Sentimentalismo e romanticherie,
su Rieducational Channel!
Un
po’ di patimenti del nostro tenente, alle prese con il fosco
principe von Thurn und Taxis. Mi perdonino gli amanti dell’azione,
prometto che presto si riprenderanno i combattimenti.
Grazie
a tutti coloro che mi stanno seguendo!
Nella
solitudine del suo alloggio, Maximilian von Knobelsdorff trasse di
tasca per l'ennesima volta il portasigarette d'oro. Se lo rigirò fra
le dita: leggero, appena satinato. Sul coperchio era inciso un
monogramma in cui le lettere K, L, A e due T si intrecciavano in
eleganti volute.
Premette
un piccolo pulsante e l'oggetto si schiuse morbido.
Sorrise
fra sé e sé. Per racimolare il coraggio di far scattare per la
prima volta quel meccanismo ci aveva messo un po' di giorni.
All'inizio aveva solo conservato il portasigarette con una sorta di
reverente rispetto, celandolo allo sguardo di chiunque e quasi
aspettandosi che il principe potesse da un momento all'altro
presentarsi a controllarne l'integrità, come in certe favole, in cui
abbandonare in modo apparentemente casuale un oggetto e stare a
vedere cosa ne faceva una determinata persona era un modo per mettere
alla prova la fedeltà della suddetta.
Poi
aveva pensato che il Werwolf, più che la sua fedeltà o presunta
tale, volesse mettere alla prova il suo spirito di iniziativa.
Nemmeno
con quella consapevolezza aveva agito. Non subito, perlomeno.
Aveva
speso qualche altro giorno a chiedersi perché l'agente segreto gli
avesse lasciato quell'oggetto, cosa si proponesse di ottenere da lui.
Cos'avrebbe
trovato al suo interno? Un po' si augurava e un po' temeva istruzioni
per una successiva missione, e a volte si era anche figurato
cos'avrebbe potuto rispondere a una richiesta del genere.
Il
suo contenuto, quando finalmente si era deciso ad aprirlo, l'aveva al
tempo stesso deluso e incuriosito.
Niente
biglietti vergati in caratteri misteriosi, niente fazzoletti
impalpabili con mappe di zone nemiche. Solo due sigarette.
Non
sigarette qualunque, in ogni caso: due Sobranie,
nere con il filtro dorato. Gli zar, per quanto ne sapeva, fumavano
sigarette del genere.
Che
cosa significava? Erano due, come loro due. Erano aristocratiche,
come senza dubbio lo erano un principe e un barone. Erano nere,
mentre ogni altra sigaretta era bianca. Questo voleva dire che loro
erano diversi da tutti gli altri? Opposti, forse? A proprio agio
nell'ombra, mentre chiunque altro aveva bisogno della luce?
O
forse era semplicemente lui che faceva volare la fantasia,
impossibilitato a volare materialmente.
Con
un sospiro volse lo sguardo fuori dalla finestra: i camerati erano in
missione, il silenzio che regnava ovunque faceva supporre che
mancasse ancora parecchio al loro rientro.
Richiuse
il portasigarette, se lo fece scivolare in tasca. Inutile negarlo,
aveva anche preso in considerazione l'idea di chiedere il rinvio
all'unità di appartenenza: meglio combattere come ulano che starsene
a far nulla come aviatore.
Avrebbe
voluto raccontare a quel Kunz di come, esausto e ferito, era
decollato, nelle tenebre più complete e mentre gli sparavano contro,
a bordo di un aereo nemico, e poi di come era atterrato, praticamente
sano e salvo, pur senza motore e con un'ala quasi staccata, proprio
davanti alle trincee tedesche.
Chissà
se sarebbe stato capace di fare altrettanto, il capitano Walther
Kunz?
Rinunciò
a darsi una risposta. In fin dei conti non gli importava che il suo
comandante sapesse compiere certe prodezze, bastava che si decidesse
a farlo volare.
Abbandonò
la stanza con l'intento di raggiungere la pista e lì attendere il
ritorno dei camerati.
Quando
scese nel salone, il cuore gli balzò nel petto: c'era il Werwolf.
Era
in piedi davanti alla finestra e stava guardando fuori con aria
assorta. Sembrava che in tutti quei giorni non si fosse mai mosso di
lì.
“Rittmeister,”
fu tutto quello che riuscì a dire.
Il
principe si voltò verso di lui e accennò un lieve sorriso.
