo non sarebbe mai riuscito a infilarsi in un Albatros. Non con la
pretesa di uscire vincitore da un duello aereo, almeno.
“Capisco,”
si limitò a dire.
“Altra
acqua?” propose il maggiore.
“No,
grazie, signore.”
Rimasero
a guardarsi in silenzio. Da fuori, attutito dalle spesse pareti di
terra, proveniva un tuonare sordo. A un certo punto, una detonazione
particolarmente forte fece oscillare la lampada che pendeva dal
soffitto.
Wrede
alzò appena lo sguardo e disse: “Picchiano forte, oggi.”
Il
tenente lasciò passare qualche secondo, poi chiese: “Più forte
del solito, signore?”
L’altro
gli rivolse uno sguardo vagamente interrogativo, alzò le spalle e
noncurante rispose: “No, non direi.” Poi, dopo una pausa:
“Perché?”
Von
Knobelsdorff rimase in silenzio. L’impressione naturalmente era che
gli inglesi volessero recuperare lui e l’agente segreto, ma appunto
era solo un’impressione.
Si
chiese dove fosse l’agente segreto. Ormai si era abituato a vederlo
spuntare quando meno se l’aspettava, in un certo qual modo ne
sentiva la mancanza.
O
forse qualcosa di più di una semplice mancanza.
La
voce del maggiore Wrede lo distrasse dalle sue meditazioni: “Vuole
raccontarmi cosa le è successo, tenente?”
Von
Knobelsdorff scosse la testa. “Non posso.”
Lo
sguardo dell’altro si indurì. “Temo di non capire. Lei sta
parlando con un ufficiale del suo stesso esercito, se è vero che è
tedesco.”
“Sono
più tedesco dei Sauerkraut,
ma si tratta di informazioni che non sono autorizzato a rivelare.”
Wrede
annuì lentamente, quindi replicò: “Questo atteggiamento non la
mette in una posizione facile. Lo sa, vero?”
“Ne
sono consapevole.”
Tra
i due calò il silenzio.
Infine,
il maggiore si alzò. Tenendosi un po' curvo per non toccare il
soffitto con la testa, gli disse: “Se umanamente sarei portato a
concederle fiducia, tenente, dal punto di vista militare è mio
dovere dubitare delle sue parole fino a che esse non mi verranno in
qualche modo confermate.”
Von
Knobelsdorff annuì. “Lo capisco. L'unica cosa che posso fare è
suggerirle di interpellare il mio comandante, il maggiore von Stade
della Jasta 6.”
Wrede
gli rivolse un'occhiata indecifrabile, poi replicò: “Non lo
sapeva, tenente? Il maggiore von Stade è caduto in combattimento due
giorni fa.”
§
Il
palazzo dei servizi segreti britannici a Parigi non era nulla di
pomposo. Tutto il contrario, anzi: era il retro di un negozio di
modista, in una strada della prima periferia.
Le
lettere dell’insegna erano ormai sbiadite. Nella vetrina un po'
polverosa c'era solo un tristo assortimento di cappellini e borsette
fuori moda. La commessa – in realtà una delle loro agenti – era
una megera dall’aria burbera, per evitare che a qualche ingenua
cliente venisse comunque l'idea di entrare a curiosare.
The
Bishop sostò qualche istante dall'altra parte della strada, dandosi
l'aria di non essere minimamente interessato a quella mesta
esposizione, poi attraversò con passo misurato, si guardò
fugacemente intorno e si infilò rapido nel vicolo che si apriva
accanto al negozietto.
Il
selciato era sconnesso, al centro della carreggiata correva un
rigagnolo d'acqua che scompariva in un tombino poco lontano. Dalle
finestre pendevano festoni di panni stesi.
Da
qualche parte, una voce femminile stava cantando Quand
Madelon.[1]
The
Bishop si fermò ad ascoltare assorto per qualche secondo, poi svoltò
in un vicolo ancora più angusto. Raggiunse una porta dall'aria
anonima, con la vernice un po' scrostata. Bussò un paio di volte.
