Cari lettori,
ecco
la mappazza settimanale. Visto che è un capitolo breve, ve lo mando
in onda tutto intero.
Come
sempre molti ringraziamenti a chi mi sta seguendo, con particolare
trasporto emotivo nei confronti di chi mi lascia anche dei commenti^^
Capitolo
11
La
vettura era parcheggiata ai margini dello spiazzo che si trovava
davanti alla scuderia. L’autista in uniforme, appoggiato a un
parafango, fumava una sigaretta.
Qua
e là si vedevano soldati impegnati in varie occupazioni. Seduto su
una cassetta rovesciata, un sellaio stava riparando un finimento.
Von
Knobelsdorff smontò da cavallo, subito un uomo si avvicinò e prese
in consegna l’animale. Con la coda dell’occhio, l’ufficiale si
accorse che anche von Thurn und Taxis aveva abbandonato la
cavalcatura.
Seguì
con lo sguardo i soldati che portavano via i due Trakehner:
magnifiche bestie, sicuramente di gran pregio.
A
quel punto, l’etichetta gli avrebbe imposto di lodare il cavallo
che aveva montato, di ringraziare per la gita.
“È
opportuno che io rientri alla mia unità,” disse semplicemente.
L’altro
si limitò ad annuire. Si diresse verso la macchina e subito
l’autista spense la sigaretta e corse ad aprirgli con deferenza la
portiera.
Il
capitano prese posto sul sedile posteriore, poi si girò nella sua
direzione, come invitandolo a salire a sua volta sul veicolo.
Von
Knobelsdorff tentennò. Si era immaginato un viaggio di ritorno da
solo, in una solitudine certo piena di pensieri, ma perlomeno libera
da presenze angosciose.
Strinse
le labbra, si impose l'impassibilità: aveva mantenuto la calma nel
corso di combattimenti aerei dai quali sarebbe potuto uscire
cadavere, non poteva permettersi di mostrare turbamento in un
frangente così frivolo.
Raggiunse
l'auto, l'aggirò e prese a sua volta posto sul sedile posteriore,
con la sensazione di accomodarsi accanto a un obice inesploso. Si
rivide ansante contro il tronco dell'albero, con lui contro di sé.
Rievocò il suo sguardo acceso, ceruleo, carico di un anelito che per
quei brevi istanti l'aveva reso così rovente che quasi si meravigliò
di non portarne le ustioni.
Era
stata la forza di quelle iridi adamantine a gettarlo nello
scoramento, a fargli comprendere che avrebbe dovuto fuggire subito, o
perdersi per sempre.
Ripensò
ai combattimenti aerei, ed essi gli parvero prove di ben poco conto,
rispetto a quella che gli era stata posta dinnanzi nella foresta.
Volse
lo sguardo all'esterno e lo lasciò scorrere su postazioni, depositi,
acquartieramenti e linee difensive. Tutto dava un'impressione di
ordine, di pulizia. Di cose che erano dove dovevano essere, fatte
secondo il regolamento, corrette.
Tutto
il contrario di quello che c'era nei suoi pensieri.
La
macchina sobbalzò su un'asperità del terreno e la sua spalla sfiorò
quella del capitano. “Mi scusi,” disse in un soffio, senza
guardarlo. Si spostò fino ad addossarsi alla portiera.
Il
Werwolf non rispose. Sedeva impassibile, lo sguardo fisso in avanti.
Teneva le mai posate sulle ginocchia e di tanto in tanto tamburellava
nervoso con le dita.
Il
silenzio era glaciale.
Von
Knobelsdorff accolse con sollievo il profilarsi all'orizzonte della
villa che fungeva da alloggio per i piloti.
Attese
che l'auto la raggiungesse e dovette quasi farsi violenza per stare
seduto fino a che l'autista non andò ad aprirgli la portiera.
Sgusciò fuori rapido, come per evitare che una mano gli calasse
sulla collottola e lo trascinasse indietro. Quando fu in piedi, si
volse verso il capitano, che invece non si era mosso dal sedile. Si
piegò appena, ma evitò di intercettare il suo sguardo. “Stia
bene,” gli augurò asciutto, poi gli girò le spalle e si allontanò
a passi svelti.
