Chapter
1:
“E
tu che ci facevi con una rivista del genere?”
Riesco
a ricordare solo poche cose: il mio nome, la mia età, dove
si
trova il portafoglio e la mia innaturale paura di essere letto nel
pensiero. Il resto è una matassa di concetti e idee che non
posso sciogliere, non ora.
In
questo momento la mia testa è impegnata a spiegare
qualcos'altro.
Sono
confuso, ma voglio pensare che tutti lo siano la prima volta.
Prima
d'ora non sono mai stato in una metropoli, la avevo solo immaginata.
Appena
messo piede nella piazza davanti alla stazione mi sono ritrovato in
un mondo assurdo: una folla multicolore passeggia mescolandosi, come
le verdure dentro il frullatore di mia madre.
Non
la trovate una cosa strana? Io sì.
Io
che ho vissuto in un paese di cento vite trovo irreale tutto questo
via vai di gente. Ognuno ha il suo passo, rabbia o pazienza, fretta o
tempo da perdere. Nessuno sembra osservare chi ha vicino, ma come
macchine perfette evitano di toccarsi anche in mezzo a quel caos.
Dove
devo andare?
Ah,
giusto: l'indirizzo è scritto su un fogliettino che ho messo
nel portafoglio.
Piccolo
riepilogo: ricordo dov'è il portafoglio? Lo ricordo.
Lascio
cadere le valige a terra, prendo il borsello nero ed estraggo quel
piccolo pezzo di carta.
“Via
Isola Verde n°45”
Piccolo
riepilogo: so dove si trova questa via? Non lo so.
Alternativa:
ricordo le indicazioni per trovarla? Non le ricordo.
Ottimo:
devo chiedere informazioni. Ma io odio farlo.
Mi
guardo attorno cercando un essere umano capace di aiutarmi,
perché
si sa: non tutti sono capaci di dare informazioni dettagliate sulle
vie. Prima di tutto devo trovare un indigeno e non un turista, e
neppure un povero errante come me; dopodiché devo
riconoscerne
uno dall'aria intelligente che sappia i nomi delle vie e sia capace
di spiegare la strada per raggiungerle.
Tutto
ciò non è ovviamente facile, neppure per me che
mi
reputo uno capace di riconoscere gli individui al primo colpo.
Coloro
che mi circondano sembrano degli idioti vestiti per bene, oppure
persone sveglie ma del tutto estranee all'ambiente. Cosa potevo
aspettarmi da una stazione?
Alla
fine decido e vado verso un uomo, che sembra aver superato i
quaranta. Porta una polo, o qualcosa che le assomiglia, color bianco
e dei jeans. I capelli sono pochi e la pancia è troppa,
eppure
i suoi occhi scuri lasciano trasparire una certa esperienza.
“Mi
scusi” dico avvicinandolo. Lui si guarda un po' attorno,
dubbioso.
Si chiede se dico a lui e si risponde di sì. Adesso ho la
sua
attenzione. “Vorrei un'indicazione... lei è di
queste
parti?”
Lui
annuisce con la testa e si avvicina al foglio che gli ho allungato.
“Che
cosa stai cercando?” La sua voce è forte. Sembra
il tipo
disposto a tutto per fare buona impressione.
“Questa
via” sospiro indicando ciò che c'è
scritto sul
foglio. L'uomo sembra concentrarsi più del dovuto, forse ha
dimenticato a casa gli occhiali, ma riesce a darmi una risposta.
Ascolto le sue indicazioni con attenzione, comprendendo quale
direzione devo prendere e dove girare; davanti a quale negozio
passare e a quale portone fermarmi.
Non
sembra lontano da qui.
Lo
ringrazio e me ne vado, penso che a piedi impiegherò dieci
minuti al massimo. Ho un trolley e un bagaglio leggero, che posso
tranquillamente portare a mano, li afferro e parto.
Sono
cosciente che inizierà un nuovo capitolo della mia vita, un
nuovo difficile capitolo.
Perché
sono lì? Semplice: per studiare.
Per
una serie di avvenimenti che non vi sto a spiegare i miei hanno
pensato di farmi trasferire. La cosa non mi dispiace, anche se
cambiare all'ultimo anno
liceo è leggermente seccante. Mi
toccherà conoscere nuovi professori, nuovi ritmi e comprare
nuovi libri.
In
quella città potrò farmi dei nuovi amici, mi
hanno
detto i miei, ma io continuo a preferire quelli vecchi.
