Il
ronzio dell’elettrocardiografo riempiva la stanza d’ospedale
e una gelida luce bianca illuminava l’ambiente d’una luce
cruda, spettrale.
Erron
Black, seduto accanto al letto di Kung Jin, lasciava vagare lo
sguardo, quasi cercasse un punto fermo.
Strinse
il pugno destro e un basso ringhio morì sulla sua maschera.
No, non aveva senso cercare di nascondere la realtà delle
cose.
I
medici, con lui, erano stati chiari.
Non
c’era nessuna speranza.
I
danni riportati erano troppo gravi ed era subentrata la morte
cerebrale.
Fissò
lo sguardo sul viso del monaco arciere. La sofferenza dei primi
giorni era svanita e il suo viso era disteso in una espressione
tranquilla.
Sembrava
immerso in un quieto sonno.
Troppo
tranquilla., pensò Erron.
Quella serenità era il preludio alla morte.
Il
dolore, segno straziante di vita, era svanito e aveva lasciato spazio
ad una calma gelida.
Con
un gesto di frustrazione, scosse la testa. Perché non aveva
ucciso Kung Jin?
Aveva
vinto il Mortal Kombat, eppure non era riuscito a porre termine alla
vita di quel giovane.
Il
suo volto gli aveva fatto riemergere ricordi a lungo dimenticati e
sepolti sotto la montagna del suo cinismo.
Cento
anni non erano riusciti a cancellare le memorie del suo legame con
Aquila Rossa.
Quel
coraggioso e valoroso nativo non era svanito dalla sua mente e dal
suo cuore e lo rivedeva nei lineamenti di Kung Jin.
I
loro volti, malgrado la
distanza temporale, erano
così simili.
Ansimò
e freddi brividi trapassarono la sua schiena. La
sua mente rischiava di sprofondare nella follia.
O
forse si era già persa in un delirio torbido?
Una
risata stridula, priva di allegria, risuonò sulle sue labbra.
Avrebbe dovuto spegnere i macchinari che donavano vita al corpo
inerte di Kung Jin.
Avrebbe
portato a termine il suo lavoro, da troppo tempo rimandato, e,
involontariamente, avrebbe mostrato pietà verso di lui.
Quell’infinita,
dolorosa agonia era crudele e insensata.
Eppure,
non riusciva a decidersi.
Il
suo cuore, da lui creduto gelido e interessato alla materialità,
urlava le sue ragioni e gli impediva di fare quello che era
necessario.
Si
alzò e, per alcuni istanti, percorse a larghi passi la stanza,
cercando di calmare i palpiti del suo cuore. Cosa ne era stato del
gelido sicario, capace di colpire abili combattenti con la precisione
di un manba nero?
Non
riusciva ad essere freddo ed era una condizione essenziale per il suo
lavoro.
Si
faceva frenare da una pietà inconsistente e
priva di senso.
–
Sto
diventando sdolcinato. – brontolò, irritato con se
stesso. Quella confusione era
deleteria e lo portava a nutrire speranze illogiche.
Con
la sopravvivenza di Kung Jin, una nuova possibilità di vita
gli era stata concessa.
Aveva
sognato di potere rimediare alla straziante e mai accettata morte di
Aquila Rossa.
Non
aveva mai voluto ammetterlo, ma non si era perdonato che il suo
ardito amante nativo avesse perso la vita per proteggerlo da un
proiettile di suo padre.
Il
senso di colpa, prima sopito, era riemerso con dilaniante intensità
e non gli dava alcuna tregua.
–
Ma
non è possibile rimediare a quello che è stato. –
mormorò. Kung Jin non si sarebbe mai ripreso e non aveva senso
condannarlo ad una simile, insensata agonia.
Tuttavia,
anche se fosse sopravvissuto, non sarebbe cambiato nulla.
Il
monaco non era stupido e non avrebbe mai cessato di odiarlo, perché
vedeva in lui l’assassino dei suoi amici, con gravi problemi di
personalità.
I
suoi granitici ideali avrebbero frapposto tra di loro un muro
invalicabile di silenzio e risentimento.
Come
poteva, con tali presupposti, nutrire per lui una qualsiasi emozione
positiva?
Non
poteva negare un dato incontrovertibile.
Eppure,
nonostante tutto, poteva mostrare un distorto rispetto verso di lui.
Lanciò
al monaco un estremo, fuggevole sguardo e, per alcuni istanti, nei
suoi occhi cerulei parvero brillare le lacrime.
–
Stai
tranquillo. Ti lascerò andare. Questo bastardo, nonostante
tutto, ha ancora un cuore. –
Si
avvicinò alle macchine e, con un gesto deciso, staccò
la presa della corrente.
Il
respiro di Kung Jin si affievolì sempre più, fino a
spegnersi, come una candela a lungo priva di ossigeno.
Erron,
di schianto, si accasciò sul pavimento, i pugni stretti
convulsamente e il volto pallido, livido. Aveva preso la decisione
giusta, eppure il suo stupido cuore soffriva e la sua mente riviveva
la tragica fine di Aquila Rossa.
Il
cinismo di tanti, troppi anni come sicario non era stato sufficiente
a proteggerlo dall’amarezza di quelle memorie.
–
Devo
ringraziare te, papà. Sono stato troppo buono con te. –
sibilò, furioso. Il reverendo Theodore Black, nel suo stupido
fanatismo, aveva creduto di compiere un’opera meritoria.
Si
riteneva il portatore della verità divina e, forte di queste
convinzioni, credeva di essere immune alla sua vendetta di amante
sofferente.
Quell’idiota
aveva avuto il prevedibile e nauseabondo comportamento dei bigotti di
qualsiasi nazione ed epoca.
Ma
la sua pistola, implacabile, aveva dato a quell’uomo la giusta
punizione.
–
Ma
a cosa è servito? – si domandò, il tono vibrante
di amarezza. Non era pentito di essersi macchiato di parricidio.
Il
suo genitore non meritava alcun rispetto e aveva avuto quello che si
meritava.
Tuttavia,
l’impronta di quell’atto non era svanita, malgrado i
secoli e la sua abilità di sicario.
Quell’uomo
era stato condannato all’Inferno e si compiaceva dei rimorsi,
che, inesorabili, erano tornati a tormentarlo.
Ne
era sicuro, in quei sentimenti vedeva la punizione del Cielo per la
sua immonda sodomia e il suo atteggiamento ribelle.
Strinse
i pugni con maggiore forza e, per alcuni istanti, i singhiozzi
spezzarono il suo petto. Nessuno, in quel momento, contemplava la sua
disfatta mentale e psicologica.
I
soldi, guadagnati con il lavoro di sicario, gli avevano permesso di
comprare un’ora di riservatezza, lontana da occhi indiscreti.
Poteva
concedersi il lusso di piangere le sue lacrime dimenticate.
Qualche
minuto dopo, si alzò, si terse le lacrime con un gesto brusco
e si avvicinò al letto di Kung Jin.
Si
chinò su di lui, si abbassò la maschera e posò
sulle labbra del monaco, ancora rosee, un bacio leggero. Si sentiva
uno stupido, eppure non poteva non esimersi dal compiere quell’atto.
Ma
quale senso aveva? Vi era una ragione?
–
Addio.
Torna da loro. – mormorò.
Sollevò
la mano in un breve gesto di saluto, girò le spalle e, a passo
rapido, deciso, si allontanò.
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