Scomparve
all'interno dell'edificio e quando fu nel salone, con un paio di muri
tra sé e la presenza del capitano von Thurn und Taxis, si lasciò
cadere sul divano ed emise un sospiro che aveva al tempo stesso i
toni del sollievo e del rimpianto.
“Non
c'era altro da fare,” si disse a mezza voce. Si guardò intorno ed
ebbe la sensazione di essere stato via anni, secoli, intere epoche.
Nulla gli pareva più come prima.
Valutò
se fosse il caso di andare a fare rapporto al capitano Kunz. Per
dirgli cosa, poi? Sono tornato? E quando mai aveva avvisato
che si assentava?
Non
aveva senso.
La
voce di Hoffmeyer lo fece sobbalzare: “Ah, eccoti qui! Allora, cosa
volevano da te quelli del tuo vecchio reggimento?” L'amico lo
raggiunse, entrò nel suo campo visivo e in tono diffidente gli
chiese: “Non è che siccome non vai d'accordo col Vecchio hai fatto
richiesta di tornare a fare l'ulano, vero?”
Von
Knobelsdorff scosse la testa.
“E
allora cosa volevano?” Poi, dopo una pausa: “Non c'entrerà mica
la tua bella valchiria?”
D'istinto,
ancora sotto l'effetto delle sue dolorose meditazioni, l'altro
ringhiò: “E basta con questa valchiria, mi hai stufato!”
Hoffmeyer
corrugò la fronte, colto alla sprovvista da quel cipiglio duro.
“Beh... non ci sarebbe niente di male,” disse dopo un po'.
“Senonché
non c'è nessuna valchiria, va bene? Solo... un'irregolarità nei
documenti, tutto qui.”
“Che
documenti?”
Von
Knobelsdorff lo fissò torvo. “Ti cambia la vita saperlo?”
Hoffmeyer
lo fissò come se lo vedesse per la prima volta, poi scosse la testa
e rispose: “No di certo. Fatti sentire quando ti è passata,
d'accordo?” abbandonò il salone.
L'altro
rimase seduto e per un po' si limitò a contemplare in silenzio la
porta da cui l'amico era uscito. E così, era quella la scusa che il
Werwolf aveva usato: un passaggio al suo vecchio reggimento. Per
quali motivi? Avrebbe potuto inventarsi quello che voleva, nessuno si
sarebbe preso la briga di andare a controllare.
Di
nuovo percepì la sensazione di estraneità che l'aveva pervaso al
suo rientro dopo la missione: era parte di quel mondo e allo stesso
tempo non ne era più parte.
Gli
tornò in mente il paragone della lanterna magica: non c'erano più
immagini fatate sul muro, ma lenti, vetri colorati e una fiamma
alimentata a spirito.
§
Von
Knobelsdorff stabilì che era un periodo sfortunato. Il Vecchio
l'aveva riammesso alle missioni di volo, ma sembrava che qualcuno si
mettesse in contatto con gli inglesi ogni volta che lui decollava,
avvertendoli di tenersi alla larga.
Gli
mancava un abbattimento per raggiungere la fatidica cifra che avrebbe
fatto di lui un asso, ma non riusciva più ad ingaggiare un solo
duello. Se c'erano gli inglesi, era lui che si trovava nella
necessità di rientrare alla base senza benzina o con le armi
scariche. Se invece il suo aereo era in perfetta efficienza, non
c'era un solo nemico in tutta la volta celeste.
La
voce di Kramer lo distrasse dalle sue meditazioni: “La mattina è
serena, signor tenente.”
L'ufficiale
si strinse nelle spalle. “Come nelle ultime due settimane,”
brontolò.
“Il
suo aereo è pronto, signore. L'ho revisionato io personalmente.”
Von
Knobelsdorff emise un sospiro e rispose: “Il Vecchio sarà
contento: sarà almeno un mese che lo riporto alla base senza un
graffio.”
“Come
diceva la mia povera nonna, che Dio l'abbia in gloria, le cose
ottenute con troppa facilità non hanno valore, signor tenente.”
