Il signore dei Khai

di Enchalott
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Il dio della Battaglia
 
Belker appoggiò a terra il puntale inferiore dell’Arco. Scrutò il fremere dei combattenti, velato dal pulviscolo; ascoltò il clangore dell’acciaio che incontrava la resistenza di un avversario, intese i lamenti strazianti dei feriti, percepì nell’agonia lo scemare inesorabile della vita.
Anche quel giorno innumerevoli anime sarebbero tornate alla dimora di Reshkigal, le fiamme avrebbero incinerato i corpi mortali, rischiarando la notte. Era il suo elemento, la sua ragion d’essere, la sua gloria.
Scelse una freccia dall’impennaggio cremisi e mirò al mondo che si estendeva ai suoi piedi, oltre la barriera energetica di cui si ammantava. Una piega dello spazio-tempo, che gli consentiva di visitare i mortali senza essere percepito e di arbitrare le sorti di un conflitto secondo il proprio inappellabile volere. Una luce selvaggia gli illuminò le iridi di bronzo quando la saetta abbandonò la corda e squarciò l’aria gonfia di nubi. Nell’attimo in cui si confisse nel suolo di Minkar, lo scontro oscillò. Divenne cruento, spietato, come se ognuno fosse stato invaso dalla smania di sangue.
Si raddrizzò per ammirare l’esito: le collane che gli ornavano il petto, scendendo dal collo in anelli elaborati, tintinnarono tetre. Si passò una mano nella folta chioma rossa, una lingua di fiamma sulle spalle possenti. Per un attimo fu visibile la piuma arancio incastonata tra le sopracciglia.
Gli assaliti si difesero con le catapulte: le sfere incendiarono il cielo in code incandescenti. I Khai si spostarono dalla portata dei bracci, sorvolando l’assedio in ampi cerchi.
Belker si appollaiò su un masso e seguì la strage con bramoso interesse. Una pioggia torrenziale iniziò a sferzare la piana, ma le vesti brune, decorate con la livrea corniola della fenice, rimasero asciutte.
Il diluvio rese il terreno impraticabile. La cavalleria minkari si impantanò, offrendosi alla mercè dei demoni, che le tagliarono la strada e si prepararono a un corpo a corpo nel quale sarebbero risultati in netto vantaggio.
L’essere Superiore grugnì contrariato, preparandosi a intervenire, ma una presenza si materializzò al suo fianco.
Una donna dalle forme provocanti, vestita con un’uniforme nera dotata di lamine argentate sulle scapole, s’inginocchiò rispettosa al suo cospetto. Era un’epharat, un alito messaggero votato al suo servizio. Non una divinità, non una creatura mortale, un’essenza feroce generata dal desiderio umano di prevaricare.
«Llamea?»
«Mio signore, v’importuno per mettervi a parte di una questione incresciosa.»
«Se alludi all’ultima empietà operata dal principe dei Khai, ne sono al corrente. Una discreta faccia tosta, ma il fatto che sfoghi gli istinti repressi nel mio tempio non mi tange. Ha ben altra utilità.»
Le labbra voluttuose della donna si piegarono in una smorfia divertita.
«Ho ammirato le effusioni attraverso le fiamme sacre. Interessante come i mortali ne traggano piacere.»
«Non hai che da chiedere, Llamea. Essere ai miei ordini comporta aspetti gradevoli.»
«Onorata. Non è per l’erede di Mardan o per appagare la curiosità che vi disturbo. Il supremo Kalemi ha dato ordine di rintracciarvi, i delegati sono partiti.»
«Sarebbero?»
«Il divino Elkira e il sommo Eenilal.»
«Un dannato segugio, per tutti gli inferni! Se il signore del pantheon lo spedisce a ficcare il naso nei miei affari, non è certo per un bonario richiamo.»
Percorse irrequieto lo spazio angusto che si era riservato. Il dio del Buio era riuscito a stanare prede ambite, lo avrebbe trascinato davanti al sovrano celeste, che gli avrebbe domandato ragione dei prasma dilatati tra gli universi. Ma non aveva di che preoccuparsi: con il perdurare della guerra, i poteri sarebbero incrementati. Sarebbe sempre esistito qualcuno con l’ingordigia per l’altrui, deciso a optare per la via più semplice. O qualcuno con un irrisolto talmente ustionante da provocare un conflitto.
Riposizionò l’Arco e prese la mira. La seconda freccia si abbatté nella mischia, regalando nuova prerogativa a Minkar.
«Non sosteniamo i Khai, mio signore?» domandò l’epharat.
«Prova a immaginare che accadrebbe se subissero una sconfitta dopo l’altra.»
«Invierebbero rinforzi.»
«E il principe Mahati sarebbe costretto a tornare in campo, rimandando il matrimonio con la figlia del re dei Salki.»
