Herz aus Stahl

di Saelde_und_Ehre
(/viewuser.php?uid=1021916)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.



XXIV.
Die Kapitulation


I cannoni iniziarono a ruggire ancor prima del sorgere dell’alba, mentre i soldati erano riuniti per fare colazione nella piazza del paese occupato: prima con boati isolati, come tuoni all’orizzonte, poi sempre più intensi, tanto da spezzare l’illusione di calma che aveva preceduto il risveglio. Truppe e sottufficiali erano assiepati alla rinfusa fuori dall’ultima caffetteria rimasta aperta, che offriva a ciascuno magre razioni accompagnate da un caffè annacquato. Nel parco antistante, arato dai proiettili dei mortai, zolle di terra ed erba erano state spianate alla bell’e meglio, e i tronchi divelti servivano a rinforzare le barricate.
Alcuni civili, scampati al bombardamento della capitale, erano accorsi nei sobborghi: c’era chi aveva accettato di collaborare coi soldati nella speranza di aver salva la vita, chi lamentava la mancanza di pane e medicine e chi piangeva la morte di un fratello, un marito o un figlio, rimasti uccisi durante l’accanita resistenza. Mentre li osservava dal tavolino a cui era seduto, Erich non riusciva a capire le loro parole, ma era rimasto colpito dal gran numero di giovani donne, che dopo aver supportato l’esercito polacco si intrattenevano con gli occupanti, e di bambini, che osservavano gli uomini in grigioverde con gli occhi dilatati dalla paura.
Hanke si fermò davanti a un bambino e a una bambina – forse orfani – e si mise a fare smorfie, mimando versi di animali per farli ridere. Quello che ottenne, tuttavia, fu soltanto di farli piangere.
Krause gli sferrò una gomitata, con la bocca ancora piena. “Lascia perdere, non ci sai fare.”
“Ehi, ti ricordo che io e Magda avremo un figlio tra sei mesi!”
“Ne avrai di strada da fare, allora. Guarda e impara.” Con un sorriso incoraggiante, Krause allungò una fetta di pane con burro e marmellata verso la bambina, che doveva essere di un paio d’anni più grande del maschio. Ella lo squadrò con sospetto, continuando a stringere tra le braccia il fratellino in lacrime, tuttavia fece un piccolo passo in avanti e accettò titubante l’offerta. Ringraziò con un frettoloso cenno del capo, poi prese per mano il bambino e fuggì come una ladra in un angolo appartato, protetto da un muretto, dove spezzò il pane e lo condivise con lui.
“Cos’è questa stregoneria?” borbottò l’altro, indispettito.
“Si chiama cibo. Quei due bambini avevano fame, tu non l’hai mai sofferta?”
Hanke non rispose; continuò a fissare di sottecchi i due fratellini che mangiavano e bisbigliavano tra loro. Altri bambini, da lontano, si erano messi a osservarli, ma al loro passaggio scomparvero subito negli anfratti.
I soldati continuavano ad entrare e uscire dalla caffetteria in piccoli gruppi, le loro chiacchiere coperte dal costante rimbombo dell’artiglieria.
“Io sì, quando ero piccolo,” proseguì Krause, fattosi serio. “Ero l’ottavo di dieci fratelli – nove, dato che uno di loro è rimasto disperso a Cambrai e non è più tornato a casa – era da poco finita la guerra e…”
“Me lo hai già raccontato almeno dieci volte, Richard,” sbuffò l’altro.
“E tu quante volte mi hai ascoltato, Julius? Mezza, forse?”
“Nove.”
“Non vale se mi interrompi appena inizio a parlare.”
“E invece vale eccome.”
Krause decise di lasciar cadere il discorso con un gesto infastidito e, individuato un marciapiede che dava le spalle al tavolo dell’ufficiale, si mise a sedere; nessuno dei due mostrò di essersi accorto della sua presenza. “Hai sentito quello che dicevano ieri su von Kleist?” A quel punto assunse un tono da cospiratore, ed Erich dovette tendere l’orecchio per captare le sue parole. “Qualcuno dice che rischiava una sanzione per i fatti di Łowicz.”
“E tu dai retta a queste voci? Magari domani verrà fuori che il maggiore è vivo!”
“Ti dico che è vero,” ribatté l’altro.
Hanke scrollò le spalle. “Io penso che abbia fatto bene ad agire come ha fatto. C’era una possibilità su centomila che andasse a finire male, e lui c’è finito dentro con tutte le scarpe. Ma quella è rogna, non cattiva strategia.”
“Anch’io lo penso. Secondo me meritava una medaglia, altroché. Ma il regolamento funziona così.” Esalò un sospiro. “Che merda, eh? Ti fai tutti i tuoi calcoli, cerchi di fare le cose per bene, poi basta la minima stronzata e tutto ti si ritorce contro…”
“Già, poi pure il Vecchio, che è morto in quel modo. Vecchio per modo di dire, ovviamente.”
Seguì un breve, meditabondo silenzio, durante il quale entrambi volsero lo sguardo verso il cielo attraversato dalle sagome ronzanti dei caccia. Molti altri si erano fermati a osservarli: volavano così bassi che le ombre delle loro ali coprivano l’intera piazza, e il moto delle eliche scuoteva gli alberi. Krause aspettò che fossero abbastanza lontani, poi si alzò in piedi. “Vedi? Te l’avevo detto che avevo un brutto presentimento, prima ancora che succedessero tutti questi casini. Ma forse su una cosa mi sbagliavo: se quel discorso della corte marziale è vero – e io ti dico che è vero, quanto è vera la morte – ne hanno scampati di peggiori.”
L’altro stava per replicare, ma fu interrotto dall’arrivo di alcuni camion coperti che si fermarono al centro della piazza. Le portiere si aprirono e da esse iniziarono a uscire dei soldati in grigioverde, tra i quali due ufficiali che li fecero allineare per l’appello.
“Riservisti,” commentò Hanke. “Sarà la prima volta che mettono piede in un teatro di guerra.”
Erich riconobbe a capo del drappello il capitano Fromm, tornato dalla convalescenza dopo l’esplosione della granata, e il tenente Wessel, che li chiamò subito a rapporto: i soldati finirono in fretta i loro caffè, spensero le sigarette e seguirono il sottotenente in piazza, sistemandosi in ordine di marcia sotto gli occhi attenti dei riservisti.
“Abbiamo ricevuto l’ordine di procedere, ma non sappiamo ancora se e quando i nemici daranno battaglia,” spiegò Fromm, convocati i due ufficiali. “Sono arrivate varie proposte di resa, ma le trattative sono ancora aperte. Adesso non ci resta che aspettare il capitano Schwieger.”
“Sissignore.”
Wessel si allontanò per andare a dare istruzioni ai soldati della riserva, Kühn fece per seguirlo, ma Fromm lo prese da parte. “Non mi sono dimenticato del suo gesto, sottotenente. Ci tenevo a ringraziarla di persona.” Alluse a quando lo aveva trasportato al posto di medicazione dopo l’esplosione, osservando con un vago sorriso la croce di ferro appuntata sul suo taschino. “E dalle voci che circolano,” soggiunse poi, “non mi stupisco nel notare che salvare i suoi superiori sia diventata un’abitudine per lei!”
Il ragazzo sorrise a sua volta, chiedendosi se fosse stato proprio l’atto menzionato dal capitano a procurargli quell’onorificenza, ma non disse nulla a riguardo. “Dovere, signore.”
La conversazione fu interrotta dall’arrivo del capitano Schwieger, che diede subito l’ordine di mettersi in marcia. Dopo giorni di battaglie cruente e ininterrotte, quei fiochi boati in sottofondo erano il preludio della fine.