Il
più giovane emise un sospiro e lanciò al cielo terso uno sguardo
avvilito. “Sarà anche come dice lei,” brontolò poco convinto.
“L'aereo
è pronto,” gli ricordò il graduato.
Von
Knobelsdorff salì a bordo e subito l'odore di olio motore, benzina e
vernice dell'abitacolo ebbe il potere di ripulire la sua mente da
ogni pensiero.
Rivolse
nuovamente lo sguardo al cielo, a quel punto con lo sguardo del
cacciatore che si appresta alla battuta, e con un gesto automatico
controllò che le armi fossero cariche e ben oliate.
“Contatto!”
urlò, sporgendosi di lato dall'abitacolo.
“Contatto!”
rispose il meccanico, poi diede il colpo all'elica.
Il
motore cominciò a girare, dapprima con qualche colpo di tosse, poi
con un rombare sempre più regolare e profondo.
Un
sussultò avvertì il tenente che gli avieri avevano tolto i tacchi
da sotto le ruote. L'Albatros cominciò a rullare dolcemente,
dapprima adagio poi sempre più veloce. Manovrando la pedaliera, von
Knobelsdorff lo portò in linea di decollo. Sotto i suoi occhi si
involò Kunz, ormai il suo aereo senza alcun contrassegno aveva quasi
smesso di sembrargli strano. Dietro le spalle del comandante c'era
Marquardt. Dietro di lui arrivavano gli altri, che si stavano
preparando a prendere il volo.
Tutte
le sue ruminazioni erano scomparse in favore di un'ebbrezza che
andava facendosi più intensa di attimo in attimo.
Decollò
poco dopo. Raggiunse gli aerei della Jasta già in volo e subito
cominciò a sondare il cielo alla ricerca degli inglesi.
Giunsero
in breve al terreno brullo delle linee avanzate, gli sbarramenti di
filo spinato, le linee di sacchi di sabbia. Qua e là si levavano
colonne di fumo, una caligine venefica incupiva l’aria sulla terra
di nessuno.
Von
Knobelsdorff guardò in alto, dove il cielo era limpido, schermandosi
dai raggi del sole con la mano. Vide l'aereo di Kunz animarsi, poi
scuotere le ali nel segnale di nemico in vista. Subito dopo, il
comandante della Jasta diede tutto motore per guadagnare quota.
Tutti
lo imitarono, il tenente cominciò a scrutare ansiosamente in giro
alla ricerca degli inglesi.
Infine
il suo occhio allenato li individuò, sotto forma di un nugolo di
puntini che a loro volta tentavano di prendere quota più in fretta
che potevano.
Li
adocchiò cercando di distinguerli man mano che si avvicinavano: dei
Sopwith Pup, dei Bristol F2, un Sopwith Triplane.
Qualcuno
cominciava già a sparare le prime raffiche. Von Knobelsdorff cercò
di guadagnare ancora un po’ di quota, poi si accorse che un F2 lo
stava puntando. Continuò a salire mantenendo il contatto visivo,
attento a non farsi prendere di coda, tolse appena motore, abbozzò
una virata mentre l’altro a sua volta virava nelle prime mosse del
duello aereo.
Il
tenente sparò la prima raffica, facendo saltare brani di
rivestimento dall’ala superiore dell’inglese, cercò poi di
riguadagnare quota con un mezzo looping, ma già l’altro stava già
virando per arrivargli sul fianco.
Von
Knobelsdorff si raddrizzò con un mezzo tonneau, riprese il contatto
visivo con l’altro, sparò di nuovo. Dal motore dell’inglese
cominciò a uscire fumo nero, il tedesco sorrise fra sé e sé e
prese a seguirlo nella sua lenta caduta, per avere l’abbattimento
confermato. Gli stette dietro fino a quando l’F2 fu così basso che
probabilmente dalle trincee potevano vedere in faccia il pilota. Si
aspettava da un momento all’altro che atterrasse da qualche parte,
invece d’un tratto il motore smise di emettere fumo, l’aereo si
riprese quel tanto da riguadagnare un po’ di quota e gli sgusciò
via da sotto il naso. Colto di sorpresa, von Knobelsdorff provò a
inseguirlo, ma erano già sulle trincee inglesi, a quota bassissima,
e dovette immediatamente ridare gas per evitare di essere abbattuto
da terra. Riprese quota con un’ala sbrindellata dalla fucileria e
si allontanò in tutta fretta.