Egli
lo raggiunse, trasse di tasca il portasigarette d'oro. “È venuto
per questo?” chiese porgendoglielo.
Von
Thurn und Taxis scosse appena la testa. “Oh, no. Mi piacerebbe che
lo tenesse lei, come piccolo ricordo dei nostri trascorsi.” Fece
una pausa e soggiunse: “Non vorrei che si dimenticasse di me.”
Il
tenente alzò gli occhi fino a fissarli nei suoi. Sentiva il fiato
corto, aveva l'impressione di avere le guance in fiamme. Riunì le
mani dietro la schiena per nasconderne il tremito. “Io... non penso
che mi dimenticherò di...” Stava per dire di
lei, ma si fermò in
tempo. “Non penso che mi dimenticherò di quello che è successo,”
corresse.
Avrebbe
voluto correre da qualche parte, sciacquarsi la faccia con l'acqua
fredda, respirare. Fare qualcosa, insomma, che gli restituisse una
parvenza di compostezza.
Lo
sguardo dell'altro però sembrava inchiodarlo sul posto.
“Mi
fa piacere,” disse il Rittmeiser, senza distogliere gli occhi dai
suoi. “Se non ricordo male, in quell'astuccio devono essere rimaste
due sigarette. Vogliamo fumarle insieme?”
Passarono
forse dieci secondi, poi von Knobelsdorff sentì che il collo gli si
piegava in un cenno di assenso.
Fu
l'altro che lo condusse, con l'ormai familiare presa sul braccio,
verso due poltrone poste intorno a un tavolino.
Prima
di sedersi, il tenente non poté fare a meno di gettare uno sguardo
tutt'intorno. Non c'era nessuno, nemmeno le ordinanze che servivano
al circolo ufficiali, ma presto i camerati sarebbero stati di
ritorno, per non parlare di quello che avrebbe potuto dire il
capitano Kunz, sorprendendolo a fumare tranquillamente in compagnia
di un estraneo.
Come
se gli avesse letto nel pensiero, von Thurn und Taxis gli disse: “Il
suo comandante sa che sono qui.”
“Davvero?
E cosa gli ha detto per convincerlo a farla rimanere?”
Serafico,
il Werwolf rispose: “La verità.”
Per
qualche strana ragione, a quella parola von Knobelsdorff sentì il
cuore mancargli un battito. La verità, che normalmente veniva
definita con epiteti che attenevano a nitore e purezza, nel suo caso
andava a pescare nel torbido di sentimenti inconfessabili.
Continuavano
a tornargli in mente episodi della loro fuga dietro le linee, ma
sempre di più si mescolavano a immagini del suo duello nel buio, e
di quello che era successo dopo.
“La...
verità?” ripeté.
Il
Werwolf si limitò a rivolgergli un sorrisetto, quindi trasse di
tasca un accendino da trincea, fece scattare la fiamma e glielo
avvicinò.
Egli
recuperò con gesti incerti il portasigarette, lo aprì e prese una
delle due Sobranie,
poi porse l'altra al suo interlocutore.
Questi
se la infilò con disinvoltura fra le labbra e si protese per
accenderla sulla fiamma. Von Knobelsdorff compì simultaneamente lo
stesso movimento, così che si trovarono vicinissimi.
Il
tenente si fece indietro.
“Che
c’è,” gli chiese ironico il Rittmeister, “ha paura di
bruciarsi?”
L'altro
lo fissò torvo, poi piccato brontolò: “Che
sciocchezza, certo che no.”
“Già,
dimenticavo che lei rischia ogni giorno di precipitare in fiamme.
Questa dovrebbe essere una bazzecola in confronto, o no?”
L’accendino
era ancora immobile, così come il Werwolf. La fiamma palpitava lieve
e si rifletteva negli occhi dell’agente segreto, accendendoli di
riflessi d’acciaio e oro.
Di
nuovo von Knobelsdorff provò l’impulso di correre via. Puntò la
mano libera sul bracciolo della poltrona come per alzarsi, ma lo
sguardo dell’altro, che non voleva abbandonarlo, lo avvinceva più
di mille catene.
Egli
deglutì. “La smetta,” mormorò.
Il
Werwolf non si mosse. In tono morbido gli chiese: “La smetta, cosa?
Che cosa sto facendo di così terribile, Maximilian?”
