Eterna condanna

di wolfymozart
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Il conte stava seduto alla scrivania della sua biblioteca, una stanza ampia e ricolma di antichi volumi, con una grande finestra da cui si potevano ammirare i vigneti che si estendevano a perdita d’occhio. Uno splendido sole di primavera inondava di luce i campi del Ponthieu, si riverberava sui corsi d’acqua, illuminava le fronde degli alberi del giardino del palazzo dei Blanchard. Attratto da quel cielo terso, dal canto grazioso degli uccelli, Auguste de Blanchard si alzò, lasciando per un attimo le carte che stava leggendo. Scrutò fuori dalla finestra: le sue terre, ricche, floride, gli avevano sempre garantito una rendita notevole. Quanto gli pesava doverle lasciare! Quanto ingiuste erano quelle sciagurate leggi della Repubblica! Un sospiro amaro gli gonfiò il petto e con un gesto di stizza scosse il velo della tenda, per non prolungare oltre quella visione. Eppure, meditava, era meglio salvarsi la vita, mettersi al riparo e sperare in una riscossa di lì a qualche tempo, piuttosto che essere destinati al patibolo. Stava appunto leggendo la missiva che gli era stata fortunosamente recapitata quella mattina da parte del barone Woodville: prometteva ottime prospettive per loro in Inghilterra, li attendevano a braccia aperte. Suo figlio Roland, ex ufficiale dell’esercito regio espatriato oltremanica agli albori di quella nefasta rivoluzione, si era messo in contatto con i maggiori esponenti della nobiltà londinese, cercando aiuto per la sua famiglia. Ed ecco, finalmente, una buona notizia. Restava, però, la difficoltà di organizzare la fuga, sua e di sua moglie, ma anche della famiglia di sua figlia Marianne. Roland lo pregava di parlare con il conte di Beaufort, di convincerlo ad andarsene appena possibile da Parigi, diventata sempre più pericolosa, di smetterla con quello stupido gioco di forza che aveva intrapreso con il governo rivoluzionario: il suo coinvolgimento nella guerra in Vandea e i suoi rapporti epistolari con il marchese de Bonchamps non sarebbero potuti rimanere ignoti a lungo. L’atteggiamento provocatorio e del tutto irresponsabile che manteneva nei confronti della Convenzione avrebbe messo in pericolo la vita di sua sorella e perfino di sua nipote Juditte, tuonava Roland da Londra: quei pazzi dei Giacobini non si sarebbero fermati nemmeno davanti ad una bimba di otto anni, suo cognato stava scherzando con il fuoco e lui, suo padre, avrebbe dovuto fermarlo ad ogni costo.
L’anziano conte si lasciò cadere sulla propria poltrona, in preda a contrastanti pensieri: lui che aveva servito il re per tutta la sua vita, sacrificando agi e affetti alla carriera militare, combattendo perfino nel Nuovo Mondo per l’esercito francese, si trovava ora costretto a scegliere tra la salvezza della propria vita e di quella dei suoi cari e la difesa, strenua ma vana, della patria. Un vile, ecco che cosa sarebbe stato se avesse dato ascolto a Roland, un vigliacco che fugge dinnanzi al nemico, che abbandona le proprie terre nelle mani di contadini inferociti senza nemmeno alzare un dito. Eppure, giunto alla sua età, non aveva più la forza di combattere, di resistere, di opporsi all’inevitabile rovina a cui, dopo aver dominato per secoli, l’aristocrazia francese stava andando incontro. Era immerso in queste amare riflessioni quando nella stanza fece il suo ingresso la moglie, con in piglio che gli apparve subito concitato.
-Ebbene, Auguste, ho appena letto le nuove che ci manda Roland. Ha scritto anche a voi, immagino. Siete, dunque, propenso a raggiungerlo? – gli chiese con quel suo sguardo inespressivo, con tono distaccato, come se la faccenda ben poco la riguardasse.