Quando
atterrò al campo era furente: non solo gli era sfuggito per un
soffio l’aereo che l’avrebbe finalmente consacrato asso, ma aveva
anche danneggiato il suo Albatros e c’era da scommettere che Kunz
l’avrebbe messo a terra di nuovo, come l’istitutrice che punisce
il bambino se giocando sporca l’immacolato completino alla
marinaretta.
“Come
se fosse possibile giocare senza sporcarsi,” ringhiò, ricordando
fin troppi episodi della sua infanzia.
Hoffmeyer,
sopraggiunto al suo fianco, gli chiese: “Hai detto qualcosa?”
Von
Knobelsdorff alzò le spalle. “Per me mi sbatte a terra di nuovo.”
L’altro
si voltò verso l’Albatros del collega e non poté fare a meno di
sollevare le sopracciglia. “Ah, però,” rispose.
“Non
ti ci mettere anche tu.”
Hoffmeyer
spostò le mani dietro la schiena, poi disse: “Obiettivamente, non
è che si possano fare missioni di guerra senza rovinare gli aerei,
no?”
“È
quello che dico anch’io. Bisognerebbe spiegarlo al Vecchio, però.”
I
due fecero qualche passo fianco a fianco, poi Hoffmeyer riprese: “E
comunque, lo sai benissimo perché il Vecchio si è arrabbiato
l’altra volta: per lui la faccenda delle medaglie è come il fumo
negli occhi.”
“Non
è che i piloti con il Pour le Mérite combattano meno degli altri,”
obiettò von Knobelsdorff.
“Di
più, se mai,” rincarò l’altro.
“Bah,
vaglielo a spiegare...”
Procedettero
verso la sala mensa, si sedettero a un tavolino e subito un’ordinanza
in giubba bianca portò loro caffè e biscotti.
Von
Knobelsdorff si riempì la tazza, poi rimase per un po’ a fissare
la superficie scura e appena increspata della bevanda. L’escursione
con il principe von Thurn und Taxis risaliva a qualche settimana
prima: da allora non era più riuscito a ottenere un abbattimento. Si
chiese – come si era chiesto ossessivamente almeno altre mille
volte – se si trattasse di un mero caso, o se quello sfortunato
evento avesse avuto qualche effetto nefasto su di lui. Sulla sua
aggressività in combattimento, tanto per cominciare: davvero non
c’erano aerei nemici nella sua zona o era lui che in qualche modo
inconsapevolmente li evitava? Forse voleva evitare gli scontri?
Voleva punirsi per non essere riuscito a dominare se stesso in quella
radura che ormai considerava maledetta?
Si
voltò verso Hoffmeyer, che teneva la tazza in una mano e un biscotto
nell’altra, e intanto si protendeva verso il tavolo a fianco per
scambiare una battuta con Eschmann. Come ormai gli capitava sempre
più spesso, invidiò la noncurante allegria dell’amico, che
sembrava renderlo immune da quelle ruminazioni che a lui toglievano
sonno e appetito.
Si
chiese cos’avrebbe fatto Herbert al posto suo, nella radura.
La
risposta era semplice: niente. Si sarebbe goduto la cavalcata, magari
avrebbe fatto anche un bel sonnellino all’ombra e poi se ne sarebbe
tornato tranquillamente alla Jasta.
§
Il
pavimento del vagone, di metallo zigrinato, odora di olio come quello
di certe officine. È ruvido contro la sua pelle delicata, ma freddo
com'è riesce almeno a lenire un po' il bruciore delle ferite.
Egli
vi si abbandona esausto. Ogni fibra del corpo gli pulsa di dolore,
quando respira ha l'impressione che la pelle del dorso gli si laceri
come carta di giornale fradicia. Le corde che gli immobilizzano le
braccia sono come anelli di fuoco.