«Una situazione incresciosa e precaria.»
«Solo per chi non conosce l’intero disegno.»
Llamea guardò con ammirazione il volto assorto del dio della Battaglia. Questi le prese il mento tra le dita.
«Al tramonto» ordinò «Sono stanco di udire i gemiti dei feriti. Ascolterò i tuoi.»
 
«Generale Sheratan, lo stormo è pronto!»
Questi rallentò il volo e si lasciò affiancare: il viso del messo che l’aveva interpellato era venato di comprensibile stupore. Inverosimile essere stati respinti.
I Khai non concepivano la sconfitta, smaniavano per riscattare l’onore. Ma non sempre l’irruenza della sua stirpe risultava una prerogativa, soprattutto in circostanze fuori dal comune.
«Nessun ordine di decollo, valuterò la tattica idonea. Non sono le catapulte a infastidirmi, possiamo sbarazzarcene con il ladi
«Devo predisporre i cocci incendiari?»
«Aspettiamo. È come se i Minkari conoscessero in anticipo le nostre mosse. Difficile pensare che la regina Amshula abbia trovato in tempi stretti uno stratega migliore di Danyal. Qualcosa non torna.»
Il guerriero allibì sotto il dorcha che gli tingeva il volto di rosso.
«Pensate che qualcuno abbia tradito!?»
«Lo escludo.»
Il fragore del tuono sovrastò quello della battaglia, l’armata avversaria avanzò nel pantano guadagnando posizioni.
Sheratan sorvolò lo scontro, ma non distinse novità probanti. I suoi uomini snudarono le spade a supporto degli agli artigli e riequilibrarono le sorti del combattimento. Si chiese per quanto.
«Segnala alla formazione di lasciar perdere la città» ordinò «Richiama i cavalieri alati, la fanteria minkari non assisterà al tramonto di oggi. Allo spegnersi del giorno, il dio della Morte riceverà la nostra offerta. Invia il rapporto al sommo Kharnot
Il subalterno sfrecciò lontano. Sheratan si terse l’acqua dalla fronte ombreggiata dalle lunghe corna e si leccò le labbra, assaporando il gusto inconfondibile della pioggia. Non era la prima volta che si trovava zuppo fino al midollo. Una sensazione quasi piacevole per chi era nato in un mondo privo di risorse idriche. In quel momento non trasse la medesima impressione: emanava lo stesso odore delle lacrime.
 
 
Mahati si immerse nella piscina circolare posta al centro dell’ambiente. La vetta della torre ovest era un rifugio privato dove nessuno osava importunarlo, neppure per le emergenze belliche o per una convocazione del re in persona.
L’orlo di marmo nero era a livello del pavimento, la vasca scendeva incastonata nella roccia dai riflessi tormalina. Sedette e appoggiò la schiena al bordo, rilassandosi.
Le finestre ad arco erano schermate dai tendaggi, le fiaccole abbordiate alle pareti spandevano un aroma resinato. Il vassoio di metallo punzonato, posizionato ad hoc, presentava una brocca colma di vino pregiato e due coppe: l’effluvio caratteristico raggiunse si mischiava agli altri profumi.
I rumori giungevano ovattati dalla distanza. Riusciva a distinguere il pigolio di Fyratesh, che lo attendeva all’ingresso sottostante. Appoggiò il capo alla pietra smussata e trasse il fiato. Era assuefatto alla frenesia degli accampamenti, uso a concedersi soste sporadiche, a malapena sufficienti per mantenersi vigile. Trascorrere una sera senza l’andirivieni dei guerrieri o il susseguirsi delle allerte, che lo costringevano a montare sul vradak nel cuore della notte, appariva un sogno. Come dormire in un letto degno di quel nome.
Il sonno si fece strada tra i sensi. Socchiuse gli occhi e lasciò che il vapore gli offuscasse la vista. Era più stanco di quanto non si fosse raccontato al fine di alimentare il desiderio di espugnare la vetta, per dare lustro al proprio nome, eternità alle proprie imprese. Una guerra dopo l’altra, conquista dopo conquista, nel sangue e nella paura, senza mai fermarsi.
Eppure si sentiva meglio quando era lontano da Mardan, circondato dai suoi uomini nell’incertezza dell’alba. Combatteva per se stesso, non per Kaniša, non per i Khai o per l’acqua. La smania di trasformarsi in una leggenda era una droga che lo stordiva e lo assuefaceva, portandolo a cercarne di più.
«Sei già nel mondo onirico?»
La voce di Rhenn lo sottrasse al dormiveglia. Borbottò una risposta negativa, mentre il nuovo arrivato si spogliava e scivolava nella vasca. I lunghi capelli argentati affiorarono a pelo d’acqua, circondandolo come un’aura.