- Mia cara Eloise-le rispose, facendole cenno di accomodarsi sulla poltrona color senape di fronte a lui. – Credo che Roland abbia ragione, tuttavia non amo lasciare conti in sospeso e fuggire come un vigliacco. Sono un militare, ricordate. Ma, certo, la situazione…-
La contessa lo interruppe fremente: - Auguste, la situazione è disperata. Lo so che cosa state tramando insieme a Beaufort, gli aiuti ai vandeani e tutto il resto, ma qui è si sta parlando della nostra testa! –
-Oh suvvia, credete che io sia un irresponsabile? Pensate che non calcoli il rischio a cui siamo costantemente esposti? Cathelineu e Bonchamps non potranno resistere a lungo, la ribellione della Vandea è destinata ad essere repressa nel sangue, me ne rendo conto. –
 - Nonostante questo continuate ad incontrare nostro genero per organizzare il riarmo dell’esercito degli insorti, continuate a mantenere corrispondenza con i realisti. Se dovessero smascherare i vostri piani, tutti noi faremmo una brutta fine. – lo minacciò con uno sguardo acuto, penetrante.
- State esagerando, mia cara. Io e Guillame de Beaufort stiamo soltanto sostenendo la causa in cui anche voi credete. Vi assicuro, osserviamo tutte le più basilari precauzioni per aggirare la censura e i controlli. Non vi nascondo che la lettera del barone Woodville mi alletta a lasciare tutto e ad andare in Inghilterra, ma ci devo riflettere. Ci dobbiamo riflettere, Eloise. –
- Più di quello che accadrà a noi, caro marito, temo quello che potrebbe accadere a Marianne: Beaufort è un pazzo, un incosciente e la vita di nostra figlia è nelle sue mani. Tutte le famiglie nobili se ne stanno andando da Parigi e lui che fa? Resta e dà scandalo, provoca i Giacobini, sfida la Convenzione aiutando i ribelli della Vandea, espone Marianne e Juditte a notevoli rischi. Arrogante e sfrontato. Ho molta paura di quello che potrebbe accadere. –
- Beaufort è un arrogante, è vero, è giovane e audace: non dimentichiamo che i Beaufort furono pari di Francia per secoli e ora, per colpa di quattro scalmanati, si ritrovano nella polvere. Guillame è troppo orgoglioso per poter sopportare questa ingiustizia, questa aggressione ai nostri diritti, alla nostra classe che ha guidato con sacrificio e lealtà la Francia fino ad oggi: come biasimarlo? Tuttavia sono certo che non metterebbe mai a repentaglio la vita di Marianne e di Juditte. Ne sono sicuro.-
- Vorrei tanto essere sicura quanto voi, ma conservo intatti i miei dubbi. Quell’uomo ama più il suo orgoglio di quanto non ami Marianne, l’ha più volte dimostrato. Ed io non sono altrettanto convinta che abbiamo fatto la scelta giusta, intendo sul suo conto…-
- Oh, Eloise! Non andiamo a rivangare queste vecchie storie. Beaufort è il miglior partito che Marianne avrebbe potuto sposare: un pari di Francia! E poi sappiamo quali fossero le nostre condizioni, sappiamo quanto ci sia stato d’aiuto nelle difficoltà che abbiamo passato, a causa dell’avventatezza di Roland e, lo ammetto, della mia negligenza. Sì, confesso, sono stato negligente nei confronti dei miei figli: non ho vegliato su Roland che dilapidava al gioco le nostre sostanze, non ho vegliato su Marianne. Ve lo ricorderete, immagino, in quale guaio si stesse cacciando. Non avevamo altra scelta e non me ne sono mai pentito. Non avreste di certo voluto un nipote dal sangue bastardo…–
- Non v’è dubbio alcuno che sia stata la scelta più conveniente in quel frangente, ne conservo invece alcuni sul fatto che sia stata la scelta più felice. Tuttavia l’importante ora è che convinciate anche Beaufort ad accettare la proposta di Roland, e a permettere a Marianne di trascorrere qualche tempo qui, da noi, insieme a Juditte.-
- Non mancherò di scrivergli, mia cara. Gli invierò oggi stesso una lettera e lo convocherò qui per la prossima settimana. Siete contenta?-
Eloise de Blanchard sorrise soddisfatta di quella sua piccola vittoria sul marito e, all’ingresso della domestica con il caffè, si trattenne per qualche tempo a sorseggiarne una tazza conversando con lui riguardo ai figli lontani e alle scelte decisive che attendevano la loro famiglia.