Senza
rispondere, il tenente abbandonò la poltrona e raggiunse la
finestra. Diede qualche tiro nervoso alla sigaretta, rivolgendo
ostinatamente lo sguardo all'esterno. Alle sue spalle, il principe
von Thurn und Taxis disse: “Lasci perdere le sue osservazioni,
tanto partiremo prima che i suoi colleghi facciano ritorno.”
Von
Knobelsdorff si girò a fissarlo. “Cosa?”
Man
mano che quella strana conversazione proseguiva, aumentava nel
tenente la sensazione di addentrarsi in una palude, oppure di essere
una belva feroce circondata da reti e battitori. I battitori erano
quelle strane frasi incalzanti: nessuna di esse era singolarmente
pericolosa, ma tutte insieme gli stavano lentamente tagliando ogni
via di fuga.
Prima
di rispondere, il principe, che a differenza sua sedeva tranquillo in
poltrona, diede un lungo tiro alla sigaretta, assaporò il tabacco
pregiato socchiudendo appena gli occhi, quindi esalò lentamente il
fumo. “Io e lei torneremo per un po' alle vecchie abitudini,”
spiegò.
L'allusione
ad abitudini passate suonò come l'ennesimo campanello d'allarme. Von
Knobelsdorff lo fissò diffidente, arretrando addirittura di un
passo, poi ringhiò: “Non capisco.”
Tranquillissimo,
il Werwolf spiegò: “Lei è un ulano, io un ussaro. Questo non le
suggerisce niente?”
Il
tenente si irrigidì disorientato: cosa significavano quelle frasi?
Erano da intendersi letteralmente o si trattava di allusioni ad altre
cose? Quali cose, poi? “Mi suggerisce che entrambi proveniamo dalla
cavalleria,” rispose asciutto, “ma non vedo a che scopo lei mi
ricordi il mio corpo d'appartenenza.”
“Vedrà.”
§
“Davvero
lei ha detto al capitano Kunz che avremmo fatto questo?” chiese von
Knobelsdorff.
Erano
saliti sul sedile posteriore di una vettura guidata da un autista in
uniforme e dopo un tragitto di circa un'ora erano giunti a una
scuderia. Appoggiati a uno steccato, stavano contemplando un
galoppatoio così ampio che sembrava perdersi all'orizzonte.
“Qui
è acquartierato il mio reggimento,” disse il Werwolf.
“Come
sempre, non ha risposto alla mia domanda.”
“E
come sempre, lei ne fa troppe.”
Un
po' piccato, il tenente ribatté: “Mi sembra strano che il capitano
Kunz abbia acconsentito a... questo.”
“Perché?
Che cosa pensa che faremo?”
Von
Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e rispose: “Non è difficile
immaginarlo: poco fa ha parlato dei nostri corpi di appartenenza, ha
parlato di vecchie abitudini. Ora siamo qui. Ritengo che mi proporrà
una cavalcata.”
“Molto
perspicace,” apprezzò l'altro.
“E
Kunz le ha permesso di prelevarmi dal contesto operativo per una cosa
del genere?”
Il
principe alzò le spalle. “Dipende sempre da come vengono poste le
richieste.”
“Sarebbe
a dire?”
“Dica
un po', è spaventato? Ha paura che sia vero quello che dicono
tutti?”
“Perché,
che cosa direbbero tutti?”
“Che
gli ussari cavalcano molto meglio degli ulani, ovviamente.”
Von
Knobelsdorff incupì lo sguardo. “Non è vero!” sbottò, poi si
rese conto di aver risposto d'istinto alla provocazione del suo
interlocutore. “Questi confronti sono solo stupidaggini,”
corresse, “diatribe che non hanno senso.”
Von
Thurn und Taxis non rispose. Si staccò dalla staccionata e si
diresse verso la scuderia. Strada facendo si voltò verso von
Knobelsdorff, che camminava al suo fianco, e disse: “Le ho fatto
sellare uno dei miei Trakehner[1], spero che lo troverà di sua
soddisfazione.”
“Non
dubito che lo sarà,” rispose automaticamente von Knobelsdorff,
addestrato da anni di conversazioni fra aristocratici. Frattanto
continuava a chiedersi che senso avesse tutto quanto, perché il
Werwolf l'avesse accompagnato lì – con che scusa, peraltro, visto
il rigore di Kunz? – cosa si proponesse di fare. Era una nuova
missione? Era il semplice svago di qualcuno che evidentemente poteva
permetterselo?