L’orologio segnava ormai le undici, ma le risposte dell’artiglieria nemica giungevano a intermittenza, più come un borbottio di protesta che come un’azione bellica. Wessel camminava nervosamente avanti e indietro per la stanza; Fromm parlava al telefono e scarabocchiava appunti su un foglio. Kühn, seduto vicino alla finestra, si limitava a osservare i soldati di guardia all’entrata dell’edificio, che chiacchieravano e fumavano tra loro. Solo di tanto in tanto, giù in strada, una breve sparatoria interrompeva il silenzio: urla, tafferuglio, colpi di fucile quando bande di civili venivano sorprese a fare azioni di guerriglia, di nuovo silenzio.
“È ufficiale, stanno discutendo le condizioni di resa,” comunicò Fromm, dopo un istante interminabile. Allungò le gambe e si accese un sigaro. “Per me non ci arrivano a domani.”
Wessel annuì, pensieroso. “Considerando le condizioni in cui si trovano, mi stupirei del contrario. Posso capire il coraggio, ma non quando va contro ogni logica o convenienza.”
Erich si era stupito della ferrea resistenza polacca, che non sapeva se attribuire a una profonda e radicata convinzione dettata dall’amor di patria, o da un più impersonale senso del dovere. Forse, pensò, dipendeva dalle persone – o forse, in fondo, per qualcuno erano la stessa cosa, come nel caso del capitano von Kleist.
“Il loro coraggio è ammirevole, ma ora sono più i civili che i soldati a morire. Non reggeranno a lungo, non ne possono più,” riprese Fromm.
Al sottotenente vennero il tenente polacco senza nome, l’ufficiale suo coetaneo riverso tra le macerie, i bambini nella piazza. “Lo penso anch’io. Resistono solo perché è quello che chiunque altro farebbe.”
“Kühn,” lo interpellò il capitano, “lei che era presente, come sono andati gli ultimi giorni?”
“Abbiamo letteralmente combattuto giorno e notte, signore, ovunque: per le strade, nelle trincee, tra le rovine dei palazzi. Quella di Grabnik è stata forse la battaglia più dura, ma siamo riusciti ad avanzare grazie a una compagna delle Waffen-SS, che ha perso il suo comandante durante l’operazione mentre noi cercavamo ancora di rompere l’accerchiamento. C’erano morti e carcasse di Panzer ovunque.” Wessel si fermò, fece dietrofront, poi riprese a camminare. A ogni pausa annuiva, come per mostrargli che lo stava ascoltando. “Ieri c’è stato un bombardamento a tappeto su Varsavia. Io e Körner eravamo fuori a combattere mentre il capitano von Kleist difendeva la postazione del colonnello: la terra tremava sotto i nostri piedi, il cielo era completamente rosso e il fumo arrivava fino a noi, come se ci trovassimo in mezzo a un incendio. È durato quasi tutto il giorno.” Mentre rievocava le immagini mentalmente, un tremito gli percorse la spina dorsale. Si erano fermati col naso in su a osservare quello spettacolo, incapaci di proferire parola: sembrava che il cielo stesso fosse in fiamme; qualcuno lo aveva addirittura paragonato all’Apocalisse. Lui stesso aveva creduto che quella fosse la fine della guerra, ma all’alba si era risvegliato col rombo dei cannoni. “C’erano aerei ovunque, facevamo fatica perfino a sentire il suono delle nostre voci, ma i polacchi intorno a noi continuavano a combattere. Era come se quel bombardamento li spingesse a continuare anziché scoraggiarli.”
Wessel smise di camminare e si fermò vicino alla finestra con le braccia dietro la schiena, scrutando la strada sottostante: non c’era nessuno. “E von Kleist?”
“Non ero presente quando è successo, ma pare che i polacchi volessero violare la postazione. C’erano dei cadaveri sulle scale: il capitano deve aver fatto saltare l’entrata per impedirgli l’accesso, ma è rimasto ferito nell’esplosione.”
“Detto tra noi, se il capitano me lo consente,” Wessel guardò Fromm, che assentì in silenzio, “ho sempre ritenuto von Kleist una persona intelligente, ma trovo i suoi metodi alquanto… discutibili.”
“Quando era ancora tenente mi è capitato di rimproverarlo per la faccenda del maggiore Lützow, ma credo che le sue scelte siano ben ragionate. Non è un impulsivo che agisce senza pensare. Quella volta si è praticamente sobbarcato l’onere di coprire le spalle a un intero battaglione senza che nessuno glielo chiedesse, e la sua strategia si è rivelata efficace.”