 
-Dottor Clermont, perdonatemi se vi disturbo. – esordì Louise, la domestica dei conti di Beaufort, ritornata a cercarlo, quando il medico aprì l’uscio.
- Buongiorno, cittadina, non avrei mai pensato di rivedervi. È successo qualcosa alla bambina? – si allarmò. Era passata una settimana dalla sua visita al palazzo dei Beaufort e si era convinto che la contessa non l’avrebbe mandato a chiamare una seconda volta dopo quel colloquio secco e distaccato. Doveva, perciò, essere successo qualcosa di grave, Juditte doveva essere peggiorata se la domestica era stata nuovamente inviata a chiamarlo.
- No, dottore, non è successo nulla. La contessa voleva soltanto che visitaste Juditte per accertare la guarigione. Sta molto meglio rispetto alla scorsa settimana. Verrete, dunque, a palazzo? –
Questa risposa lo spiazzò. Sgranò gli occhi in un’espressione stupita e interrogativa. Com’era possibile che accettasse di rivederlo, senza una valida e grave ragione? Si prese qualche istante e poi rispose: - Verrò.  Lasciate che prenda i ferri. – e sparì nel buio dell’androne.
Si avviarono a piedi, per le vie di Parigi invase dal sole di giugno, mentre attorno a loro il popolo si affaccendava, qualcuno mendicava per la via, qualcun altro gridava dalle finestre, altri ancora offrivano la loro merce dai carretti, altri passeggiavano sfaccendati con le mani dietro la schiena. Tra i passanti, un uomo si fece vicino, andando loro incontro.
-Clermont! – esclamò con un sorriso, tendendogli amichevolmente la mano.
- Laroux, buongiorno. – lo salutò, evitando quello sguardo grigio e penetrante che lo squadrava da capo a piedi.
- Ebbene, vedo che il lavoro chiama! – alluse indicando la domestica che restava un passo indietro, la stessa che quel giorno era comparsa trafelata al caffè.
- Per noi medici il lavoro coincide con la vita, amico mio. È difficile stabilire dove finisca l’uno e inizi l’altra. E voi, invece?-
- Io sono di ritorno da una visita al nostro Marat: gli ho portato alcuni miei scritti, qualche articolo…-
- E che ne pensa il cittadino Marat? – domandò per cortesia, con una lieve nota ironica nella voce.
Bertrand Laroux parve coglierla e ribatté: - Non era in casa, ho lasciato il materiale al suo segretario. – poi riprese il suo solito sorriso scanzonato: - Leggerete presto qualcosa di mio su L’Ami du peuple!-
-Ve lo auguro di tutto cuore, Laroux. Siete una buona penna e un giovane intraprendente e ambizioso, Marat vi apprezzerà.- disse a mo’ di congedo, sorridendo di rimando.
- Vi ringrazio, cittadino. E portate i miei saluti alla contessa di Beaufort, donna di straordinario fascino e notevole bellezza. – aggiunse con una strizzatina d’occhio, lanciando uno sguardo alla domestica.
- E voi come fate a sapere…?- domandò colto di sorpresa Clermont: come faceva a sapere quale fosse la sua meta?
- Mi sottovalutate, Clermont. Parigi non ha segreti per me. Non sono forse un aspirante giornalista? – lo rimproverò scherzosamente. Clermont, ancora confuso, abbassò lo sguardo, lo salutò in fretta e, dopo un cenno d’intesa a Louise, riprese il cammino.
- Au revoir! – gli fece di rimando Laroux, allontanandosi nella direzione opposta con passo agile e disinvolto.
 
I passi rimbombavano nel silenzio dell’atrio, mentre salivano la grande scalinata di marmo. Stavolta ad attenderli al piano nobile non c’era soltanto il domestico in livrea ma anche la padrona di casa. Clermont alzò la testa improntando gli ultimi gradini e gli apparve il suo sorriso, un sorriso timido, appena accennato, quasi incerto. Incontrò i suoi occhi chiari, limpidi, e un’immagine tornò a fare capolino nella sua memoria.