Andrò
ad abitare in un appartamento al sesto piano di un condominio, i miei
hanno già pagato la quota per questo mese. Quando sono
andati
a vederlo io avevo la febbre, in piena estate, così la sua
conformazione è una sorpresa.
*
Sono
davanti alla porta.
Ci
ho messo quindici minuti per arrivare fin sotto il condominio. La
strada indicata dal signore era esatta, non ci sono stati problemi.
Il
mazzo che tengo in mano ha due chiavi : una per il portone e l'altra
per la porta di casa. Com'era ovvio auspicarsi, la prima che ho
inserito all'ingresso era la sbagliata e solo al secondo tentativo
sono riuscito a entrare. Non era comunque finita qui: appena messo
piede nell'atrio al pian terreno mi sono reso conto che al palazzo
manca l'ascensore.
Non
so se la gravità della cosa vi è chiara. Insomma:
sei
piani a piedi con i bagagli sono un brutto affare. Facendo una pausa
a ogni pianerottolo, comunque, ho iniziato a salire.
Adesso
però sono arrivato. Posso costatare che il mio è
l'unico appartamento di quel piano, l'ultimo. Non mi piace questa
cosa.
Solo
dopo aperto posso averne la certezza. Varcata la soglia mi trovo nel
salotto: spoglio e polveroso. Da lì posso vedere altre due
porte: la camera da letto e il bagno. La cucina invece si trova alla
mia sinistra, nella direzione opposta alle altre due stanze.
Una
cosa sola accomuna tutte le stanze: la puzza di chiuso e muffa.
I
miei non hanno fatto un buon affare, o forse lo hanno fatto apposta.
Dannati!
Che
mi piaccia o meno questa sarà la nuova abitazione per il
resto
dell'anno. Domani, o dopodomani, lavorerò per sistemarla.
Forse fra tre giorni.
La
camera è munita di un vecchio armadio e un letto singolo,
temo
poco comodo. Vicino a esso c'è anche un comodino provvisto
di
abat-jour vecchio stile.
Il
bagno crema sembra avere molti anni alle spalle. È fornito
dell'indispensabile, funzionante e tenuto in ordine, ho solo paura di
eventuali creature munite di più zampe che vi albergano.
La
cucina è stretta: frigorifero, forno, fornelli e una serie
di
sportelli e cassetti dove tenere posate o piatti. C'è anche
un
tavolino quadrato munito di due sgabelli. Molto entusiasmante.
Non
potevo immaginarmi nulla di meglio, forse un tempo era una
soffitta...forse due secoli fa.
Torno
in salotto e lo guardo deluso un'ultima volta. Non posso ancora
credere che dovrò vivere lì per circa dodici
mesi. La
cosa è spaventosa.
Sono
già nostalgico della vecchia dimora, dei vecchi amici e
della
vecchia scuola.
Aspetta:
no, della scuola no. Non esageriamo.
Guardo
l'ora sul cellulare: le sei e mezzo. Devo organizzarmi per la cena.
Il
frigo è vuoto e anche la pseudo-dispensa non ha nulla al suo
interno.
Urge
una soluzione.
Urge
trovare una soluzione.
Di
solito mi accontento di poco: una verdura, qualche salume. Ci fosse
del prosciutto e del pane mi farei una cena perfetta. Sfortunatamente
così non è.
Di
questa città non so nulla, è del tutto
giustificato il
fatto che io non sappia la locazione di pizzerie, market e ristoranti
di lusso, benché a questi ultimi non sia interessato. Certo:
anche quando abitavo in quel piccolo centro conoscevo poche cose, ma
quelle cose mi bastavano.
Afferro
le chiavi e apro la porta di casa: andrò a chiedere a
qualche
vicino. Mi pare anche una buona scusa per fare conoscenze e,
perché
no, ricevere inviti a cena. Percorro le scale di fretta, scivolo sul
finale ma riesco a mantenere l'equilibrio. Il quinto piano è
un traguardo più che sufficiente.
Passo
un paio di minuti a guardarmi attorno e più precisamente a
decidere a quale delle due porte suonare: quella di sinistra; o
quella di destra?
Il
coraggio che avevo inizialmente è scemato, in ogni modo con
la
poca forza (di volontà) che mi rimane mi muovo verso quello
di
destra e suono il campanello.
Lo
sento riecheggiare all'interno della casa rompendo il suo silenzio.
Un
secondo.
Due
secondi.
Cinque
secondi.
Dieci
secondi.
Deduco
che non c'è nessuno al momento. Torno indietro e mi dirigo
verso la porta di sinistra.