Dall'altra
parte, qualcuno chiese: “Chi è?”
“Sono
qui per la caldaia,” rispose.
“Chi
l'ha chiamata?”
“La
signorina del negozio. C'è stata una perdita.”
L'udito
fine dell'agente colse il ben lubrificato scatto di vari
chiavistelli.
Entrò
in un androne in penombra, salutò chi gli aveva aperto la porta, poi
a voce più alta disse: “Salve a tutti!”
Da
alcune feritoie mascherate nel muro provennero varie risposte.
Sapeva
che quelle aperture permettevano a osservatori e fotografi, ma
soprattutto a tiratori scelti, di tenere d’occhio quello che
succedeva nella stanza. Immaginò il Werwolf in quello stesso
androne, esattamente nella posizione in cui si trovava lui in quel
momento, e un sorrisetto gli stirò le labbra. “C’è il capo?”
chiese.
“È
di là,” giunse la risposta, da una delle feritoie.
Da
un’altra provenne: “Fatto buona caccia?”
The
Bishop rispose con un'alzata di spalle, poi si diresse a un
corridoio, lo imboccò e lo percorse fino a una porta chiusa. Vi si
fermò di fronte.
Dall’altra
parte provenne: “Avanti!”
Egli
abbassò la maniglia, l’anta cedette senza rumore.
Al
di là vi era un ufficio. Lungo una delle pareti correva una mensola
su cui si trovavano apparecchi telegrafici e telefoni, su quella
opposta c’erano schedari e armadi per documenti.
Al
centro si trovava una scrivania dietro cui sedeva quello che a prima
vista si sarebbe detto l’anonimo contabile di una piccola impresa:
né magro né grasso, né vecchio né giovane, occhiali tondi
cerchiati di metallo, incipiente calvizie, abiti modesti. Nessun
segno particolare, nessuna caratteristica che attirasse una seconda
occhiata.
Eppure
the Bishop sapeva bene che quell'ometto dall'aria insignificante era
maestro di almeno quattro arti marziali, era uno schermidore
eccezionale e un tiratore altrettanto pericoloso.
“Malcolm,
ragazzo mio,” lo accolse questi. Gli indicò la sedia che si
trovava davanti alla scrivania.
“C'ero
quasi,” sospirò l'agente segreto prendendo posto. Si passò una
mano sulla fronte. Praticamente non dormiva da quando aveva
cominciato la caccia al Lupo Mannaro. Una volta arrivato a Parigi era
riuscito a malapena a farsi una doccia e a mangiare un boccone, poi
era corso a far rapporto. Poteva scommettere che il suo capo, che in
quel momento lo stava guardando come il Figliol Prodigo, non fosse
per nulla soddisfatto di come erano andate le cose. “È scappato,”
disse semplicemente, sperando che la scarna affermazione fosse
sufficiente a esaurire l'argomento. “Se n'è andato con un
aeroplano.”
L'altro
rimase impassibile. Raddrizzò un foglio che si trovava sul piano
della scrivania, allineò le penne accanto al calamaio e si assicurò
che il suddetto fosse chiuso a dovere. “Capita,” disse poi in
tono pacato.
Calò
un silenzio rotto solo da un vago ticchettare di strumenti. In
lontananza, fioco, suonava un telefono.
Alla
fine, the Bishop replicò: “Ma non doveva capitare.”
L'uomo
annuì. “Te ne do atto. Potrei risponderti che ad
impossibilia nemo tenetur,
ma sai anche tu che non funziona così.”
“Pensa
che mi trasferiranno?”
L'uomo
alzò le spalle. “Forse. C'è bisogno di bravi agenti in Africa e
in Asia.”
The
Bishop non replicò. Avrebbe potuto raccontare tutto quello che era
successo da quando gli avevano trasmesso la soffiata sulla presenza
del Werwolf dietro le loro linee, ma ai piani alti contavano i
risultati, non l'impegno.