Con la mente, Erich tornò a quell’episodio che l’aveva visto protagonista insieme al capitano: sulla strada del ritorno, erano stati intercettati da una pattuglia polacca. Qualcuno dei loro aveva subito iniziato a sparare a vista – fuoco a cui i polacchi avevano prontamente risposto – ma von Kleist, dopo un breve attimo di sbigottimento, aveva levato una mano. “Dobbiamo tornare indietro, non c’è tempo,” aveva detto, con voce febbrile. “Ci dividiamo, i sottufficiali prendano con sé le loro squadre e si dirigano al luogo convenuto. Presto!”
Tutti lo avevano guardato, ma nessuno aveva osato fare domande e, sollecitati dal capitano, si erano limitati a disperdersi correndo in varie direzioni, mentre i capisquadra abbaiavano loro dietro. Anche i polacchi si erano dispersi, chi inseguendo l’uno e chi l’altro gruppo, ma una mezza dozzina di loro continuava a puntare von Kleist come una muta di cani.
“Kühn, venga con me,” gli aveva ordinato, spingendolo in avanti. “Forza, mi preceda!”
“Cos’ha in mente, signore?”
“Lo capirà tra poco. Adesso pensi soltanto ad allontanarsi da qui, non devono prenderci per nessuna ragione!”
Senza farselo ripetere due volte, Erich si era messo a correre attraverso il villaggio e le campagne, coprendo le spalle al suo superiore mentre i soldati, catturati alcuni prigionieri, raggiungevano incolumi il rifugio.
“Gesù morì sulla croce per redimere l’umanità, ma non è cambiato molto da allora,” replicò Wessel con una scrollata di spalle, riportandolo alla realtà. “E lui si è quasi ammazzato per proteggere dei documenti che difficilmente sarebbero rimasti a lungo in mano al nemico.”
“Non l’ha fatto solo per quello.” Fromm versò del caffè dalla caraffa e ne offrì una tazza a entrambi. “Lei sapeva della corte marziale, tenente?”
Wessel aggrottò le sopracciglia. “Ne ho sentito parlare, ma pensavo che fossero le solite notizie gonfiate, come quella sulla morte del maggiore.”
Erich aprì la bocca per replicare che il maggiore era morto davvero, che le tracce di sangue parlavano chiaro anche se il corpo non era stato ritrovato, ma l’altro lo precedette: “Non credo che lo avrebbero condannato. Probabilmente il processo sarebbe stata solo una formalità per chiarire le dinamiche dell’accaduto, dato che i fatti sono così ambigui. Inoltre, il colonnello voleva tenere la faccenda privata, ma la notizia si è diffusa in fretta… sai com’è.”
L’altro rimase a lungo in un silenzio assorto, a guardare fuori dalla finestra, poi disse: “Allora non capisco davvero perché abbia quasi tentato di ammazzarsi. Non c’erano davvero altre soluzioni in quel momento?”
“Non credo che lo avesse previsto,” intervenne Erich. “Aveva promesso di riunirsi ai soldati.”
“Per me invece lo aveva previsto, è per questo che lo ha fatto,” obiettò Fromm, sorseggiando il suo caffè.
Wessel si voltò verso di lui e inarcò un sopracciglio. “E perché mai?”
“Il motivo non lo so, ma credo di capire il ragionamento. Hai presente i samurai? Le leggi del bushido, il seppuku… una cosa del genere. Ha pensato che sacrificarsi per una buona causa fosse meglio che affrontare il disonore.”
“So poco o niente delle tue cose giapponesi, ma ho capito l’antifona. O meglio, più o meno. La condanna in realtà non ci sarebbe stata: avrebbe avuto pure il maggiore a testimoniare…”
“Il maggiore?” A quel punto, le parole uscirono dalla bocca di Erich prima che riuscisse a controllarle. “Ma il maggiore è morto quasi una settimana fa…”
Wessel e Fromm si scambiarono un’occhiata perplessa, poi il secondo spiegò: “No, è vivo. È arrivato nel mio stesso ospedale poco prima che mi dimettessero: dicono che ha perso molto sangue, ma le pallottole non hanno colpito punti vitali. Se la caverà.”
Erich lo fissò sbalordito: Radio Gavetta, come la chiamava Hartmann, era capace di distorcere le notizie a tal punto? E se anche notizia della corte marziale fosse falsa? E se… “E del capitano si sa qualcosa, signore?”
“Niente, per ora,” rispose l’altro. “Ma non credo che a lui importi, dovunque egli sia. Col suo seppuku, ha salvato i documenti e ha permesso al reggimento di proseguire l’avanzata. La sua missione è compiuta, e tra poco lo sarà anche la nostra.”