Un
alto nitrito lacerò l'aria.
A
quel suono, il principe fece un lieve sorriso e disse: “Eccoli.”
Von
Knobelsdorff fissò incuriosito lo sguardo verso la porta della
scuderia. Da essa uscì dopo poco, trattenuto a stento da un mozzo di
stalla, un morello vigoroso, lucido come uno specchio, che sembrava
letteralmente danzare sul selciato in un trotto raccolto ma carico di
energia.
“Quello
è Erlkönig,” lo informò von Thurn und Taxis.
Il
tenente osservò il magnifico animale. “È uno stallone,”
constatò.
L'altro
assentì. “Non mi piacciono i cavalli troppo facili.”
“È
il suo cavallo?”
“Può
prenderlo lei, se vuole. Una volta messo alla mano, riserva parecchie
soddisfazioni.”
Nel
frattempo stava uscendo dalla scuderia un altro stallone. Il manto
era di un sontuoso baio ciliegia, con riflessi di bronzo e oro.
Anch'esso procedeva fiero e nevrile, scuotendo la criniera corvina e
frustando l'aria con la coda.
“Un'altra
bella bestia,” non poté fare a meno di apprezzare il tenente.
“Felix.”
“Mi
sembra più tranquillo.”
L'altro
gli rivolse un sorrisetto. “Infatti avevo pensato di darlo a lei.”
“Cosa?”
“Beh,
si sa... gli ulani...”
“La
smetta, lei è smargiasso come tutti gli ussari! Io prenderò il
morello e le farò vedere come sa stare in sella un vero ulano.”
“È
una delle cose che mi piacciono di lei, Maximilian: non lascia mai
cadere una provocazione.”
A
von Knobelsdorff bastò sentire l'odore dei cavalli, percepire lo
scricchiolio coriaceo dei finimenti, per dimenticare qualsiasi
diatriba. Fece scorrere lo sguardo sul morello, letteralmente
divorando con gli occhi la sua scultorea energia, e di colpo ogni
preoccupazione e ogni dubbio svanirono come nebbia sotto i raggi del
sole.
C'erano
solo lui, un buon cavallo e spazi immensi in cui galoppare a briglia
sciolta.
“Lo
prendo io,” ripeté, faticando a trattenere il sorriso di
beatitudine che lottava per distendergli le labbra.
Si
avvicinò risoluto, montò in sella. Lo stallone mise le orecchie
indietro e sollevò gli anteriori in una mezza impennata, cosa che
invece di impensierirlo non fece altro che instillargli un gioioso
senso di aspettativa.
Prese
le redini alla mano, si regolò le staffe con la disinvoltura fluida
dell'abitudine, quindi si girò a fissare il principe, a sua volta
già in sella, e gli chiese: “Andiamo?”
Questi
sorrise, von Knobelsdorff lesse sul suo viso la stessa aspettativa,
lo stesso anelito che anche lui stava provando. “Certo che
andiamo,” rispose, quindi allentò appena la stretta sulle redini.
Il
baio balzò in avanti, le froge dilatate, gli zoccoli che
echeggiavano sul selciato. Raggiunse il recinto, si raccolse, lo
superò d'un balzo mentre il suo cavaliere cedeva elegantemente in
avanti.
“Vada
anche lei, signore,” gli consigliò a quel punto un sottufficiale,
“altrimenti non lo riprende più.”
“È
da vedere!” esclamò von Knobelsdorff con entusiasmo. Spronò: il
morello partì come una saetta e in breve il suo galoppo divenne così
veloce da fargli lacrimare gli occhi.
Saltò
d'istinto lo steccato, lasciando che fosse l'animale a chiedergli la
ceduta, strinse le ginocchia e raddrizzò il busto nel momento in cui
esso si ricevette, poi spronò di nuovo, lo sguardo fisso sul Werwolf
che galoppava davanti a lui.
Il
principe von Thurn und Taxis si guardava bene dal trattenere il
proprio destriero, e l'animale, felice di essere a briglia sciolta,
divorava lo spazio in poderose falcate.
Il
paesaggio che gli scorreva ai lati era un'indistinta macchia verde,
in cui ogni tanto spiccava il baluginio di uno specchio d'acqua o la
nota di colore delle bandierine bianche e rosse che indicavano gli
elementi del percorso di cross country.