Non
che biasimasse quell'atteggiamento, in effetti. A differenza di
quella che si svolgeva nelle trincee, che comunque qualche regola la
conservava, quella tra agenti segreti era davvero una guerra senza
quartiere e senza esclusione di colpi. Non c'era posto per
volonterosi pasticcioni.
Il
dossier scorre attraverso la scrivania fino a fermarsi davanti a lui.
Egli solleva lo sguardo verso l'uomo che gliel'ha consegnato, ma
incontra solo un volto impenetrabile. Apre il plico di documenti, la
prima fotografia che trova lo costringe ad alzare di nuovo gli occhi
sul suo interlocutore.
Questi
gli restituisce uno sguardo impassibile.
“È
sicuro?” gli chiede allora.
“L'hanno
fotografato mentre passava informazioni a un agente tedesco.”
Nel
dossier c'è anche quell'immagine.
“Come
può essere certo che gli stesse passando informazioni?”
La
voce dell'uomo ha il tono dell'ovvietà: “Perché una cosa che
sapeva solo lui, dopo poco la sapevano anche i tedeschi.”
Egli
aggrotta le sopracciglia. “Si spieghi meglio.”
Un
altro documento attraversa la scrivania per arrivare fino a lui. Egli
lo legge con crescente disagio: una trappola in piena regola, un
ghiotto boccone passato ai servizi segreti tedeschi per avere le
prove del doppio gioco portato avanti dall'agente inglese.
Quelle
prove devono essere costate almeno duecento morti, riflette fra sé e
sé. Ma d'altra parte, il mestiere che si è scelto è così: a volte
bisogna sacrificare duecento persone per farne sopravvivere
duecentomila.
Un
agente segreto che vuole definirsi veramente tale deve essere in
grado di spogliarsi dei sentimentalismi che affliggono la gente
comune.
Riguarda
il dossier: la prima fotografia che ha attirato la sua attenzione è
quella di un giovanotto dall'aria spavalda, atletico, con l'elegante
uniforme della cavalleria. Quel giovanotto si chiama Richard ed è
stato proprio lui a selezionarlo fra innumerevoli candidati.
“Perché
io?” chiede.
L'altro
solleva le sopracciglia, quasi stupito dalla domanda. “Ma perché
era sotto la sua responsabilità, mi pare ovvio.” Fa una pausa e
soggiunge: “Naturalmente le sue azioni saranno tenute sotto
controllo.”
“Naturalmente,”
fa eco lui. “Il fatto che io possa nutrire sentimenti di affezione
nei confronti del soggetto è irrilevante per voi?”
“Dovrebbe
esserlo per lei,” è la risposta, proferita in tono di inflessibile
durezza. “Perché se non lo è, colonnello Norwood, penso che lei
sia più adatto al suo reparto di provenienza, che ai servizi
segreti.”
Guarda
e riguarda la fotografia: un giovanotto di bell'aspetto, con lo
sguardo vivace e il sorriso sfrontato di un guascone.
Si
chiede chi sia stato ad avvicinarlo, su cosa abbia fatto leva per
convincerlo a tradire il suo Paese. Ripercorre la composizione della
sua famiglia, che ha minuziosamente vagliato prima di accettarlo come
allievo, la rete dei suoi affetti, amici, fidanzate... non c'è nulla
su cui sia possibile esercitare pressioni.
Lusinghe,
dunque, e non ricatti?
Che
cosa gli avrà promesso, l'agente che l'ha contattato? Soldi? Potere?
Che altro?
Decide
di seguirlo. Il ragazzo è ancora per certi aspetti inesperto, e per
quanto durante certi spostamenti si guardi alle spalle,
essenzialmente non sa su cosa sia più opportuno fissare
l'attenzione.
I
primi pedinamenti sono infruttuosi, ma finalmente un giorno lo segue
fino a un caffè elegante del centro. Si nasconde lì vicino. Il
giovanotto entra, parla con il cameriere e poi si accomoda in una
zona un po' appartata. Ordina qualcosa, e il vassoio che dopo poco
gli viene deposto sul tavolino contiene un servizio per due persone.