La brezza del primo pomeriggio sussurrava pigramente tra gli alberi, isolando il campo di aviazione dal caos del fronte. Una radio gracchiava in sottofondo, ma quasi nessuno le prestava ascolto. Alcuni piloti, approfittando della pausa, dormivano sotto il sole, chi sull’erba e chi sulle ali degli aerei; gli altri erano rimasti seduti alla tavolata a giocare a carte insieme a Manfred e Franz. “Non vorrai vincere anche stavolta!” sbottò von Kleist, rivolto a Franz.
Weber fece un sorrisetto. “Non è colpa mia se non sei stato attento.” Rivelò le carte con un gesto teatrale e gliele schiaffò sotto il naso una dopo l’altra. “Ebbene sì.”
“Hai barato,” sentenziò Manfred, fingendosi irritato, “hai sbirciato. Oppure qualcuno qua dietro ti ha suggerito.” Si voltò verso gli altri aviatori, che alzarono le mani proclamando la propria innocenza.
Franz, serafico, iniziò a raccogliere le carte. “Conosco solo un bel trucco che si chiama memoria. Ricordavo cos’avevi giocato tu, cos’avevo giocato io e le carte che mancavano.”
“Stavolta le distribuisco io.” Von Kleist gli strappò di mano il mazzo e si mise a mescolarlo in silenzio, valutando mentalmente quale potesse essere la strategia più efficace per battere il suo avversario. E se avesse bluffato?
“Non ve ne siete accorti?” chiese Bergmann.
“Cosa?”
“Ascoltate.”
Incuriosito, Manfred tese l’orecchio: al di sotto del brusio della radio e lo stormire delle fronde, il rumore dell’artiglieria non si sentiva quasi più. Era una quiete quasi surreale se paragonata al giorno precedente: quando si erano avvicinati a Varsavia per i soliti attacchi al suolo, gli era parso di sorvolare un mare di fuoco e fiamme.
Un aviere che si era allontanato alzò il volume della radio ed esclamò: “Zitti, zitti, notizie dell’ultimo minuto!”
Tutti tacquero; l’atmosfera palpitava quasi fosse elettrica.
“… alle ore dodici di oggi è stato proclamato il cessate il fuoco… il generale Kutrzeba dell’esercito di Poznań e il generale Blaskowitz dell’ottava armata stanno attualmente discutendo le condizioni di resa della capitale…”
Gli aviatori si scambiarono occhiate ed esplosero in un grido di giubilo; presi dall’euforia, alcuni si misero a cantare e ballare sul prato. Manfred raggiunse il pianoforte sotto una specie di tendone formato da lenzuola e attaccò a suonare una marcia trionfale.
“La guerra è finita! Abbiamo vinto! Si torna a casa, gente!”
“Andate a prendere da bere, si festeggia!”
Fecero girare una bottiglia di spumante per distribuirlo ai compagni, versandone mezzo nei bicchieri e mezzo sul prato, brindarono e si abbracciarono.
“Ai compagni caduti, ai nostri camerati dello stormo e alle famiglie a casa! Al nostro comandante di Staffel, l’Aquila di Varsavia, primo e unico asso tra noi!”
Sollevarono Manfred di peso e lo portarono in trionfo, trascinandolo nel vortice dell’entusiasmo. Il tenente si voltò verso Franz e sollevò il calice da cui traboccava la schiuma. “Al nostro stimatissimo colonnello insectus zelewski!” proclamò in tono solenne. I due ufficiali trangugiarono lo champagne in un sorso, e il nome scientifico dell’insetto ripetuto da Franz fu coperto da uno scroscio di risa e applausi.
Manfred fece per versarsi di nuovo da bere, ma l’arrivo di un attendente del colonnello interruppe la baldoria improvvisata. “Tenente von Kleist!”
“Quel nome scrivimelo su un foglio, magari, altrimenti non lo memorizzerò mai,” disse a Franz, prima di allontanarsi per ascoltare quello che il portaordini aveva da dirgli.
“Signore, il colonnello von dem Bach-Zelewski la convoca nel suo ufficio. Ci sono delle comunicazioni importanti per lei.”
“Arrivo subito.” Congedò l’attendente e, con un rapido gesto della mano, si sistemò all’indietro i capelli e si rassettò l’uniforme sgualcita. “Sono presentabile?” chiese poi.
Gli aviatori annuirono in maniera teatrale, mentre Franz rideva sotto i baffi.
“Certo, signor tenente,” rispose un sottufficiale.
“Sei impeccabile, come da protocollo. Non sfigureresti neanche davanti al Führer in persona.”
“Certo, come no,” replicò Manfred, con un sorriso sghembo. Decise comunque di lasciar perdere certe minuzie e si affrettò per raggiungere la baracca del comandante.
Quando entrò nell’ufficio, il colonnello era seduto alla scrivania a lustrare il suo pince-nez dalle lenti spesse e la montatura d’oro. Salutò formalmente e si mise sull’attenti, chiedendosi perché lo avesse convocato. Con tutta la calma del mondo, von dem Bach-Zelewski finì di lucidare le lenti, inforcò gli occhiali e lo scrutò da capo a piedi – von Kleist gli lesse in faccia il disappunto per il suo aspetto trasandato, ma si stupì di non udire alcun rimprovero – poi gli ordinò il riposo. Egli rimase rigido e impettito vicino alla porta.
Il colonnello, con la sua solita flemma, iniziò a scorrere delle carte e gli porse una busta chiusa. “Tenente von Kleist, questa lettera è per lei.” Manfred si chiese chi gliel’avesse mandata: i vertici della Luftwaffe? Il Quartier Generale? Aveva forse combinato qualcosa di irregolare?
Con la testa sovraffollata d’interrogativi, si congedò e uscì di nuovo all’aperto. Aprì la busta con gesti febbrili, notando che l’intestazione rimandava al reggimento di Potsdam, divisione di fanteria Ostpreußen. Che fosse Friedrich?
Tutto gli fu chiaro nel momento in cui si accorse che il mittente non era lui, bensì un certo capitano Klaus Fromm, comandante della seconda compagnia – la stessa di suo fratello. Leggere quelle poche righe fu come trovarsi sospeso nel vuoto, come nell’attimo prima che l’aereo si rovesciasse e iniziasse a precipitare in vite. “Mio fratello gravemente ferito…” balbettò a mezza voce. “Condizioni incerte… per proteggere i documenti del reggimento…”
Si allontanò come un sonnambulo, abbagliato dal verde del prato e dai contorni distorti del paesaggio, sperando di farsi venire in mente un modo per raggiungere quell’ospedale entro sera. Era il suo gemello, erano nati e cresciuti insieme, avevano condiviso un sacco di cose. Non osava immaginare come sarebbe stato saperlo morto o in serio pericolo di vita.