Il
pianerottolo e lungo e stretto, adornato con vasi di fiori. Devo
correggermi: il pianerottolo è decorato con vasi di piante,
dei fiori non ce n'è neppure l'ombra.
Suono
e attendo. Un rumore di passi mi fa intuire che l'abitazione non
è
vuota.
Senza
neppure domandare nulla, o scrutare dallo spioncino, la porta si apre
e appare una ragazza, più o meno della mia età.
Mi
scruta attentamente e io faccio lo stesso: ha dei capelli color
cenere che cadono ai lati della faccia perfettamente lisci e curati,
gli occhi scruti e un naso aquilino.
“Cosa
c'è?”.
Rimango
perplesso. Questa giovane emana una strana aura, la stessa che
potrebbe emanare una vecchia cassapanca contenente documenti datati
millenovecentosessantadue. Non che la stia paragonando a
ciò,
ovviamente. Ci mancherebbe.
Odora
di qualche rimpianto, la sua pelle traspira ciò; o forse
è
nostalgia ciò che sento.
Qualunque
cosa sia è abbastanza forte da raggiungermi.
“Scusa,
visto che sono nuovo: mi indicheresti una pizzeria nelle vicinanze?
Sai, per la cena di stasera...”.
Lei
mi scruta per alcuni secondi, continua a farlo.
“Te
devi essere quello nuovo, quello che abita nella soffitta”.
Sospiro
e annuisco. Dunque avevo ragione nel dire che era una soffitta.
Grande
intuizione, cara, chi vuoi che sia? Ti sembra forse logico pensare
che un estraneo sia entrato nel condominio per chiedere
un'informazione? È palese che sono quello nuovo.
“Senti,
ce n'è una proprio dietro l'angolo. Cioè: appena
esci
vai a destra e al primo angolo svolti a destra. La dovresti
vedere”.
“Grazie”
rispondo, contento di aver trovato una fonte di cibo. Prima di
allontanarmi decido di presentarmi, penso che sia una cosa giusta tra
vicini di casa. Allungo la mia mano verso di lei e sorrido,
sfoggiando una delle mie migliori espressioni.
“Mi
chiamo Cristian, piacere”.
Lei
sospira e ricambia la gentilezza. “Il mio nome è
Sabrina”.
*
Sono
le undici e mezza passate.
Ho
cenato con una pizza margherita e ho comprato alcune bottigliette
d'acqua naturale, per domani ho deciso di dedicarmi all'acquisto di
vivande per la sopravvivenza.
Mi
trovo seduto sul letto, con il portatile davanti a me a parlare con
mia sorella della nuova sistemazione.
Inizio
a lamentarmi della casa ma lei è stranamente ottimista:
pensa
che alla fine non è così male e che mi
abituerò,
anzi, si auspica che trovi qualcosa di buono in quelle mura
puzzolenti.
Invia
emoticon sorridenti dopo ogni battuta che faccio su quel
quasi-monolocale.
Per
una settimana ancora non avrò lezioni, dunque posso svagarmi
un po'. Questo periodo servirà per ambientarmi.
Ciò
che però attira la mia attenzione è il rumore di
una
porta che cigola. Penso subito che sia quella dell'ingresso e mi
affaccio in salotto, ma così non è. Forse
è
quella del piano di sotto, o forse me la sono immaginata.
Torno
nella mia stanza e riprendo il pc, spiegando a mia sorella
l'improvvisa sparizione. Lei ci scherza su dicendo che ho le visioni,
colpa della nuova aria.
Poi
un altro rumore, qualcosa che è caduto. Mi viene da pensare
che uno scaffale ricolmo di scatole sia collassato provocando quel
fragore, ma non ne colgo la provenienza.
Dico
alla mia interlocutrice di aspettare e torno nella sala.
I
rumori provenivano da dietro la camera, ma in teoria dietro essa non
c'è nulla.
Afferro
le chiavi lanciate sul divano e mi affaccio sul pianerottolo. In quel
momento la vedo, la noto: c'è una seconda porta. Non conduce
presumibilmente a una casa, ma forse a una soffitta. È di
metallo, vecchia e con una serratura semplice, ma soprattutto:
aperta.
Scalzo,
in pantaloncini corti e maglia sbracciata, corro a dare un'occhiata.
La
mia curiosità dice di farlo.
Quando
mi accorgo che è socchiusa, ma dall'interno proviene una
luce,
provo ad aprirla.
Pessima
idea: quella dannata porta cigola tantissimo. Forse è anni
che
non la sistemano.
