Il servizio incompleto
La tovaglia era ovviamente immacolata, come le porcellane sul tavolo.
Le posate erano lustre e mandavano bagliori argentati nella luce
naturale che inondava la sala: le si sentiva tintinnare delicatamente
tutt’attorno, tra le dita delle signore di mezza età in sobri abiti
pastello.
Il cameriere servì loro il tradizionale tè pomeridiano, mentre Emily si
sforzava di restare composta senza ingobbire la schiena, poi posò la
teiera tra loro evitando (con maestria, Emily riteneva; ma lei non
faceva testo) di rovesciare il semplice vaso di fiori che freschi che
decorava il tavolo.
Emily ringraziò ancora una volta (l’ennesima, e probabilmente a
sproposito) il cameriere. Fissò il tavolo imbandito con un sorriso
rigido, cercando di non soccombere all’ansia che la pila di piccoli
tramezzini al cetriolo le provocava: come diavolo sarebbe riuscita a
prenderne uno senza farla franare?
‘Concentrati,’ si disse.
Dall’altra parte del tavolo, invece, Woodworth sedeva sicuro e a suo
agio. Rivolse un cenno di ringraziamento al cameriere e guardò Emily.
“Eccoci giunti al gran finale,” disse con aria quasi complice. Sorrise
appena sotto i baffi sale e pepe e allargò le mani a indicare la sala
da tè, affollata ma non rumorosa, in quel venerdì pomeriggio.
“Non pensavo ce l’avrei fatta,” rispose Emily, in tutta onestà. E come
sarebbe finito quel pomeriggio era ancora tutto da vedere.
“Ha fatto molta strada, miss Miller,” concesse Woodworth. “Un percorso
certo non privo di incidenti,” Emily avvampò, “ma la conquista di
maniere impeccabili è un’ardua vetta da scalare.”
“Spero di essere pronta.”
“Ne sono certo. D’altronde, non pretendo la perfezione. Dopo un corso
di galateo di dodici ore sarebbe ingiusto, nonché irrealistico. Ma il
tradizionale tè pomeridiano non è al di fuori della sua portata.”
Emily diede un colpetto di tosse, mentre le scorreva davanti agli occhi
il tragicomico balletto di quando era arrivata alla sala da tè poco
prima dell’istruttore di galateo.
Intanto, la pretesa di un tavolo specifico da cui fosse possibile
vedere le porte della sala, come tutte le sue altre “alquanto peculiari
richieste”, con le parole del responsabile di sala, era stata accolta
con un tono neutro che tuttavia sapeva curiosamente di disapprovazione.
Inoltre, a quanto pareva, le signore venivano scortate al tavolo
(Emily avrebbe dovuto saperlo? Ricordarlo da qualche lezione?) e fatte
accomodare. Ma lei si era seduta in fretta e pesantemente, sistemandosi
la sedia da sola, accorgendosi troppo tardi delle mani levate per aiutarla.
Senza scomporsi, il cameriere aveva raddrizzato la schiena, pronto a
ritirarsi.
Ma lei aveva lanciato uno stridulo ‘mi scusi!’ in cacofonica assonanza
col rumore del legno che strisciava sul pavimento mentre allontanava di
nuovo la sedia dal tavolo, decisa a non privare l’uomo delle sue
mansioni.
La sua considerazione lo aveva certamente colpito: allo stinco, perché
Emily aveva messo troppa foga nel movimento.
Il cameriere aveva reagito con stoica professionalità, mentre tutti gli
altri avventori si giravano a fissarli, e aveva passato a Emily un menù
dietro cui nascondersi, piena di vergogna.
Per di più, alla fine si era seduta al posto sbagliato, così era
Woodworth, arrivato poco dopo, che si trovava rivolto verso l’ingresso.
Diamine.
Woodworth, che ora la guardava con aspettativa.
“Vogliamo cominciare?” suggerì, al protrarsi del silenzio smarrito di
Emily. Indicò la teiera in un gesto di invito.
“Sì!” si riscosse lei, afferrando la porcellana e servendosi il tè, che
ormai doveva essere rimasto in infusione quanto bastava.
“Non consiglierei più di quattro minuti di infusione, per il Wuyi
Oolong,” aveva infatti suggerito Woodworth, quando Emily lo aveva
scelto.
L’uomo si servì dopo di lei. “Zucchero?”
“Due zollette, grazie.”
Woodworth le offrì il piattino con le fette di limone, poi il latte.
Emily prese finalmente con cautela la propria tazza e assaggiò un
sorso. Mh. Forse avrebbe fatto meglio a restare sul classico Earl Grey…
Woodworth assaggiò il proprio tè con aria assorta e occhi socchiusi,
con l’abbandono di un sommelier.
Emily occhieggiò con sospetto le tartellette fragola e panna: quelle si
mangiavano con le mani? Ma no, a cosa sarebbe servita, altrimenti, la
forchetta? Era certa almeno che il coltello da burro fosse limitato
solo al burro o alla panna rappresa. Non che lei si sentisse in grado
di mangiare,
in quel momento.
Woodworth la stava fissando di nuovo.