Non
sa quanto tempo sia passato, ma gli pare un'angosciosa eternità.
Una
porta si apre. Percepisce dei passi in avvicinamento e istintivamente
si irrigidisce.
Qualcuno
si china accanto a lui.
Egli
sbatte gli occhi, cerca di mettere a fuoco quello che percepisce solo
come un ovale chiaro nella penombra. Infine riconosce il volto
pallido e i capelli neri dell'agente inglese. Cerca istintivamente di
farsi indietro, ma il movimento gli strappa l'ennesimo gemito di
dolore.
Beffardo,
the Bishop gli dice: “Non ti agitare, Reiner. Non serve a nulla.”
Egli
stringe i denti. “Non... sono Reiner...” riesce a balbettare dopo
un po', con una voce roca che sembra il rantolo di un moribondo.
L'altro
fa una risatina. “Ma certo che lo sei,” replica.
“No.”
La
voce dell'agente inglese prende un tono vagamente confidenziale: “Sai
di esserlo.” The Bishop allunga una mano nella sua direzione,
provocando un nuovo scomposto tentativo di arretramento. Fa una
risatina a quella vista, poi soggiunge: “Pensa a quello che è
successo nella radura. Avresti fatto quello che hai fatto, se non
avessi saputo di esserlo?”
Egli
rimane in silenzio.
“Rispondi:
l'avresti fatto?”
Subito
dopo, con un gesto repentino the Bishop lo afferra per i capelli e
gli piega la testa all'indietro. Egli emette un nuovo gemito di
dolore, cerca di liberarsi, ma la presa dell'inglese è ferrea.
Questi
si piega su di lui fino a che i volti non sono vicinissimi, poi
lentamente dice: “Non rispondi, vero? Non rispondi perché sai che
ho ragione. I fatti parlano per te: tu sei Reiner.”
“Non
è vero.”
L'altro
fa una breve risata, poi insiste: “Dì un po', ti è piaciuto
baciarlo, vero?”
Egli
deglutisce. “No,” risponde dopo qualche secondo.
“Non
vali niente neppure come bugiardo, Reiner. Ti è piaciuto così tanto
che sei dovuto scappare, altrimenti non saresti più riuscito a
stargli lontano, non è così?”
“No.”
“Ma
davvero? E allora come mai hai tagliato la corda in quel modo, di
gran carriera, con la coda fra le gambe? Come mai non riesci a
smettere di pensare a lui? Io lo so che pensi a lui.” The Bishop
stringe la presa sui suoi capelli, si avvicina fino a sfiorargli le
labbra con le proprie, poi sussurra: “Lui sa quali sono i tuoi
sentimenti e tornerà.” Di colpo lo lascia andare, lui ricade
pesantemente, la schiena gli rimanda una bruciante fitta di dolore.
“Tornerà,”
ripete l'inglese. “Tornerà, e troverà me ad attenderlo.”
“No!”
esclamò von Knobelsdorff svegliandosi di soprassalto.
Si
guardò intorno ansante: buio, odore di legno vecchio e lavanda,
finestra parzialmente oscurata dalle tende, oltre la quale si
indovinava un fioco bagliore lunare.
Le
coperte erano ridotte a un viluppo informe.
Poco
distante, la voce di Hoffmeyer brontolò: “Se non la pianti, dico
al Vecchio di mandarmi a dormire con i meccanici, sarà sempre meglio
che avere di fianco te e i tuoi incubi.”
“Scusa,”
mormorò von Knobelsdorff, che si sentiva ancora nelle orecchie la
voce beffarda dell'inglese.
“Sognavi
di precipitare?”
“No,
io... sì. Sì, sognavo di precipitare.”
“No
o sì?”
“Non
mi ricordo.”
“Beh,
a prescindere da quello che sognavi, vedi di dormire, va bene?
Domattina dobbiamo andare in volo.”
“Scusa.”
“Non
fa niente. Ora dormi, però.”
Von
Knobelsdorff si riadagiò all'indietro con un sospiro e mise le
braccia dietro la testa. Per un po' rimase semplicemente immobile con
gli occhi aperti, sondando un buio che gli pareva popolato di ombre
inquietanti.