Mise
il cavallo in direzione di un ostacolo formato da un tronco seguito
da un fosso pieno d’acqua. Si piegò appena sul collo dell'animale,
lasciando che esso lo affrontasse come preferiva.
Superata
la barriera, si girò sulla sella: von Knobelsdorff stava accorciando
la distanza che lo separava da lui. Riusciva già a cogliere la sua
espressione concentrata, decisa. Immaginò che fosse la stessa che
aveva ai comandi del suo aereo, nel corso di un combattimento.
Strinse
le dita sulle redini, raddrizzò appena il busto portando Felix a
raccogliere il galoppo. Il tenente lo raggiunse, lo superò e
proseguì verso una siepe. L'oltrepassò d'un balzo, quindi a sua
volta si girò indietro a fissarlo.
Il
Rittmeister non fece altro che allentare di nuovo le dita e il baio
scattò in avanti, raggiungendo il morello. Von Knobelsdorff si girò
a fissarlo, aggrottò le sopracciglia e spronò ancora.
Entrarono
affiancati in un torrente sollevando spruzzi d'acqua, si inerpicarono
sulla sponda, balzarono oltre, discesero in un avvallamento coperto
d'erba alta, nel quale si inseguirono lasciandosi dietro scie
argentee di steli piegati.
Alla
fine raggiunsero il limitare di una macchia di querce e faggi.
C'erano le rovine di un mulino poco lontano e l'acqua gorgogliava
nell'antica gora.
Smontarono
da cavallo, lasciarono gli animali liberi di abbeverarsi.
Von
Thurn und Taxis si voltò verso von Knobelsdorff: il tenente aveva il
volto acceso e le guance appena arrossate per effetto della lunga
galoppata. Filtrati dalle foglie, i raggi del sole accendevano il
verde dei suoi occhi di screziature d'oro e smeraldo. Ansava
leggermente.
“Venga
con me,” gli suggerì.
L'altro
s'irrigidì per un istante. “Dove?”
Il
Rittmeister alzò gli occhi al cielo. Il tenente abbassò i propri.
Senza
aggiungere altro, von Thurn und Taxis lo precedette vero le vestigia
di una vecchia fontana. Da una canna di ferro scurita dagli anni, un
getto cristallino si riversava scrosciando in una muscosa vasca di
pietra. Come a voler dare l'esempio, l'ussaro si piegò a bere
direttamente da esso, poi si raddrizzò e chiese: “Lei non ha
sete?”
Von
Knobelsdorff si avvicinò adagio.
“L'acqua
è freschissima,” lo incoraggiò l'altro.
Il
tenente pose una mano sotto il getto, facendone scaturire una
raggiera di gocce cristalline. Raccolse un po' d'acqua nel palmo e se
la portò alla bocca.
“Come
si vede che non è un ussaro,” ghignò von Thurn und Taxis.
L'altro
aggrottò le sopracciglia. “Cosa?”
“È
un delicatino. Non ha sete? Non sta morendo dalla voglia di ficcare
sotto quell'acqua fresca anche la testa? Di farci il bagno, magari?”
Von
Knobelsdorff avvampò. “No!”
“Non
è vero. Lei non ne ha il coraggio, ecco tutto.” Alzò le spalle,
poi soggiunse: “Del resto, lei è un ulano. Cosa si può
pretendere? Siamo noi i cacciatori, quelli abituati ad agire
velocemente, magari dietro le linee nemiche. Ad approfittare di ciò
che offre il territorio.”
“Una
volta, forse,” replicò von Knobelsdorff, “ai tempi di Blücher.
Adesso siamo tutti uguali.”
“Socialismo
della cavalleria?”
Il
tenente gli rivolse uno sguardo di fuoco. “Lei si diverte a
prendermi in giro,” ringhiò torvo.
“Sto
solo scherzando,” replicò pacato il Rittmeister, “del resto non
l'avrei invitata qui e non le avrei dato uno dei miei cavalli, se il
mio intento fosse stato solo quello di prenderla in giro.” Arretrò
di qualche passo, come per lasciargli un più agevole accesso alla
fontana, poi concluse: “Ora beva quell'acqua fresca, scommetto che
sta morendo di sete. E poi ci riposeremo un po' all'ombra, se proprio
non le va di fare il bagno.”
Il
tenente si sedette su una pietra e appoggiò la schiena al tronco di
una quercia. Allungò le gambe davanti a sé e per un po' rimase in
silenzio, ascoltando il gorgogliare lieve della fontana e i vaghi
cinguettii della foresta.