Accorgendomi
della stupidità del mio gesto faccio per andarmene, ma essa
si
spalanca, spostata da una forza sconosciuta.
Questa
forza sconosciuta ha un nome: Sabrina. Si è catapultata
verso
la soglia appena ha percepito il minimo rumore. Il mio primo pensiero
è che ha qualcosa da nascondere.
Ora
mi guarda, sistemandosi gli occhiali che la prima volta mancavano. Mi
lancia un'occhiata stupita. “Cosa ci fai qui?”
Preso
in flagrante, ottimo. Devo inventarmi qualcosa. “Scusami...
è
che sentivo dei rumori strani da casa mia e mi sono affacciato a
vedere”.
Il
suo volto si rilassa, forse non è adirata con me.
“No,
scusami tu” risponde chinando appena il volto.
“Vedi, non mi è
ancora entrato in testa che là ci abita qualcuno.
Farò
molta più attenzione la prossima volta che vengo
qui”. Provo
a guardare dietro di lei. La stanza è lunga è
stretta;
un intera parete è coperta di cassetti e armadi. Ci sono
anche
degli scatoloni a terra. Per quanto possa sforzarmi non capisco bene
cosa contengano.
“È
una soffitta?” domando.
“Sì”
mi risponde frettolosa. Non vede l'ora che me ne vada.
“Ho
sentito dei rumori, posso darti una mano?”. Qualcuno la
potrebbe
chiamare invadenza, io preferisco dire che è un aiuto
disinteressato. Lei però scuote la testa.
“È
caduta una scatola. Non preoccuparti”. Mi lascia sulla soglia
e
torna all'interno.
Per
farmi vedere che è autosufficiente raccoglie lo scatolone e
lo
alza, pronta a riporlo sulla mensola esatta. Un solo inconveniente la
blocca.
Il
fondo dello scatolone cede e riversa il proprio contenuto al suolo.
Come una bomba di sola acqua, i pezzi contenuti schizzano da ogni
parti, allargandosi sul pavimento. Non può più
nascondere nulla.
Impallidisce:
è terrorizzata dall'idea che io scopra cosa si nascondeva
là
dentro e cosa scivola qua e là con scarsa forza, io
però
sono troppo curioso per resistere. Una di quelle parti arriva ai miei
piedi.
Lo
guardo e sgrano gli occhi: è una rivista.
Non
solo: una rivista pornografica.
Dalla
copertina sembra uno di quei fumetti giapponesi dove i protagonisti
fanno in continuazione sesso nelle maniere più assurde, mia
sorella ne ha letti alcuni.
Sabrina
si getta a terra cercando di raccoglierne il maggior numero possibile
in un solo gesto, io furtivamente mi approprio di quello ai miei
piedi e mi dileguo. “Ciao” sospiro alla fine prima
di chiudere la
porta di casa. Ora sono dentro, al sicuro con quel giornaletto da
osservare. Se tutto va bene non se ne accorgerà mai.
Chi
l'avrebbe mai detto che una giovane dall'aspetto tanto innocente
nasconde così tanto materiale in soffitta.
Mi
getto sul divano incuriosito appena e lo apro. Forse dovevo
osservarlo meglio prima di prenderlo o forse mi sbaglio. Rimango
interdetto per alcuni secondi.
Lo
chiudo e corro al portatile, sperando che mia sorella sia ancora in
linea sulla chat.
Per
fortuna è lì anche se manca poco a mezzanotte.
Le
dico quello che ho visto ma non è sorpresa, anzi: sembra
molto
ferrata sull'argomento.
Probabilmente,
leggasi come certamente, quello è uno Yaoi,
acronimo
giapponese di qualcosa che sta a significare qualcos'altro che non
ricorda. Sono storie d'amore omosessuale vagamente esplicite, in
breve: fanno sesso.
Mi
chiede di osservare l'interno dell'opera ma mi rifiuto,
benché
vagamente incuriosito. In ogni modo è certa che sia una PWP,
acronimo di qualcosa di inglese che nuovamente non ricorda, usato per
classificate quelle storie prive di trama e dedicate solamente al
lavoro orizzontale dei personaggi.
Suona
come: “Trama? Che Trama?”
Grazie
a delle intuizioni femminili e un processo logico assurdo arriva a
dire che Sabrina è una Fujoshi,
cioè una
cultrice del genere. Mi avverte che sono comuni ai giorni nostri, le
fan di questo tipo di storie, e che non devo spaventarmi o pensare
strane cose di lei.