Quando riaprì gli occhi, una lama di luce bianca lo costrinse a schermarsi il viso con una mano. Il chiarore era così intenso da risultare fastidioso: perforava le tende bianche e s’irradiava attraverso la stanza spoglia, illuminando il pulviscolo che danzava nell’aria. Si sentiva come se il suo corpo fosse diventato un unico blocco di marmo, dove uno scalpello continuava a ritmicamente a colpirgli le costole. Ancora intontito dalla morfina, colse in lontananza una voce femminile, vagamente familiare, che intonava una canzone popolare in dialetto svevo.

Wenn i komm’, wenn i komm’,
wenn i wiedrum komm’, wiedrum komm’,
Kehr’ i ein, mein Schatz, bei dir. 1

“Ma quella non è Trude?” chiese Matthias, indicando una ragazza che raccoglieva fiori sul prato in riva al fiume, dando loro le spalle. Appoggiò la bicicletta contro il muretto che costeggiava l’argine e si arrampicò per saltare dall’altra parte.
Hans lo seguì con più calma, ma scavalcò la barriera con un unico balzo e fu lesto a raggiungerlo. “Può darsi.” La voce della giovane giungeva alle loro orecchie attutita dallo scroscio dell’acqua, che scorreva tra i sassi. “Vaglielo a chiedere.”
Matthias arrossì. “No, per carità!”
Hans si mise a sedere sulla riva del fiume e iniziò a lanciarvi sassi, facendoli rimbalzare sul pelo dell’acqua. “Se non è lei sarà Margarethe, oppure Helene. E comunque la voce mi sembra la sua.” In quel paese c’erano così pochi abitanti che si conoscevano quasi tutti, e i tre ceppi familiari più importanti – tra cui il suo – erano tutti imparentati in qualche modo. Era sempre stato convinto che discendessero tutti dallo stesso antenato e dai suoi numerosi figli.
“Tu la fai troppo facile,” lo rimbeccò l’amico, sulla difensiva. “È perché non puoi capire. Sei sempre così sulle tue, così serio, coi tuoi libri polverosi e i tuoi disegni. Perché non li fai vedere a nessuno?” Gli diede una pacca sulla spalla, strizzando l’occhio con aria complice. “Fai forse i ritratti alle ragazze di nascosto?”
Hans aggrottò le sopracciglia e scagliò un sasso nell’acqua, infastidito. Il ciottolo entrò con un tonfo, sollevando uno zampillo di gocce d’acqua. “Forse sei tu che non puoi capire, non mi interessano le ragazze. Sono solo cose personali che non mi va di mostrare agli altri.”

Kann i glei net allweil bei dir sein,
Han i doch mein Freud’ an dir!
Wenn i komm’, wenn i komm’,
wenn i wiedrum komm’, wiedrum komm’,
Kehr’ i ein, mein Schatz, bei dir. 2

Si chiese che cosa ci facesse Gertrude Wolber lì. Lo avevano rispedito forse in un ospedale nel Baden, dove tutti quelli del suo paese erano venuti a sapere della sua convalescenza? Il solo pensiero che potessero vederlo in quello stato, o anche solo sapere delle sue condizioni, lo mise a disagio. Tentò di girarsi verso la porta, ma dovette reprimere tra i denti un grugnito e ricadde pesantemente sul materasso, fissando frustrato il soffitto.
La voce del ricordo continuava a cantare, sempre più vicina.

Über’s Jahr, über’s Jahr,
Wenn me Träubele schneid’t, Träubele schneid’t,
Stell’ i hier mi wiedrum ein. 3