Il
sottopancia allentato, i due cavalli brucavano tranquilli, agitando
di tanto in tanto la coda.
Uno
scoiattolo balzò con un fruscio da un ramo all'altro.
Si
stava avvicinando il mezzogiorno e l'aria era calda e immobile.
Von
Knobelsdorff fissò il Werwolf, che sedeva in apparenza abbandonato,
una delle sue sigarette nere tra le dita, il polso appoggiato al
ginocchio piegato. Dopo un po' gli chiese: “Qual è dunque il suo
intento?”
L'altro
si girò a guardarlo: “Prego?”
“Non
vuole prendermi in giro, ha detto.”
“Lo
confermo.”
“E
quindi? Mi preleva dalla zona d'operazioni, ancora non ho capito con
che scusa, mi porta qui a fare una passeggiata... perché?”
L'altro
alzò le spalle. “Mi mancava.”
Il
tenente si irrigidì. “Che significa?”
“Io
non le mancavo?”
“Insomma,
basta!” sbottò a quel punto il più giovane, balzando addirittura
in piedi nell'impeto della protesta. “Basta, non la sopporto più!
Può rispondere a una domanda, per una volta? Può dirmi quello che
le chiedo senza prendersi gioco di me e senza farmi sentire un
idiota?”
Tacque,
ansante, con i pugni stretti per la rabbia.
A
quella sfuriata seguì un lungo silenzio. Infine, il Werwolf gli
chiese: “Che cosa vuole sapere?” Il tono era calmo e serio.
Von
Knobelsdorff emise un lungo sospiro, come se avesse appena sostenuto
uno sforzo immane, poi tornò alla sua pietra e vi si sedette
nuovamente. Infine disse: “Glielo chiedo di nuovo: cosa ci faccio
qui?”
“Vorrei
conoscerla meglio.”
Il
tenente lo fissò stupito. “Perché?”
Prima
di rispondere, il Werwolf diede un lungo tiro alla sigaretta, rimase
per qualche secondo immobile con gli occhi socchiusi e la testa
leggermente piegata all'indietro, poi esalò adagio il fumo. Le sue
iridi presero una vaga tonalità azzurra. Infine disse: “Non lo so.
Immagino sia perché tutti hanno delle debolezze.”
“Sarebbe
a dire?”
“Lasci
perdere. Mi dia il tempo di finire la sigaretta, poi faremo ritorno
alla scuderia e la riaccompagnerò alla sua unità.”
La
fase ebbe il potere di suscitare nel tenente una strana inquietudine.
“E poi?”
“E
poi, niente.”
Von
Knobelsdorff non replicò. Dopo alcuni istanti si alzò di nuovo,
andò a bere un po' d'acqua, diede qualche pacca sul collo del baio,
che pascolando si era avvicinato alla radura. Invece di scemare,
l'inquietudine che l'aveva pervaso aumentava di attimo in attimo.
Nonostante avesse ottenuto finalmente rispose esplicite, c'era ancora
qualcosa che si ostinava a sfuggirgli, qualcosa che da una parte lo
obbligava a tenersi sulla difensiva, ma dall'altra lo faceva sentire
sul punto di perdere per sempre qualcosa di meraviglioso, che non
avrebbe ritrovato mai più. “Possiamo rimanere un altro po',”
disse infine. Sollevò la mano e staccò distrattamente un ramoscello
di quercia, che poi si fece girare assorto fra le dita.
Gli
tornò in mentre lo strano sogno di quando, stremato e sofferente
dopo l'interrogatorio dell'agente inglese, era piombato nel sonno –
se tale si poteva definire quel nefasto dormiveglia – sul pavimento
del vagone.
Aveva
sognato querce. Una foresta di abeti e querce, di cui ricordava il
silenzio solenne, carico di reverenza, come in attesa di qualcosa.
Poi
c’era stato l’ululato del lupo, ed era comparso il Werwolf.
Banale
fenomeno onirico? Premonizione? Allucinazione? Non lo sapeva.
Si
rigirò di nuovo fra le dita il rametto, che frusciò lieve.
Aveva
sognato querce anche in un’altra occasione. Querce antiche, ma con
foglie giovani. Morte e vita, l’una in funzione dell’altra, in un
ciclo infinito.
E
poi un nome.