Aspetta.
Anche
Richard, là seduto, aspetta. Prende qualcosa da un piattino, lo
mangia. Si muove sulla sedia con l'atteggiamento di un bambino
impaziente.
Egli
considera che sembra in preda a qualcosa di molto simile a una
gioiosa aspettativa, ma al tempo stesso continua a guardarsi intorno
a disagio, come consapevole di stare facendo qualcosa di sbagliato.
Aspetta
ancora.
Infine
vede un giovane uomo avvicinarsi al locale. È di altezza media,
snello, vestito con sobria eleganza. Anche lui entra e parla con il
cameriere, che subito lo conduce al tavolo di Richard.
Quando
lo vede senza cappello, egli quasi trasale: è il Werwolf.
I
due si scambiano uno sguardo che si presta a pochi equivoci. Il modo
in cui le loro mani si sfiorano sul tavolino, poi, è ancora meno
fraintendibile.
Rimane
a guardarli: il Werwolf parla e Richard letteralmente si beve le sue
parole, fissandolo affascinato.
Si
chiede perché sia successo. Richard è omosessuale, o magari
bisessuale? Sono stati insieme nelle più svariate occasioni, in
intimità impensabili, a volte anche nudi. Perché non ha mai avuto
il sentore di certe tendenze?
Forse
il Werwolf non è un lupo mannaro, ragiona, ma un serpente, che
ipnotizza le sue vittime. Fatto sta che lui e Richard sono nudi,
distesi sul letto di una discreta pensioncina di campagna, impegnati
in attività che lui ha persino ritegno di guardare.
Soppesa
la pistola e pensa che sarà tutto molto semplice: un calcio alla
porta e due colpi in testa a quel maledetto tedesco. Più altri due,
per essere sicuro. Poi deciderà cosa fare di Richard, ma già sta
pensando a destinazioni lontane o a discreti congedi anticipati.
Non
era stato semplice per niente: al rumore della porta che si
spalancava, il Werwolf si era rigirato con un colpo di reni
scomparendo dietro il letto, e chi aveva intercettato le pallottole
letali era stato il suo allievo.
Poi
il tedesco si era dileguato e lui non aveva potuto fare altro che
tenere fra le braccia il giovane, mentre agonizzava e infine spirava
per le ferite che lui stesso gli aveva inferto.
“Due
settimane,” disse the Bishop.
L’uomo
lo fissò perplesso. “Prego?”
“Mi
servono un paio di settimane per chiudere una questione, poi vado in
Asia, in Africa o anche sulla Luna, se mi ci manda.”
L’altro
scosse la testa e rispose: “Non è possibile, Malcolm: siamo in
guerra. Le faccende personali non possono...”
“No,
niente Malcolm,” lo interruppe brusco l’agente segreto. “Io
sono the Bishop, e sono il migliore agente segreto della Corona. Se
mi lascia due settimane, le do la mia parola d’onore che tornerò
puntualmente e poi mi metterò a sua completa disposizione. Se invece
prova a fermarmi, io andrò lo stesso, ma lei dovrà trovarsi qualcun
altro da spedire nelle colonie.”
Si
fissarono in silenzio per un tempo che parve interminabile. Uno dei
telefoni che si trovavano sulla mensola si mise a squillare, ma
nessuno dei due si lasciò distrarre da quel suono improvviso.
Rimasero
immobili, occhi negli occhi.
Infine
lentamente, senza distogliere lo sguardo, l'uomo scandì: “Tu sei
un agente segreto, Malcolm. Non mi importa se sei il migliore o il
peggiore, hai comunque scelto di svolgere il tuo servizio come tale,
il che significa che hai scelto di rinunciare a personalismi e
paturnie sentimentali.” Fece una pausa, durante la quale la sua
espressione altrimenti mite si trasformò in una lama d'acciaio, poi
specificò: “Hai scelto,
bada bene, non ti ha costretto nessuno. Ora però sei qui, e devi
fare quello che ti viene ordinato. Non me ne faccio niente di
primedonne che siccome si reputano migliori di altri pensano di poter
fare ciò che vogliono. Obbedisci agli ordini o torna al tuo reparto,
è tutto.”