Un giorno d’estate, caldo e luminoso, un refolo di vento che percorre i vigneti della collina, scuote le spighe di granturco nei campi, fa stormire le foglie del platano alla cui ombra stavano riposando.
-Tu credi nel futuro, Jacques? – domandò accarezzandogli il mento con un filo d’erba appena strappato.
- Nel futuro? Che domanda è? – ribatté lui, sorridendo con le sopracciglia aggrottate.
- Sì, nel futuro, in quello che verrà, ai sogni. – precisò fissandolo negli occhi.
- Io credo nella giustizia, quindi credo nel futuro. Credo in una nuova società, credo nell’uguaglianza, credo…-
- Quante belle parole! Ma io ti sto chiedendo se credi nel nostro, di futuro. – lo solleticò con il filo d’erba che teneva in mano, con uno sguardo di tenera malizia. Quegli occhi azzurri lo fissavano carichi di promesse. Sì, le avrebbe voluto dire, ci credo. Ho fiducia in te, in noi, sono convinto che abbatteremo ogni ostacolo, che affronteremo ogni difficoltà insieme, il disprezzo degli altri, le differenze sociali, i pregiudizi. Tutto, purché insieme. E, invece, si limitò a guardarla negli occhi, a sfiorarle la guancia e a baciarla teneramente, senza che quella domanda avesse una risposta.
 
E in quel momento, in quegli occhi ritrovò quasi un muto rimprovero per quella mancata risposta, nascosto sotto la cortesia e la riconoscenza garbata per la visita. Clermont abbassò lo sguardo, si morse il labbro inferiore e avanzò cauto di qualche passo fino a prenderle la mano per portarsela meccanicamente alle labbra.
-Buongiorno, dottore. Vi ringrazio di aver accettato di far visita a mia figlia. – lo accolse affabilmente, con la voce appena scossa da un lieve tremore.
- Buongiorno, contessa. È mio dovere. – rispose con un inchino, che risultò più goffo di quanto sarebbe dovuto sembrare. Non seppe continuare la conversazione, restò in attesa che lei dicesse qualcosa, che sciogliesse il ghiaccio in qualche modo: non se l’aspettava di ritrovarsela davanti, era sicuro cha avrebbe fatto di tutto per evitare di incontrarlo durante quella visita.
A interrompere quel silenzio imbarazzato ci pensò il domestico in livrea che spalancò la porta d’ingresso al salone dei ricevimenti, fornendo alla contessa il pretesto per allontanarsi dalle scale e fare strada al dottore nella sala.
Clermont avanzava a capo chino, a disagio, e si disprezzava per questo: lui, un deputato della Convenzione, un servitore del popolo, un medico stimato era messo in soggezione da una nobildonna annoiata e da qualche domestico in livrea? La seguì in silenzio nei corridoi, fino a raggiungere la porta della camera di Juditte. Qui Marianne si fermò e gli rivolse uno sguardo tra l’interrogativo e il compassionevole che lui non riuscì a reggere.
-Volete assistere anche voi alla visita? – le domandò con la voce impastata, sperando in cuor suo in una risposta negativa.
- Ne sarei felice, se non vi creo disturbo. – rispose con un sorriso gentile. Quei denti bianchissimi, perfetti, quelle labbra sottili, appena abbozzate, come poteva essere così maledettamente bella? Era una tortura, era un rimestare continuamente il dito nella piaga, era un riaprire quella ferita che da anni gli era parsa in qualche modo sanata.
Juditte stava seduta al bordo del letto e accolse il medico con un sorriso luminoso: si ricordava di lui e l’aveva eletto come suo amico. Non capitava spesso che manifestasse apertamente le sue simpatie, tranne che nei confronti dell’adorata Louise, pertanto la madre fu sorpresa nel notare tanto entusiasmo sul viso della bambina.
-Buongiorno, mia piccola amica. Come state oggi?- le domandò avvicinandosi con un inchino, che Juditte accolse divertita.