“Ho
un’altra domanda,” disse, senza distogliere lo sguardo dalle
foglie smeraldine.
La
replica del Werwolf suonò pacata, quasi velata da una vaga nota di
delusione, come se l’uomo avesse fatto gran conto su di lui, ma si
fosse appena accorto che aveva completamente sbagliato la sua
valutazione. “Sentiamo.”
“Chi
è Reiner?”
Alla
domanda fece seguito un silenzio lapideo. Pareva che addirittura le
foglie avessero smesso di stormire e gli uccelli di cantare. Solo
l’acqua della fontana continuava a gorgogliare, ma con un suono
metallico, freddo, che ricordava lo scuotere inane di una catena.
Gli
occhi del Werwolf divennero due lame di ghiaccio. “Come sa di
Reiner?” La voce sembrava il taglio di un rasoio.
Von
Knobelsdorff deglutì. “Io… non ne so nulla, veramente. È il
nome che lei ha pronunciato nell’ambulanza inglese, quando era
incosciente.” Deglutì di nuovo sotto lo sguardo terribile del
Werwolf e per un istante temette seriamente che l’uomo gli avrebbe
fatto del male.
La
voce dell’altro, gelida, rabbiosa, ma anche venata di una strana
tristezza, lo fece quasi sussultare: “Perché vuole sapere di lui?”
“Perché...”
Sollevò lo sguardo sul suo interlocutore, lo riabbassò sulle
proprie mani, che stavano tormentando nervosamente il rametto di
quercia. “Perché io l’ho visto in sogno,” si decise a dire.
“Mi si è avvicinato mentre giacevo al limitare di un campo di
battaglia. Gli ho chiesto chi era, e lui mi ha risposto che si
chiamava Reiner, e con la certezza dei sogni io sapevo che era quel
Reiner, quello che lei aveva menzionato. Dapprima non lo vedevo in
faccia, perché aveva la luce del sole dietro le spalle, poi si è
chinato accanto a me e aveva i miei stessi lineamenti. Mi ha detto:
si muore per rinascere, diglielo. E poi se n’è andato via in sella
a un morello.”
“Si
muore per rinascere,” ripeté il Werwolf dopo un lungo silenzio,
come parlando a se stesso. Allungò la mano a raccogliere un
sassolino e lo lanciò nella vasca della fontana. Esso raggiunse
fluttuando il fondo e si posò sul limo che vi era sedimentato,
sollevandone tenui volute.
Nell’aria
perdurava un silenzio teso, carico di aspettativa.
D’impulso,
von Knobelsdorff gli si avvicinò. Per un po’ esitò imbarazzato,
incerto su cosa dire, poi chiese: “È una persona… importante per
lei?”
“Sì,
lo era.” Von Thurn und Taxis abbandonò l’improvvisato sedile su
cui era adagiato e fece un passo come per allontanarsi. I suoi occhi
erano acciaio, la sua espressione era una parete di pietra dietro cui
ribolliva il magma.
Il
tenente rimase a guardarlo immobile. “Lo... era?” chiese poi.
“Non
parliamone più, d’accordo?” ringhiò torvo il Werwolf .
“Mi
scusi.”
“Non
è colpa sua.”
“Sì,
invece. Sono stato poco sensibile nei suoi confronti.”
L’altro
scosse appena la testa. “Non si smentisce proprio mai, vero?”
“Che
intende dire?”
“Sempre
l’ultima parola, non ce la fa a stare zitto e basta, nemmeno quando
si accorge di star parlando a sproposito.”
“Mi
scusi,” ripeté von Knobelsdorff, “è che io...” Poi scosse la
testa, si pose una mano sulla bocca come in un gesto di auto-censura
e andò a sedersi su bordo della fontana, dando le spalle al
principe.
Fissò
lo sguardo su una foglia che galleggiava lungo il bordo del bacile.
Sul fondo della vasca c'era la pietra che l'altro vi aveva gettato,
immobile, destinata a coprirsi di muschio e a scomparire lentamente
nel limo.
Passò
un tempo imprecisato. L'acqua continuava a gorgogliare monotona.
Soffiò un alito di vento lieve come un sospiro, che fece stormire le
foglie e ne spedì un altro paio a galleggiare nel bacile.
Alle
spalle di von Knobelsdorff si fece udire pacata, fredda la voce del
principe: “Sa che cos'è il sodalizio virile?”