«Com’è che porti ancora il dorcha?» lo apostrofò Mahati.
Il maggiore prese a strofinarsi la pelle fino a rivelarne la tonalità naturale.
«Non ho avuto tempo per ripulirmi.»
«Neppure per visitare tua moglie, deduco.»
L’altro sogghignò all’eccellente osservazione, ma non si spese in dettagli. Un conto era che il fratello sospettasse la sua infedeltà, un altro era ammetterla.
«Tu invece?» rilanciò malizioso «Hai assaggiato la tua futura sposa?»
«Ho rimediato altrimenti.»
Il maggiore proruppe in una risata.
«E pensare che te l’ho fatta addobbare apposta! Complimenti per il sangue freddo!»
«Non dire idiozie! Non ha mai toccato un uomo, figurati darsi a un Khai! Non so nemmeno se sopporterebbe la nostra unione fisica! Per non citare l’inadeguatezza sull’argomento.»
«Bah, le schiave salki non si lamentano. Non ti facevo tanto sensibile.»
«Le shitai destinate ai guerrieri scelgono se concedersi o morire e talora le opzioni coincidono, non le userei come metro di paragone. Ho agito nel rispetto dell’onore del clan. Nessuno di noi prende una donna con la forza. Devo supporre che per te, nonostante il lignaggio reale, non sia così?»
Rhenn incassò la stoccata e tornò a sorseggiare placido il suo vino.
«Era un po’ che non ti provocavo, lo trovo divertente come al solito.»
«Anche tu non mi deludi, lanci il sasso e nascondi la mano.»
Si fissarono negli occhi in una sfida silenziosa.
«Rasalaje era consenziente, se vuoi saperlo» borbottò il primogenito «Anzi, è stata lei a saltarmi addosso e io non mi sono negato.»
Mahati inarcò un sopracciglio, cercando di capire se la rivelazione fosse un’ulteriore istigazione alla lite. Decise per il no.
«Tua moglie è una Khai d’alto rango, libera e consapevole. La mia promessa no.»
«Dunque attenderai le nozze?»
«Non l’ho detto. Perché ti interessa?»
«Perché potrebbe venirti voglia di rifiutare il matrimonio. Sarei costretto a farti cambiare idea con le maniere forti, una vera seccatura.»
Gli occhi chiari dello stratega supremo si riempirono di collera, ma riuscì a frenarla.
«Puoi riferire a nostro padre di non agitarsi. È controindicato per la sua salute.»
«Non è Kaniša a sollecitarti.»
Il secondo principe sorrise amaro, appoggiando le labbra all’orlo della coppa.
«Ha fatto abbastanza a suo tempo.»
Rhenn evitò di confutare un’affermazione che condivideva ma si accigliò. Mahati avrebbe dovuto piegarsi o il trono avrebbe perso stabilità come accaduto in passato. Un errore che li aveva quasi annientati.
Prenderlo di punta non lo convincerà ma la tattica vincente non mi è estranea.
«Mh, hai subito rimediato all’astinenza.»
«E allora? Le guardie reali considerano un privilegio condividere l’amplesso con un principe del sangue.»
«Non ti sto accusando. Semplicemente noto che, se ti sei portato un’altra a letto in tempo zero, la principessina salki ti ha stimolato. Le rimostranze sono di facciata?»
Mahati strabuzzò gli occhi.
Rhenn evitò per un soffio il colpo d’artigli che incise la pietra in cinque solchi profondi. Saltò fuori dalla vasca ridendo di gusto, seguito da una grandinata di improperi, alcuni dei quali - giudicò - molto appropriati. Raccolse il telo, lo drappeggiò al corpo snello e ne porse un altro al fratello in segno di tregua.
Mahati gli lanciò un’occhiata assassina, ma emerse dall’acqua privo di animosità. Si massaggiò la mano dolorante e allacciò il lino ai fianchi: le fiamme tatuate sul petto parvero animarsi sull’epidermide ambrata. La chioma corvina lasciava scoperta la schiena, sulla quale spiccavano tre segni scuri.
«Ho come l’impressione che tu voglia ammazzarmi sul serio» brontolò Rhenn.
«Soddisfa una mia curiosità, anziché collezionare sciocchezze! Che accadrebbe se Yozora non superasse le prove?»
«Ottima domanda. Impensabile non sottoporla al percorso. Qualcuno dovrebbe ragguagliarla, se fallisse equivarrebbe a una calamità.»
Mahati soppesò il significato dell’affermazione, ma evitò di inquietarsi di nuovo.
«Tu le hai affrontate con successo.»
«So a cosa miri. Scordatelo.»