-Sto molto meglio, dottore. Le vostre medicine erano un po’ amare, però le ho prese ogni giorno, come vi avevo promesso. Non è vero, mamma? Ditelo anche voi al dottore che sono stata brava! – rispose allegra, volgendo lo sguardo animato ora verso il medico ora verso la madre. Sembrava un’altra bambina da quella della settimana precedente: il colorito non più pallido ma roseo, gli occhi vividi, curiosi, i gesti impazienti di chi non vede l’ora di poter correre a giocare.
Bastò dunque poco al dottor Clermont per certificare una guarigione che sarebbe parsa evidente a chiunque, anche senza il bisogno di ricorrere ad un medico. Per tutta la durata della seppur breve visita si accorse dello sguardo costante di Marianne fisso su di lui e questo gli causò uno strano imbarazzo. Si rese conto che i suoi gesti erano misurati, innaturali, che il suo sguardo evitava accuratamente di sollevarsi verso di lei, che la sua voce non suonava ferma e sicura come avrebbe desiderato. Quella presenza lo metteva profondamente a disagio e non sapeva spiegarsi il perché, o meglio, ne conosceva il motivo e voleva negarlo a se stesso. Marianne Beaufort, dal canto suo, celava accuratamente il suo turbamento dietro un’espressione dolce e partecipe. Seduta su di una poltrona un po’ discosta, non perse di vista nemmeno per un istante le sue mani che, con perizia ed estrema delicatezza, si dedicavano a visitare il corpicino della figlia, le lisciavano capelli, le carezzavano la guancia. Quelle stesse mani che aveva stretto, baciato, accarezzato molto tempo prima, che le avevano restituito affetto, calore, tenerezza. Rimase incantata a seguire i movimenti di lui che si chinava sulla bacinella, immergeva le braccia nell’acqua fino al gomito, si sciacquava e si asciugava con un panno. Lui non osava muovere lo sguardo nella sua direzione, si ostinava ad evitarla, rivolgendo sorrisi complici a Juditte, scherzando con lei di qualche banalità.
Tutt’un tratto la porta della stanza si spalancò senza preavviso, facendo sussultare i presenti. Marianne balzò in piedi, aggiustandosi la veste e ricomponendosi; Juditte si azzittì, guardò la madre come a cercare rassicurazione e approvazione; Clermont, ignaro di quello che l’avrebbe atteso, rivolse alla contessa uno sguardo interrogativo. Non dovette aspettare una risposta perché sentì risuonare una voce alle sue spalle che diceva, in tono padronale:
-Dottor Clermont, sono lieto di fare la vostra conoscenza. Vi prego di accogliere i miei ringraziamenti più sentiti per aver contribuito alla guarigione di mia figlia. –
Clermont si voltò, abbozzando un inchino che gli uscì goffo e forzato, traspariva infatti il suo disappunto, il suo disprezzo per quel tono da padrone. Davanti a lui era comparso un uomo dall’aspetto attraente ed elegante, gli occhi verdi penetranti, i capelli chiari raccolti compostamente, abiti di fattura pregiata, certamente opera dei migliori sarti della città. Un’autorevolezza particolare traspariva dai suoi modi sicuri, quasi a sfiorare l’arroganza, dal suo sguardo fermo e deciso, dalle labbra serrate. Clermont, pur sovrastandolo in altezza, si sentì piccolo al suo cospetto, insignificante. E questa sensazione sgradevole gli bruciò assai. Bastava dunque la vista di un qualsiasi nobilotto di bell’aspetto per farlo ripiombare nella disistima di se stesso, dopo tutti gli sforzi fatti, dopo tutti quei traguardi raggiunti? Bastava il suo sguardo altero e sprezzante per farlo vergognare delle proprie origini? No, forse non si trattava soltanto di una questione di ceto, c’era dell’altro, qualcosa che, anche in questo caso, non volle ammettere. Deglutì e raccolse le sue forze per rispondergli educatamente, senza cedere alla tentazione di un tono aggressivo.