Il
più giovane si girò a fissarlo. Pur fatto oggetto di una domanda
diretta non ebbe il coraggio di aprire bocca e si limitò a scuotere
la testa.
“È
difficile spiegarlo a chi non l'ha mai vissuto,” considerò allora
l'altro.
Il
tenente si limitò ad abbassare lo sguardo. Aveva l'impressione che
l'uomo stesse cercando in lui qualcosa che con grande disappunto non
riusciva a trovare da nessuna parte. Gli si avvicinò di un passo. Il
Werwolf, che nel frattempo si era seduto, si alzò nuovamente in
piedi.
Rimasero
immobili a fissarsi per lunghi secondi. Infine, von Knobelsdorff
mormorò: “Perché... non mi parla di Reiner?”
“Per
quale motivo dovrei farlo?”
“Perché
l'ho visto in sogno, ed ero io.”
“Lasci
certe stupidaggini a quel neurologo viennese che con le sue
cosiddette interpretazioni dei sogni spilla soldi alle signore
inquiete.”
Il
tenente non si mosse e non replicò. “Nemmeno lei si smentisce
mai,” mormorò infine.
L'altro
lo fissò torvo. “Sarebbe a dire?”
“Aggredisce
senza motivo, tiene lontano le persone anche quando vorrebbero
avvicinarsi.”
L'uomo
non rispose. Dopo qualche secondo, von Knobelsdorff fece un altro
passo avanti, cauto come se stesse procedendo lungo una trave
sottile, sotto cui si spalancava un abisso.
La
distanza fra loro divenne meno di un metro.
“Che
cos'è il sodalizio virile?” sussurrò. Gli balenarono in mente
immagini della loro fuga, la presa sul braccio, ordini secchi che
mascheravano sollecitudine. Una strana, indefinibile sensazione di
calore che solo quel misterioso principe era in grado di suscitargli.
“Che cos'è? Me lo spieghi.” Si avvicinò ancora. Sollevò gli
occhi a incontrare i suoi e quasi si perse nel suo sguardo, in quel
momento profondo e trasparente come non l'aveva mai visto.
D'impulso
attraversò lo spazio che ancora li separava, gli cinse il torso con
le braccia e posò le proprie labbra sulle sue.
Da
lì in poi, le sue sensazioni divennero confuse, urgenti: il bacio si
fece più profondo, sempre più profondo e intimo, al punto che gli
parve di precipitare in quell'abisso buio che aveva così
faticosamente attraversato, e al tempo stesso si sentì trasportare
in alto, verso una luce così intensa che lo costringeva a stringere
gli occhi. Sentiva il cuore pulsargli nelle tempie, un contraccolpo
gli fece capire che l'altro l'aveva spinto con la schiena contro un
albero.
Si
fissarono per un istante e poi piombarono nuovamente l'uno addosso
all'altro, ansanti, avidi, attraversati da una passione che di attimo
in attimo pareva ruggire con più violenza.
Dietro
le palpebre serrate del tenente baluginarono immagini di un salone
buio, di due sciabole incrociate, le lame letali in bilico, pronte a
uccidere.
Al
ricordo del clangore che esse avevano prodotto cadendo a terra, non
poté impedirsi di sussultare. Pur nella vertigine del momento, ebbe
chiara l'immagine di una fiammella semi-soffocata, che
improvvisamente riceveva ossigeno e si trasformava in una vampa che
divorava ogni cosa.
Un
pensiero lo attraversò come un lampo: quella vampa avrebbe distrutto
tutto. L'avrebbe travolto, annichilito.
Si
svincolò dall'abbraccio finché si sentiva in grado di farlo.
“Mi
scusi,” balbettò. Arretrò con passi incerti. “Mi scusi, la
prego di perdonarmi, non so cosa mi sia preso.”
Il
Werwolf si limitava a fissarlo in silenzio, immobile.
Egli
si passò una mano tremante fra i capelli, poi ripeté : “Mi scusi,
sono uno stupido... sono solo uno stupido.” Raggiunse il suo
cavallo, gli sembrava di essere ubriaco, stordito. Si sentiva il
cuore in gola come prima di un assalto. “Mi scusi,” disse per
l'ennesima volta, poi montò in sella.
Sempre
in silenzio, von Thurn und Taxis montò a sua volta.
Von
Knobelsdorff evitò persino di guardarlo in faccia. Spronò e partì
al galoppo.
[1]
Razza di cavalli da guerra originaria della Prussia.
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