«Ragiona, Rhenn, è la soluzione idonea. Non mi trattengo mai a Mardan, non posso occuparmene e non mi va di incaricare terzi, è una questione troppo personale. Hai scelto la ragazza non a caso, se ben ti conosco. »
«Perché invece non ti fermi qui e a me lasci Minkar?»
«Convinci Kaniša» sogghignò Mahati «Non eccepirei se cedesse a te la guerra e a me la successione. Uno scambio equo, magari risolverei la questione a monte e ambirei a una moglie khai, che non necessiterebbe d’insegnamento. Due prede con un’esca. Che ne dici?»
L’Ojikumaar aggrottò la fronte. Anche il fratello non era male a tirare i lacci. Tuttavia esaudirlo gli avrebbe consentito di unire l’utile al dilettevole: controllare da vicino le tappe che avrebbero condotto Mahati al matrimonio, quindi all’esclusione dalla successione. E, con la scusa di instradare la spaurita ragazzina salki, evitare la noiosa burocrazia di palazzo.
«Mi hai convinto.»
Il Šarkumaar intese quale motivazione avesse persuaso Rhenn ad accettare in fretta. Tenne la considerazione per sé: ciascuno aveva ragioni e obiettivi propri, si trattava di giocarli con astuzia.
«Ne sono lieto. Mi domando come la prenderà Rasalaje.»
«Non costituirà un ostacolo.»

Rasalaje aveva atteso invano, osservando il terzo sole sparire tra i denti aguzzi dell’orizzonte. La notte era giunta, le ancelle si erano ritirate, l’akacha si era riscaldato, il talamo era rimasto privo dell’agognata presenza di suo marito.
Era stata sul punto di uscire per rintracciarlo, ma aveva contenuto il risentimento e con la massima discrezione aveva inviato una dorei a caccia di notizie. Non era opportuno che la scarsa intesa tra i futuri sovrani trapelasse. Avrebbe attirato sgradevoli attenzioni sulla mancanza di un erede: attribuirla al disinteresse del principe avrebbe esteso il dubbio sul loro vincolo e sarebbe stato deleterio per tutti.
Si rigirò tra le lenzuola di seta. Non avrebbe messo al mondo alcun successore, se Rhenn non avesse contribuito. I mesi di lontananza le erano pesati non solo perché non li aveva trascorsi incinta, ma anche perché le era mancato.
Sebbene si fossero ritrovati insieme da un giorno all’altro, Rhenn non era un semplice obbligo per lei: credeva nella loro unione. Al contrario, lui era insondabile, distante, addirittura insofferente. Il tempo aveva acuito le sensazioni angoscianti.
Trascorrere la vita ad aspettarlo era gravoso in termini di tranquillità personale. Si sforzava di ignorare i suoi silenzi o la sua arroganza, ma essergli devota la stava rinchiudendo in una gabbia. Eppure non lo avrebbe mai tradito, l’avrebbe accolto con rispetto, non gli avrebbe domandato dove fosse stato o con chi. Era la parte morbida della coppia e lui ne era conscio.
La schiava aveva riferito che si era recato al tempio. Rhenn era il sommo officiante del dio della Battaglia, il portatore della fiamma, era suo compito elevare la preghiera propiziatoria. Il fatto che non si fosse precipitato tra le sue braccia non era un’ingiuria o una disattenzione, tuttavia aveva sperato di non essere posposta a Mahati.
Un rumore la staccò dalle spiacevoli considerazioni: il passo inconfondibile risuonò nell’anticamera, mischiandosi al batticuore. Il principe attraversò la stanza, facendo oscillare appena i tendaggi e le vampe delle lampade.
«Sei ancora sveglia?»
«Non vedevo l’ora di riabbracciarti.»
Rhenn le sfiorò la mano con le labbra. Un gesto freddo e misurato, che non aveva nulla a che vedere con la passione di cui i Khai erano capaci.
Avvolta nella seta turchese, che evidenziava le forme e giocava con il ghiaccio delle iridi, sua moglie era bellissima, chiunque ne sarebbe rimasto ammaliato. Era la regina che ogni sovrano avrebbe desiderato accanto di giorno e tra le braccia di notte, nata per essere la sua compagna, per protrarre il suo sangue, per compiacerlo.
I capelli color grano gli sfiorarono il petto mentre si piegava per baciarlo. Accettò il contatto e percepì dal suo profumo quanto lo volesse.
«Non stanotte» asserì lapidario.
La principessa gli accarezzò il viso, le dita scesero lungo le curve e sinuose del thyr.
«Ti ho atteso a lungo.»
«Sono stanco.»
Rasalaje camuffò la delusione: sarebbe stata capace di tenerlo sveglio, se ne avesse avuto l’opportunità. Ma i rifiuti di suo marito erano inappellabili.




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