La
tenda semiaperta sembrava nascondere una persona, il tramestio lieve
di qualcuno che passava per il corridoio gli fece irrigidire i
muscoli come per fronteggiare un'intrusione.
Si
girò cercando di fare meno rumore possibile, poi di nuovo rimase
fermo, lo sguardo rivolto alla striscia di cielo che il tendaggio
lasciava libera.
Si
chiese se i sogni fossero banali fenomeni nervosi, scorie del
cervello che venivano eliminate durante il riposo, oppure se si
potesse riconoscere in essi qualcosa di premonitore o profetico.
Concluse
che non sapeva quale delle due cose augurarsi.
§
L'alba
sorprese von Knobelsdorff ancora con lo sguardo fisso sulla finestra.
La
Jasta si stava svegliando, da fuori proveniva il parlottare dei
meccanici che stavano portando gli aerei in linea di volo, in
corridoio c'era il tramestio di chi andava e veniva dai bagni. Colse
uno scambio di battute e una risata.
Se
tendeva l'orecchio, riusciva anche a individuare l'acciottolio di
pentole e stoviglie delle cucine.
Con
un cigolio di molle, Hoffmeyer abbandonò il letto, poi si liberò
della camicia da notte, rimanendo nudo come un verme. Rovesciò il
contenuto della brocca nel catino e cominciò a lavarsi, soffiando e
sbuffando per la temperatura dell'acqua. “Sveglia, pigrone!”
esclamò poi, strofinandosi vigorosamente con un telo. “Ci sono
degli inglesi che ci aspettano, là fuori. Non vorremo deluderli!”
“Herbert...”
protestò von Knobelsdorff, strofinandosi gli occhi. Si mise a sedere
sul letto, si passò una mano fra i capelli scompigliati dal sonno.
“Forza!”
lo incalzò l'altro. “Non c'è niente di più bello che volare
all'alba.”
Il
primo non rispose. Aveva ancora davanti agli occhi il sorriso
beffardo dell'agente inglese; le sue parole inquietanti continuavano
a tormentarlo.
Si
alzò adagio, mugolando imbronciato. “Sta un po' zitto,”
protestò.
Hoffmeyer
smise di asciugarsi. Per un po' rimase fermo a fissarlo col telo
sulla spalla tipo statua classica, poi sentenziò: “Tu hai dei
problemi. Io mi farei vedere dal capitano medico, se fossi in te.”
Von
Knobelsdorff gli rivolse uno sguardo torvo. “Perché?”
“Da
quando sei sparito per la tua famosa missione non dormi più. Passi
le notti a rotolarti come un pollo al girarrosto, e quel che è
peggio, è che non fai dormire nemmeno i camerati.”
“Ah,
sono commosso da tanta preoccupazione.”
Hoffmeyer
fece un gesto di diniego e disse: “Lo sai cosa intendo.”
“Sto
benissimo,” brontolò von Knobelsdorff.
“Davvero?
Dimmi quante ore hai dormito questa notte.”
L'altro
emise un sospiro. “Poche,” ammise.
“Non
puoi andare in volo così.”
“Sono
perfettamente in grado di pilotare.”
“E
sei in grado di difenderti dagli inglesi?”
Von
Knobelsdorff ripensò al suo sogno. “Non lo so,” mormorò.
§
Il
tenente raggiunse il suo Albatros e fece i controlli di rito. Stava
per montare a bordo quando un soldato lo raggiunse e si mise
sull’attenti. Von Knobelsdorff lo fissò perplesso. Si guardò
fugacemente intorno, ma tutto sembrava come al solito. I suoi
colleghi stavano prendendo posto sugli aerei, o effettuando gli
ultimi controlli a terra. C’era un’atmosfera di normalità,
addirittura di tranquillità, nei limiti delle fasi che precedono i
voli di guerra. “Che cosa c’è?” chiese al soldato.
Questi
irrigidì se possibile maggiormente la posizione di attenti e a voce
alta e chiara, come da regolamento, scandì: “Signor tenente, il
signor capitano Kunz ordina di raggiungerlo nel suo ufficio!”