Il tempo della vendemmia era quasi finito, e forse anche la guerra in Polonia.
Gli venne spontaneo chiedersi in che modo si fosse evoluta la situazione di Friedrich. Non riusciva a togliersi dalla testa quel sogno; più volte aveva rivissuto nei ricordi l’ultimo momento in cui lo aveva visto, prima che le forze lo abbandonassero. L’ombra della corte marziale, la condanna che gli pendeva sul capo, la sua ferma risoluzione di risolvere la questione da solo… nei pochi momenti di lucidità, sospeso tra incubo e veglia, aveva temuto i peggiori scenari: Friedrich degradato, gravemente ferito, morto. La sua perfida immaginazione gli aveva perfino insinuato la paura che si fossero esposti troppo, per quel rapporto e quei gesti così personali che andavano al di là della solidarietà militare, e rischiassero il processo col sospetto di aver violato il paragrafo 175.
La porta si aprì, distogliendolo dai suoi tormentosi pensieri, e nella camera entrò un’infermiera minuta e formosa, con una crocchia di capelli biondo cenere un po’ disordinata. Spingeva davanti a sé il carrello delle medicazioni, e quando lo vide si fermò a fissarlo coi suoi occhi grigi. “Hänsel? Ti sei svegliato, finalmente!”
Hans si meravigliò di quel diminutivo: era da quasi un decennio che non lo chiamavano più in quel modo. “Trude, da quanto tempo. Tu che ci fai qui?”
“Oh, è una storia lunga.” L’infermiera si avvicinò, gli tastò la fronte per controllare la febbre e gli sistemò il cuscino dietro la testa. “Ero venuta soltanto a controllare i pazienti, adesso ho molto lavoro da fare… sono arrivati parecchi feriti negli ultimi giorni, tra cui diversi ufficiali della fanteria. Te la racconterò un’altra volta, promesso.”
“Quando potrò uscire da qui?” chiese il maggiore, senza preamboli.
“La febbre è passata, ma hai ancora bisogno di riposo.”
Hans sbuffò irrequieto, e il movimento gli provocò una leggera fitta alle costole che si trasformò in un colpo di tosse. “Come procede la guerra? Che giorno è?” Allungò una mano verso il bicchiere poggiato sul comodino; Trude si offrì per aiutarlo, ma lui insistette per fare da sé, nonostante i denti serrati per il dolore.
“Ventotto settembre, la Polonia si è arresa ieri. Ci sono alcune sacche di resistenza qua e là, ma la guerra è formalmente finita.”
Mentre si dissetava, Hans fece un paio di brevi calcoli: da quel che ricordava, era rimasto ferito il ventuno, quindi si trovava lì da una settimana. “E dove siamo?”
“Breslavia, poco più a ovest. Se le tue condizioni si mantengono stabili, verrai dimesso tra qualche giorno, ma non devi sottoporti a sforzi inutili. Il tuo fisico è ancora molto provato.”
Bühler sprofondò di nuovo tra i cuscini ed esalò un sospiro. Non poteva avere il controllo sulle sue condizioni fisiche, ma aveva il bisogno di sapere che cosa ne fosse stato di Friedrich. Doveva fare qualcosa, almeno per non sentirsi così impotente e inerme. Come se quelle ferite lo tenessero legato al letto, incapace di capire quello che succedeva intorno a lui. Troppo debole, troppo stanco, la mente offuscata da una nube che limitava la sua capacità di giudizio razionale. Per quanto tempo ancora quelle catene invisibili avrebbero continuato a vincolarlo?
Non ne aveva idea, e quel senso d’incertezza lo riempiva d’angoscia e sgomento.

Per le strade di Varsavia regnava un silenzio quasi irreale: da quando il costante rombo dei cannoni aveva smesso di riverberare nell’aria giorno e notte, ogni minimo rumore pareva amplificato – lo scalpiccio di quattro paia di stivali militari, il fruscio di un volantino trascinato dal vento, un’imposta scardinata che sbatteva monotona contro il muro.
Con una nota di nostalgia, Fromm raccontava a Wessel com’era Varsavia prima della distruzione, ma la sua voce giungeva all’orecchio di Erich come un borbottio informe.
“Sembra un cimitero di rovine… una città fantasma, come in una di quelle scene inquietanti dei film muti,” commentò Hartmann, che fumava assorto accanto a lui. “Adesso ci manca soltanto che i morti prendano vita,” aggiunse poi, in un sussurro.
“Quasi…” Kühn era stato poche volte al cinematografo, ma le immagini grigie e tremolanti che aveva visto sullo schermo non gli sembravano così diverse da ciò che vedeva in quella strada, ormai priva di colori e di sembianze riconoscibili. Ovunque si udiva un fetore di morte, i civili sbandati strisciavano tra le rovine come bestie braccate. Dei palazzi, sventrati e anneriti dalle bombe, rimaneva solo una facciata sbiadita; mucchi di macerie servivano a tappare i crateri, protetti da passerelle di legno che scricchiolavano sotto i piedi.
“Un gatto nero!” esclamò Hartmann, indicando il felino che scomparve all’interno di una finestra con un topo in bocca. “L’hai mai visto il film? Quello sì che è vecchio, ero appena nato!”
“In verità no. Hanno fatto un film dell’orrore su un gatto?”