Ci
mancherebbe, tanto della spiegazione non ho capito nulla.
La
saluto ringraziandola e mi fa promettere di portargli l'oggetto
incriminato. Accetto anche se indeciso, forse sarebbe giusto darlo
alla sua proprietaria.
In
realtà sono io che non ho intenzione di andare in giro con
quella rivista.
Spengo
il computer, sospiro e vado a letto.
*
SCRASH.
Un
vetro si è rotto. Non saprei descrivere meglio quel suono.
Non
è stato quello a svegliarmi. È una decina di
minuti che
vengono strani rumori dalla soffitta: qualcosa che cade, risatine,
borbottii... Sabrina deve aver portato degli amici in quel luogo.
Questo
lo pensavo prima che il vetro si rompesse e tre figure avvolte in
mantelle nere entrassero in casa mia.
Senza
un minimo tatto hanno distrutto la finestra per entrare. Io sapevo
che i ladri si fanno scaltri, evitando di far rumore, ma per loro non
è così.
Hanno
fatto 'stomp' quando sono atterrate sulla moquette.
Io
ho gli occhi aperti e mi sono anche girato per guardarli, mi stupisce
che non si siano accorti di me.
Due
di loro hanno una corporatura robusta, l'altra è
mingherlina.
Sul volto portano delle maschere bianche capaci di coprire solo gli
occhi ma provviste di un lungo naso simile a un becco.
Ah,
sono donne.
Posseggono
anche un altro particolare, che le distingue chiaramente.
La
più robusta ha stampata una A rossa sulla fronte candida
della
maschera, la più mingherlina ha invece una O e l'altra una
Y.
Forse è una gerarchia, in ordine alfabetico.
Quindi
ce ne sono altre ventitré a giro?
Sembrano
cercare qualcosa, si guardano attorno facendo volare qua e
là
le mantelle nere.
Una
poi si gira verso di me e si accorge che sono sveglio. Io, dal canto
mio, non faccio nulla per farle credere il contrario.
“Sei
sveglio”. Commenta.
“Tu
non tanto” vorrei dirle, ma preferisco rimanere in silenzio.
Mi
alzo fino a trovarmi seduto sul bordo, con le gambe penzoloni.
“Cosa
volete?”
Colei
che mi ha parlato per prima parla di nuovo. “Cerchiamo una
rivista”. Io inarco le sopracciglia.
Non
ho dubbi di quale rivista loro stiano parlando, ma perché?
Una
domanda mi sorge spontanea.
“Tutto
questo casino per la rivista?”
Lei
fa spallucce, le altre due la seguono.
“Sì”.
“Non
potevate passare dalla porta? Insomma: perché rompere il
vetro!”.
“Scusa,
è una cosa scenica che ci piace” si giustifica.
“In ogni
modo ti conviene darcela immediatamente”. Io sono ancora
intorpidito dal sonno, saranno le quattro del mattino.
“Altrimenti?”
non è stata una cosa furba da dire.
In
un attimo, la A, nonché colei che ha parlato fin'ora, estrae
qualcosa di lungo. La penombra non mi permette di riconoscerlo.
“Altrimenti
questo” dice entusiasta.
“Non
riesco a vederlo”.
Si
sposta immediatamente, posizionandosi sotto la finestra. “Ora
la
vedi?” mi chiede quasi preoccupata della riuscita
dell'intimidazione. La luce della luna rischiara l'oggetto rivelando
che cos'è: un fallo di dimensioni spaventose. È
liscio,
sembra semi morbido e di almeno un metro e mezzo.
“Altrimenti
questo!” esclama soddisfatta.
Sono
pazze, non c'è altra spiegazione. Darò loro la
rivista
e chiamerò la polizia, già immagino la chiamata:
“Aiutatemi! Delle pazze sono entrate in casa mia dalla
finestra
minacciandomi con un dildo gigantesco”.
“Cosa?
E per quale motivo?”
“Volevano
una rivista Yaoi”.
“E
tu che ci facevi con una rivista del genere?”
Ok,
forse quando lo spiegherò alla polizia cambierò
un po'
le cose: prima di tutto lo yaoi si sostituisce a una rivista
scientifica e magari il fallo diventerà un mitra automatico.
Sì, così sarà meglio.
Tornando
all'immediato presente, mi pare ovvio come agire: indico loro il
cassetto dove lo avevo riposto e le saluto cordialmente.
Torno
a letto, senza nessun dolore e convinto di aver fatto la cosa giusta.
Dev'essere
colpa del sonno, ma questa cosa mi turba appena.
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