The
Bishop annuì secco. “Perfetto, ho capito,” rispose, e uscì
dalla stanza.
§
Il
tenente von Knobelsdorff sollevò lo sguardo verso la finestra, ampia
ma attraversata da un solido reticolo di sbarre.
Il
comportamento del maggiore Wrede era stato ineccepibile sotto ogni
aspetto. Una volta appurato che non aveva intenzione di rivelare
particolari della sua missione, l'erculeo ufficiale l'aveva fatto
trasferire nelle retrovie, ovviamente agli arresti. Non gli aveva
fatto mancare comunque cibo, acqua e scrupolose cure mediche. Anche
se non l'aveva mandato a un ospedale da campo, un dottore andava a
visitarlo ogni giorno, accompagnato da due infermieri, per
controllare la guarigione delle sue ferite e rifare le medicazioni.
Si
chiese cosa sarebbe successo. Una volta morto von Stade, nessuno
avrebbe potuto confermare che il suo ruolo in quella strana missione
era a favore della Germania.
I
due agenti segreti che l'avevano istruito, la giovane donna e l'uomo
allampanato, probabilmente non esistevano nemmeno, a livello formale.
Poteva scommettere che nessun ufficiale superiore, lungo tutta la
linea del fronte, sapesse di loro. Se anche li avesse menzionati, nel
migliore dei casi non sarebbe stato creduto, oppure sarebbe stato
considerato pazzo.
Man
mano che passava il tempo, poi, anche le sue certezze si facevano
sempre meno solide. Cos'avrebbe dovuto fare? Come sarebbe andata a
finire?
Seduto
sulla branda, puntò i gomiti sulle cosce e poggiò il viso tra le
mani. Quando si piegava in avanti, come nel movimento che aveva
appena compiuto, la schiena gli faceva male. Sentiva la pelle
stirarsi e allora di solito si raddrizzava, temendo di far riaprire
le ferite.
In
quel frangente rimase immobile. Fissò gli occhi sul pavimento,
composto da vecchie piastrelle di graniglia bigia, e rivolse il
pensiero all'agente segreto.
Si
chiese dove fosse, tanto per cominciare, se avesse portato a termine
la sua missione. Se stesse bene, soprattutto, dal momento che quando
era scomparso aveva ancora una pallottola nel fianco.
Ripensò
al nome che l'uomo aveva pronunciato quando, stremato, si era
abbandonato a pochi istanti di incoscienza: Reiner.
Si
chiese chi fosse quel Reiner e rievocò qualcosa come uno strano
dialogo, con qualcuno che aveva la sua stessa faccia. Una frase gli
risuonò in mente: si
muore per rinascere.
Un
presagio?
Il
rumore della serratura che scattava lo distolse dalle sue
meditazioni.
La
porta si aprì, due piantoni lo prelevarono e lo condussero lungo un
corridoio, fino a una stanza ampia, illuminata da larghe finestre e
quasi spoglia di mobili, a parte un tavolino e qualche sedia.
Lo
lasciarono solo.
Egli
fece qualche passo guardandosi intorno. L’avevano fatto uscire
altre volte, ma non l’avevano mai portato in quel posto. Sui muri
c'erano rari graffiti, per il resto erano immacolati, verdi fino a
circa due metri d'altezza e poi bianchi. Il pavimento era della
stessa graniglia bigia della cella. Il soffitto, altissimo, era a
volta e dava l'idea di essere piuttosto antico.
Mentre
camminava per l'enorme locale, i suoi passi echeggiavano come nella
navata di una chiesa.
Si
sedette al tavolino, appoggiò gli avambracci sul piano del mobile.
Si guardò i polsi ancora fasciati, girò le mani con i palmi verso
l'alto e strinse lentamente le dita, come per accertarsi che
funzionassero ancora.