-La vostra gratitudine mi lusinga e mi onora, conte. Ma mi attribuite meriti che non ho, vostra figlia si sarebbe presto rimessa anche senza il mio intervento. –
- Quanta umiltà, dottore. Marianne, avete sentito? Il dottor Clermont afferma di non aver contribuito alla guarigione di Juditte. È dunque usanza presso i Giacobini rifiutare anche i complimenti da parte dell’antica e disprezzata nobiltà. O non è così? –
Marianne tremò sotto lo sguardo carico di livore del marito e si limitò ad annuire in silenzio, con gli occhi sbarrati. Juditte si alzò e le corse incontro, stringendosi al suo fianco. Il padre la fulminò con un’occhiata, ma non ebbe modo di rimproverarla, impegnato com’era in quella conversazione.
Clermont provò a protestare con garbo: - Non è così, vi assicuro. Non avevo intenzione di declinare un complimento, la mia era solo una constatazione. - 
-Marianne, mi è stato riferito che il medico è stato accolto nel salone dei ricevimenti come un nostro pari. Vi prego, per la prossima volta, che sia fatto passare dall’ingresso destinato alla servitù, come del resto richiede la sua condizione. Mi auguro che non ci sia bisogno di ripeterlo. – pronunciò queste parole in tono gelido, senza tradire la benché minima emozione, manovrandole abilmente come affilati coltelli che si conficcavano nell’amor proprio del suo interlocutore. Clermont chinò il capo, sconfitto. Non osava spiare la reazione della contessa, perché anche solo un suo minimo cenno di consenso a quel discorso del marito l’avrebbe distrutto.
- Chi vi ha riferito questo? – domandò lei con un’insospettabile audacia. – Chi si è permesso di gettare discredito su di me, vostra moglie, e sul medico che ha curato nostra figlia? – un lampo di accesa collera infiammò i suoi limpidi occhi chiari.
- Che vi importa, Marianne? Siete voi ad essere in errore. Certamente si è trattato di una svista, non ve ne faccio una colpa, non temete. Vi chiedo solo che un episodio increscioso come quello di stamane non si ripeta in seguito. Il medico deve servirsi dell’ingresso destinato al personale di servizio, come è naturale e giusto che sia. – ribatté Beaufort, disteso, paziente e paterno al tempo steso, come se dovesse spigare un facile concetto ad un allievo tardo di comprendonio.
- Esigo da voi maggior rispetto per il dottore. – lo incalzò lei, il volto accesso da una foga per lei inconsueta.
- Dottore, perdonate mia moglie, alle volte è totalmente incapace di dominarsi. Spero ad ogni modo di non avervi offeso, ribadendo soltanto quella che è una regola da sempre valida. E, ora, se permettete, alcuni affari urgenti mi reclamano. Arrivederci, dottore. Buona giornata, mia dolce Juditte. – detto questo, si congedò lanciando uno sguardo di profondo rimprovero alla moglie, e sparì richiudendosi la porta della stanza alle spalle.
Il silenzio calò sui presenti dopo la plateale uscita di scena del conte. Juditte si staccò dalla madre per guardarla interrogativa in cerca di una risposta convincente.