“Sì, ma poi il gatto muore impiccato, il protagonista inizia a delirare e uccide la moglie. Molto bello, anche se un po’ inquietante. E poi, povero gatto! Quelli che uccidono gli animali senza motivo dovrebbero fare la stessa fine.”
“Sono d’accordo.” Erich pensò a Otto, il cane del plotone, che col tempo era diventato praticamente suo. “Se qualcuno osasse toccarmi Bismarck non la passerebbe liscia.”
Si imbatterono in un gruppo di soldati delle SS che controllavano i documenti di alcuni civili in abiti da lavoro. Qualcuno osava avvicinarsi per collaborare, gli sguardi bassi e l’aria remissiva, mentre gli altri stavano zitti, forse per paura di essere sospettati e fucilati.
“Sono rimasti in pochi, gli altri probabilmente sono già scappati,” osservò Wessel.
All’improvviso si levò un alterco, un paio di uomini si avventarono sui soldati. Una donna scoppiò a piangere, tra le urla e il tafferuglio riecheggiò un colpo di fucile. Un ufficiale gridò, mentre i civili fuggivano spaventati. Kühn e Hartmann si voltarono di scatto e rimasero immobili a fissare il corpo inerte di un uomo, che giaceva a faccia in giù per terra.
Fromm scosse la testa. “Si parla tanto di diritto di natura, ma anche la guerra è naturale: se un uomo ha paura si difende, e si sa che in certi casi la miglior difesa è l’attacco.”
Istintivamente, Erich immaginò la sua Berlino ridotta allo stesso modo, sotto occupazione nemica, e un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Uccidere per non essere uccisi, non funzionava così? Era una legge vecchia come il mondo, e la Germania aveva molti nemici.
Proseguirono per un po’ in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. Soldati del loro reparto brulicavano per le strade, sfruttando l’ora di libertà; avevano l’aria stanca e nessuno sembrava particolarmente in vena di festeggiare la vittoria, se non per bere qualcosa e trascorrere del tempo coi camerati.
Un interminabile corteo di prigionieri in marcia sbarrò loro la strada: ciondolavano come privi di vita, con le uniformi sgualcite e le barbe incolte, marciando verso un destino incerto. Sembravano l’esercito dei morti di una vecchia e malinconica canzone che Erich aveva sentito tanto tempo prima, anche se nessun tamburo scandiva il ritmo dei loro passi.
Hartmann si fermò a guardarli mentre scomparivano dietro una curva, come un lungo serpente umano dai colori sbiaditi. “Chissà dove andranno a finire.”
“Forse non lo sanno nemmeno loro,” replicò Kühn. “Uno del mio quartiere, che ha fatto la Grande Guerra da prigioniero, ne ha raccontate di ogni. Ha passato quattro anni della sua vita a fare la spola da un campo all’altro, a un certo punto si è pure beccato il tifo.”
“Sai, non è detto. Mio nonno, che all’epoca era un maggiore degli ulani, fu fatto prigioniero dagli inglesi. L’ufficiale che lo aveva preso in custodia lo trattava benissimo: passavano il tempo a bere whisky, giocare a carte e parlare delle loro esperienze di vita. Erano diventati così amici che hanno continuato a scriversi anche dopo la fine della guerra.”
Subito a Erich tornò in mente la storia del tenente polacco, finita in una tomba anonima ai margini della foresta. “Anche von Kleist si comportava così coi suoi nemici.”
“Von Kleist è sempre stato un tipo strano,” disse Hartmann, dopo una breve pausa. “È come se in lui non ci fosse una sola persona, ma più persone, che cambiano a seconda di come lo guardi.”
“Pensi che cerchi di comportarsi in maniera diversa da quello che è veramente?”
“Penso che solo chi lo conosce bene sappia veramente com’è fatto lui. C’è chi lo vede come uno che fa sempre come gli pare, chi come un aristocratico spocchioso, chi come una specie di… cavaliere del Graal.”
“Come quello della canzone che suonava al pianoforte… Parsifal?”
”Non mi limiterei a giudizi così semplicistici,” intervenne Fromm, che fino ad allora si era limitato ad ascoltare. “Sono convinto che von Kleist avesse le idee molto chiare quando ha deciso di fare quel che ha fatto. Ha colto l’occasione, non aveva tempo per pianificarne un’altra. Ai piani alti lodano il suo gesto, soprattutto il generale.”
“E si hanno notizie di lui?” chiese Erich.
“Per esser vivo è vivo, anche se ancora incosciente. Non sanno ancora se ce la farà,” rispose Wessel. “Quel che è certo, perché lo dice il generale, è che se l’è cavata in maniera pulita: non ci sarà nessun processo a suo carico.”
Hartmann fece un sorriso sghembo. “Come si suol dire, tutto è bene quel che finisce bene… o quasi.”
Fromm levò lo sguardo verso il cielo, una tela sbiadita che non recava più traccia del fumo che per giorni lo aveva nascosto. Non c’erano aerei, solo uccelli. “Diciamo che chi ha l’audacia di superare se stesso ne esce vincitore, in un modo o nell’altro. Chi invece si rassegna al flusso, rimettendosi alla Provvidenza, verrà portato via dalla corrente senza lasciar traccia di sé.”