A
quel punto, il rumore di una porta che si apriva spedì un riverbero
di echi sul soffitto. Egli si girò in quella direzione e vide che
stavano entrando due ufficiali e un uomo in borghese.
Gli
ufficiali ormai li conosceva, erano un colonnello di fanteria e un
maggiore degli ulani. Erano già venuti in precedenza a fargli
domande sulla missione.
L’uomo
in borghese invece non l’aveva mai visto.
Si
alzò e si mise sull'attenti.
“Comodo,”
gli disse il colonnello. Lo raggiunse e propose: “Vogliamo sederci
un momento?”
“Sissignore.”
Il
tenente prese posto.
Al
lato opposto del tavolo si sistemarono gli altri tre.
Von
Knobelsdorff fissò lo sguardo sul civile, che sedeva tra i due
ufficiali, quindi proprio di fronte a lui: alto, legnoso, con una
scriminatura centrale che sembrava un colpo d'accetta e la cicatrice
della Mensur[2] sulla guancia. Portava il monocolo all'occhio destro.
“Siamo qui per capire come aiutarla,” lo informò.
“Allora
mi faccia riprendere i voli di guerra, non chiedo altro.”
L'altro
rimase impassibile. Annuì secco, quindi rispose: “Tornerà in
servizio, eventualmente, quando avremo chiarito la sua posizione.”
“Ho
già detto tutto quello che so.”
A
quelle parole fece seguito un lungo silenzio.
Infine
l'uomo si tolse il monocolo, lo lucidò brevemente con un fazzoletto
candido, se lo reinserì nell'orbita e disse: “Tenente, lei è
arrivato di fronte alle nostre linee ai comandi di un aereo inglese,
con addosso un'uniforme inglese. Racconta che stava compiendo una
missione per conto dei nostri servizi segreti, ma non mi sa dire un
nome o una circostanza per provare la veridicità delle sue
affermazioni. Non mi sa spiegare di che genere di missione si
trattasse, né sa darmi lumi sull'identità della persona che a suo
dire la accompagnava. Persona di cui non è stata trovata traccia, le
faccio notare.”
Il
tenente annuì come per prendere atto di tutte quelle obiezioni, poi
rispose: “Le ripeto, signore, che ho già riferito ogni
informazione in mio possesso. Non mi è stato detto alcun nome, né
dato alcun riferimento, per evitare che in caso di cattura li
riferissi al nemico. Ho ricevuto l'ordine di atterrare dietro le
linee in un dato punto e raccogliere una persona. Non so altro.”
“E
quello che è successo dopo?”
“Qualcuno
ci ha intercettati.”
“Com'è
possibile?” Il tono dava l'idea che l'uomo considerasse l'accaduto
una sua precisa responsabilità.
Von
Knobelsdorff si irrigidì. Fissò alternativamente i due ufficiali
come aspettandosi un loro intervento, che però non giunse. Rivolse
allora nuovamente lo sguardo al civile e rispose: “Posso solo
formulare ipotesi, signore, e nella fattispecie ipotizzo che
l'informazione sia in qualche modo trapelata.”
Alla
frase fece seguito un altro lungo silenzio. L’uomo si lucidò
nuovamente il monocolo, quindi lapidario proferì: “Lei non ci sta
aiutando.”
“Vorrei
poterlo fare, signore, ma ho detto tutto quello che so.”
L’altro
strinse l’occhio libero e le labbra, che divennero un taglio
orizzontale nel viso granitico. Infine lentamente scandì: “Vorrei
che le fosse chiaro, tenente, che se lei non ci aiuta, noi non
possiamo aiutare lei. Mi spiego?”
[1]
Canzone militare francese, più nota come La
Madelon, molto
popolare durante la Grande Guerra.
[2]
Duello rituale tradizionale combattuto con sciabole affilate nelle
Università dei paesi di lingua tedesca. Le cicatrici lasciate da
questi combattimenti erano motivo d'orgoglio e al tempo stesso segno
di istruzione universitaria.
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