-Perché il signor padre se l’è presa con il dottore? Che cosa gli ha fatto di male? –
- Non ce l’ha con il dottore, Juditte. – rispose la madre fissando negli occhi Clermont, che, imbarazzato, distolse subito lo sguardo e si diede a riordinare la borsa. – Solo, tuo padre non ha ancora ben compreso quello che sta accadendo a Parigi. I tempi stanno cambiando e il dottore non avrà più nulla di cui vergognarsi nel passare dal salone dei ricevimenti. –
- Contessa, se non avete più bisogno dei miei servigi, tolgo il disturbo. – esclamò in tono molto secco, quasi ironico, senza nemmeno guardarla negli occhi e si avviò verso la porta.  – Arrivederci, Juditte, sono felice che stiate di nuovo bene, non fate penare vostra madre e prendete ancora le medicine per un po’- si congedò sorridendo alla sua piccola paziente. Juditte gli rispose con un suo allegro sorriso e mormorò  - Mi dispiace dottore, spero che vogliate perdonare il mio signor padre. –
- Non c’è nulla di cui perdonarlo. – rispose con un sorriso amaro Clermont, accompagnando la porta alle sue spalle per poi avviarsi verso l’uscita. Aveva una gran fretta di andarsene, non sopportava più quell’aria greve che sovrastava le stanze di quel palazzo, ne aveva abbastanza delle umiliazioni di un nobiliardo qualunque che si permetteva di metterlo alla berlina davanti a lei. Che cosa ne sapeva, Beaufort, di quello che c’era stato un tempo tra lui e sua moglie? No, non l’avrebbe mai saputo e soprattutto non l’avrebbe mai capito, non era uomo da comprendere certi sentimenti. Ma lei, Marianne, come aveva potuto sposare un individuo del genere? Un pari di Francia arrogante, gretto e meschino? Non se ne capacitava, stentava a riconoscerla, come si era potuta ridurre in balìa di quel damerino superbo ed altezzoso? Eppure quelle sue parole, quel suo tono piccato in sua difesa…
Stava rimuginando tra sé questi pensieri mentre si avviava a passo rapido giù per la scalinata quando si sentì chiamare.
-Dottor Clermont! – quella voce lo fece immediatamente arrestare.  La contessa de Beaufort, trafelata, lo stava per raggiungere, un’espressione amareggiata sul volto. Clermont si girò per lanciarle uno sguardo stupito.
- Vi devo delle scuse per il comportamento di mio marito. Non sempre la nobiltà di sangue trova corrispondenza in un comportamento garbato e cortese, come dovrebbe essere. Nel caso di Guillame ciò avviene raramente e soltanto in occasioni studiate. – parlò senza astio o concitazione, come se esprimesse un pensiero da tempo covato nella sua mente.
Clermont restò perplesso, turbato da quest’ammissione: non avrebbe mai immaginato di sentirla esprimere un tale giudizio sul conto del marito e per di più davanti a lui.
-Come ho detto a vostra figlia, non avete alcun motivo di scusarvi per il comportamento del conte, nella sua casa ha pieno diritto di far rispettare le sue regole.- le rispose pacato, controllandosi.
- Ma io desidero lo stesso porgervi le mie scuse. Non aveva alcun diritto di trattarvi in quel modo. Le sue parole hanno umiliato anche me. – continuò avvicinandosi a lui, lo sguardo basso.
-Non vi preoccupate, contessa. Non è successo nulla, ci sono abituato. Sono anni che ci sono abituato…- ribadì cercando i suoi occhi per fissare questa allusione, che tuttavia lei non sembrò cogliere.
Quest’ultima frase restò per un po’ sospesa tra loro, finché Clermont si congedò e Marianne restò a fissare la sua sagoma che percorreva nervosa gli ultimi gradini.
-Dottore! – lo richiamò nuovamente. Clermont prese un profondo respiro, chiuse gli occhi per dominarsi e si voltò, sul viso l’espressione più pacata che gli riuscì di trovare.
- Non sarebbe dovuta andare in questo modo. Perdonatemi. – aggiunse Marianne, forse un’allusione ad un lontano passato? oppure un riferimento all’accaduto di quel giorno?
 La frase, volutamente ambigua, lasciò ancor più perplesso Clermont che, imbarazzato e sfiancato da quella situazione surreale in cui si era venuto a trovare, rispose: - Non è colpa vostra, ma soltanto mia. Non avrei dovuto accettare questo incarico. D’ora in avanti, se Juditte dovesse avere ancora bisogno di cure, fareste meglio a rivolgervi ad un altro medico. Non voglio creare dissapori tra voi e vostro marito. Arrivederci, contessa de Beaufort. – Ciò detto, si avviò senza più voltarsi indietro verso l’atrio, gettando soltanto un fugace sguardo al giardino ormai lussureggiante, illuminato dal caldo sole di giugno.
Marianne de Beaufort, in piedi sulla scalinata, rimase a guardarlo finché non sparì dietro il pesante portone d’ingresso. Si torceva un fazzoletto tra le mani, lo sguardo perso in mille pensieri, quando una voce dal piano superiore la richiamò ai suoi doveri di contessa.




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