Nel riquadro azzurro della finestra comparvero due uccelli che s’inseguivano volteggiando, come in una sorta di amichevole competizione, fino a dileguarsi con un verso stridulo. Quel dettaglio fece riaffiorare alla mente di Hans la conversazione sotto la vecchia quercia, quando per la prima volta Friedrich gli aveva chiesto della sua terra d’origine: il fatto che proprio lì, in quella zona di confine così lontana da casa, a occuparsi di lui fosse una sua vecchia compagna di classe, gli dava come l’impressione che tutto fosse collegato in un modo che non riusciva a spiegarsi.
Tutto… o quasi. Non aveva ancora ricevuto notizie di Friedrich, e quel pensiero continuava a turbare i suoi sonni e le sue veglie, senza tregua: per quanto si fidasse del suo compagno, l’incertezza e l’impossibilità di colmare quel vuoto generavano miriadi di scenari differenti.
“So badare a me stesso, Schwabe.”
Se tutto fosse andato secondo i suoi piani, le probabilità di successo si sarebbero moltiplicate. Aveva calcolato tutto: il piano d’azione, i possibili rischi, le alternative disponibili. Friedrich non avrebbe rischiato la carriera e lui non sarebbe stato costretto a rendere falsa testimonianza – o quantomeno a distorcere il suo resoconto – per salvarlo.
Se tutto fosse andato secondo i suoi piani, avrebbero potuto conquistare la vittoria insieme, sul campo, entro i limiti della legge. Se tutto fosse andato secondo i suoi piani…
In quel momento, qualcuno bussò alla porta, e Trude entrò reggendo un vassoio con una tazza, una teiera e dei biscotti.
“Oggi trattamento speciale?” le chiese Hans, ironico.
L’infermiera sorrise complice. “In qualche modo bisognerà festeggiare la vittoria.” Gli sistemò il cuscino dietro la schiena, aiutandolo a mettersi seduto. “Come stai, Hänsel?”
Egli emise un sospiro. “Se fosse per me, mi alzerei già adesso.”
“Non è prudente. Devi pazientare ancora qualche giorno.”
“Si vede che non sopporto l’infermità?” borbottò il maggiore, sistemandosi il tovagliolo intorno al collo con una smorfia contrariata.
“Dovresti imparare a non farti ferire, allora,” replicò Trude, mentre gli versava il tè nella tazza.
Hans la fulminò con un’occhiataccia, ma poi scosse la testa con un mezzo sorriso: il vassoio era pieno di biscotti a forma di stella, ricoperti di glassa di zucchero. Ne assaggiò uno e riconobbe subito il sapore di cannella e mandorle, che lo riportò indietro di diversi anni. “Zimtsterne, da quanto tempo non li mangiavo… è forse passata mia zia da queste parti?”
“No, però ha saputo che eri qui e ha pregato Matthias di portarteli…”
“Matthias? Quel Matthias?”
Gertrude scoppiò in una risata genuina, prese una sedia e si sedette vicino al letto. “Si vede che non vieni da tanto tempo dalle nostre parti! Sì, lui, Matthias Trautwein in carne e ossa. Ci siamo sposati cinque anni fa, mentre io studiavo ancora medicina, e abbiamo due figli.”
“Ma tu senti!” Hans quasi si soffocò con un biscotto, e ingoiò un copioso sorso di tè per impedirsi di tossire. Rammentò il suo amico, da sempre innamorato di lei, che la osservava di nascosto ma non aveva il coraggio di parlarle. “Ha finalmente deciso di farsi avanti?”
“In realtà sono stata io, altrimenti lui… figuriamoci! Probabilmente non avrei mai saputo che era innamorato di me, anche se pure io lo ero.” Gertrude rise ancora, poi trasse dalla tasca una fotografia che ritraeva lei, Matthias e una bambina sui tre anni: lui, rosso di capelli con l’uniforme da soldato semplice, teneva in braccio un infante, e lei era vestita da infermiera. “Questo è poco prima di partire per il fronte,” spiegò. “E così, quando è scoppiata la guerra ci trovavamo tutti e tre in Polonia, anche se in luoghi diversi… ora che ci penso, saresti potuto essere il comandante di Matthias!”
“Non oso immaginare,” commentò Hans con caustico sarcasmo. “Forse è meglio di no.”
“Dai, non è così pessimo! Chissà, forse era tra quelli che hanno portato armi e rifornimenti a voi della prima linea. Non ha praticamente mai visto il nemico in faccia! Voi, invece…”
Hans si rabbuiò: non solo aveva visto il nemico in faccia, ma aveva pure rischiato la prigionia e la morte. La distanza tra lui e i suoi amici d’infanzia, in quel frangente, sembrava essersi ancora più accentuata. Lui, ragazzo venuto da un minuscolo paesello nella Foresta Nera, non si sarebbe mai aspettato di incrociare la strada di un rampollo prussiano, né di condividere con lui la pace e una guerra su più fronti – eppure, tutto ciò era accaduto, e la vita semplice di Gertrude e Matthias gli appariva scialba; tuttavia, non si sentiva in vena di condividere le sue esperienze belliche, e rimase a bere in silenzio, guardando fuori dalla finestra.
“E tu?”
La voce della ragazza lo riscosse. “Io cosa?”
“C’è qualcuno che ti aspetta a casa?”
Hans rispose con un’alzata di spalle, senza voltarsi verso di lei. “Io sono un soldato, ho deciso di dedicare la mia vita a questo.” E in fondo, pensò, era la verità.
Lei, che evidentemente aveva capito che era meglio non insistere, decise di lasciar perdere il discorso. “Allora, quando vieni a trovarci? Non ti si vede da tempo!”
Hans s’incupì ancora una volta, rammentando la promessa fatta a Friedrich. “Mi stavo organizzando,” rispose poi, in tono neutro. “Prima però ho bisogno di sapere dov’è il capitano von Kleist.”
“Chi è? Non ne ho mai sentito parlare, non credo che sia qui.”
“È il mio aiutante di campo, ci siamo persi di vista dopo la battaglia…” Si fermò di colpo: quella stessa mattina, in giardino, aveva sentito parlare di un ufficiale che si era quasi fatto saltare in aria con una granata per difendere alcuni documenti di reggimento. Lì per lì, impegnato a leggere sul giornale le ultime notizie sulla capitolazione, non ci aveva fatto caso, ma in quel momento gli venne il netto dubbio che potesse trattarsi di Friedrich. Svuotò la tazza e scostò da sé il vassoio. “Devo sapere come sta, se qualcuno ha notizie di lui.” Si mise a sedere con le gambe fuori dalla sponda del letto, nel goffo tentativo di alzarsi, ma ricadde all’indietro con un capogiro.
“Fossi in te starei attento, che quella pallottola ti ha quasi mandato all’altro mondo!” lo rimproverò bonariamente lei, porgendogli il braccio.
Hans la prese in giro: “Sai come si dice, dulce et decorum est…”
“Lascia stare il tuo latinorum!”
“Dovresti impararlo anche tu, ti piacerebbe.”
“L’unico latino che conosco mi serve per curare i pazienti, e a differenza tua, so bene che un convalescente non può alzarsi a suo piacimento. Prova a chiedere a un ufficiale medico se ti fa telefonare al tuo comandante.”
Egli rimase seduto, rassegnato, ma senza rimettersi a letto. “Ho bisogno di sapere come sta quel capitano. Al più presto.”
“È così importante per te?”
“È il mio aiutante di campo, eseguivamo sempre le manovre insieme,” ripeté. “Mi fidavo dei suoi pareri strategici, delle sue capacità. Era il mio collaboratore più fidato.” Fece una piccola pausa, guardando di nuovo fuori. “E non solo, siamo buoni amici anche al di fuori dell’ambito militare, conosce pure mia zia. È stato lui a convincermi a tornare a casa.”
Si accorse che in tutto ciò non aveva nemmeno pensato ai suoi sentimenti per lui: ormai non era più capace di separare la loro alleanza militare da ciò che li legava a un livello personale, e dopo quell’esperienza il confine tra le due cose era diventato ancora più sottile.


  1. Quando tornerò, quando tornerò / quando tornerò indietro / tornerò, mia cara, da te.↩︎

  2. Non posso stare sempre con te, / ma ovunque io sia, la mia gioia sarà con te / Quando tornerò…↩︎

  3. In quel momento dell’anno / in cui si avvicina il tempo della vendemmia / tornerò a casa↩︎





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3980640