Von
Knobelsdorff girò lo sguardo verso l’aereo del capitano e notò in
effetti che l’ufficiale non c’era.
Aggrottò
le sopracciglia: la faccenda non gli piaceva per nulla. Si chiese se
il comandante della Jasta avesse strolgato qualche nuovo motivo per
tenerlo a terra.
Si
diresse verso la palazzina degli uffici e lì incontrò Kunz, che già
in tenuta di volo stava procedendo verso l’esterno.
Si
mise sull’attenti e salutò.
“Riposo,
tenente,” disse asciutto il capitano, senza quasi fermarsi. “Mi
attenda qui. Al rientro dal volo devo parlarle.”
“Cosa?”
protestò il più giovane. “Dovrei stare qui? Ma il mio aereo è
pronto in linea di volo!”
Kunz
si fermò. Si voltò verso di lui e gli riservò uno sguardo gelido.
“Lei mi attenderà qui,” si limitò a ripetergli, “le spiegherò
tutto al mio ritorno. Se non dovessi rientrare dalla missione di
volo, sarà il furiere Schlemmer a consegnarle i documenti.”
“Cosa?
Che documenti?”
Ma
Kunz stava già procedendo lungo il corridoio e non lo sentì
neppure. O, se lo sentì, ritenne di non fermarsi a rispondergli.
Von
Knobelsdorff rimase fermo a guardarlo mentre si allontanava. Dalla
finestra vedeva gli aerei pronti per la missione, quello di Marquardt
stava già cominciando a rullare verso la testata pista. Strinse i
pugni indispettito: cosa significava quella nuova proibizione di
volare? Si chiese se il rigido ufficiale ce l’avesse con lui per
qualche motivo. Perché era un aristocratico, magari, e come tanti
Kunz era convinto che avesse ottenuto i gradi in virtù di quello e
non perché li aveva meritati sul campo.
Soffocò
un’imprecazione: l’aereo di Marquardt era già in volo, quello di
Hoffmeyer stava prendendo velocità nella corsa di decollo.
E
lui doveva starsene a guardarli dalla finestra di un ufficio.
Il
comandante rientrò circa un’ora dopo. Von Knobelsdorff, che non
appena aveva sentito il ronzio degli aerei in avvicinamento si era
incollato alla finestra, lo vide atterrare, scendere rapido dal
velivolo e dirigersi verso la fureria.
Si
preparò a replicare a qualsiasi accusa Kunz fosse in procinto di
rivolgergli.
Quando
lo raggiunse, il capitano semplicemente disse: “Venga con me.” Lo
precedette nel suo ufficio, si accomodò alla scrivania. Non
essendoci altre sedie nella stanza, von Knobelsdorff rimase di fronte
a lui sull’attenti.
“Riposo,”
disse Kunz. Tirò fuori da un cassetto una busta e la spinse verso di
lui. “I documenti sono già firmati,” spiegò asciutto. “L’ottavo
abbattimento è stato confermato, avrà la sua agognata decorazione.”
Von
Knobelsdorff aprì bocca per replicare, ma non riuscì a emettere
alcun suono. Sentì le guance andargli a fuoco e subito dopo fu certo
di essere sbiancato. “Cosa…?” mormorò.
“Il
Pour le Mérite,” specificò Kunz.
Il
tenente si obbligò alla calma. Per quanto l’idea di ricevere il
prestigioso Blauer Max lo galvanizzasse, non avrebbe sopportato il
conferimento di una decorazione che non meritava. “C’è un
errore, signor capitano,” rispose faticosamente.
“Nessun
errore,” replicò l’altro impassibile.
Von
Knobelsdorff strinse i denti e spiegò: “L’ultimo aereo che ho
colpito non è caduto, signore. Si è ripreso a pochi metri da terra
ed è volato via, non c’è stato nessun abbattimento.”
“Questo
lo so bene,” rispose Kunz, senza mutare minimamente l’espressione.
“La conferma dell’abbattimento si riferisce a un altro contesto.
È valida, quindi lei ha totalizzato otto vittorie.”
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