“Sì?” chiese Emily, mirando a un tono melodioso e suonando invece come
una bimbetta colta con le dita nella panna. E le tartellette non le
aveva neanche toccate.
“Cosa viene, ora?” la incalzò Woodworth.
“Ora? Uh…”
“La conversazione. Ricorda? Il tè pomeridiano è un’occasione di
incontro, lo scopo principale è la conversazione,” rispose Woodworth.
“Oh! Sì! Ovvio. Siamo qui per parlare,” blaterò Emily, poi si impose di
calmarsi e concentrarsi ancora una volta. Sì, era per parlare, che
erano in una sala da tè, e lei si era esercitata, con quello che voleva
dire. “Non avrei mai pensato, solo un paio di mesi fa, che sarei finita
a prendere lezioni di galateo,” disse, prendendo un sorso dalla sua
tazza per darsi un contegno e bruciandosi la lingua.
Woodworth sembrava già pronto ad aprire la bocca per ricordarle di non
soffiare sulla sua bevanda, ma Emily riuscì a trattenersi.
“Sì, ecco, è stata un’esperienza nuova, per me,” riprese lei. “Non
sapevo neppure che ci fosse una scuola di galateo in città!”
Woodworth sorseggiò il proprio tè (senza bruciarsi). “Ci sono alcuni
centri culturali che organizzano dei corsi, con cui talvolta
collaboriamo, ma sì, l’Istituto è unico nel suo genere, a Scranton.
L’unico polo culturale che offra anche lezioni di buone maniere.”
“La segretaria, Terry, mi ha detto che è stato lei a crearla, quando si
è trasferito qui dall’Inghilterra. Quanti ani fa? Quindici?”
“All’incirca. Poco più di tredici.”
“Ma non faceva l’insegnante di galateo, prima di venire in America,
vero?”
Woodworth posò la tazza. “Non proprio.” Offrì a Emily il piattino dei
mini-sandiwich (che in realtà si chiamavano closed sandwich o qualcosa
del genere, stando al menù) prima che lei potesse incalzarlo sulla sua
precedente occupazione. “Mi chiedo cosa abbia fatto scattare la
curiosità per un corso di galateo,” chiese mentre lei si serviva
impacciatamente.
Ma anche quella apertura poteva funzionare, per Emily.
“È stata un’amica a parlarmene,” iniziò con slancio, senza più pensare
al cavolo di mini-sandwich.
“Schiena dritta,” la corresse Woodworth. “Fa sempre piacere sentire che
vecchi studenti soddisfatti dei nostri corsi scelgano di consigliarli
ad altri.”
“Oh, la mia amica non era proprio una ex-studentessa. Aveva seguito
diversi corsi, negli anni, e l’ultimo a cui si era iscritta, quello
della signorina Tatter, sui maestri della pittura barocca francese, è
ancora in corso,” disse Emily. “Purtroppo, per la mia amica rimarrà
incompleto. Mi riferisco ad Anne Hartway. Immagino la conoscesse.”
“Non bene, temo. Una terribile tragedia,” disse Woodworth. “Il corso di
arte di miss Tatter è sempre molto popolare. Io stesso ho avuto il
piacere di seguirlo, anche se l’arte che prediligo, e che più mi
aggrada, è questa.” Sollevò la tazza di porcellana cinese “Gli aromi,
le note, la musica e la conversazione: tutti gli elementi che rendono
quello del tè un momento speciale”
“Concordo appieno. La tradizione, il rito stesso del tè,” annuì Emily
“Credo sia stata proprio Anne a farmelo capire. Lei era un’appassionata
della cerimonia giapponese del tè, lo sapeva? Diceva a volte che le
sarebbe piaciuto creare un proprio corso sull’argomento, in
collaborazione con l’Istituto.”
“Sarebbe stata una preziosa aggiunta alla nostra offerta formativa,”
commentò Woodworth, freddo. Mangiò il suo sandwich al cetriolo.
“Eravate molto vicine?” chiese, ancora più freddamente.
“Come possono esserlo due persone con trent’anni di differenza tra
loro,” rispose Emily. “Non ci conoscevamo neanche da tantissimo tempo,
ma… sì, direi che eravamo vicine.”
Woodworth rimase in silenzio. “Il suo tè,” le ricordò alla fine.
Emily aveva abbandonato tazza e stuzzichini. Abbassò gli occhi sulla
tazza e la riprese lentamente. “Sa, sono stupita che lei e Anne non vi
conosceste. Che non vi conosceste bene,” aggiunse, prima che Woodworth
potesse correggerla.
L’uomo strinse le labbra con aria infastidita.
“Avevate molto in comune, lei e Anne. La conoscenza profonda del tè e
dei suoi rituali, e—”
“Temo di non essere affatto un esperto di tè giapponese,” la interruppe
Woodworth.
“Ma è un collezionista, non è vero? Di porcellane antiche. Ho visto
esposti diversi servizi antichi, all’Istituto. Terry è stata così
carina da mostrarmeli. Siccome i servizi da tè giapponesi sono
notoriamente preziosi e ricchi di storia…”
“Ho incrociato qualche pezzo pregiato, durante la mia carriera,” ammise
Woodworth. Posò la propria tazza e osservò Emily attentamente.
“Anne era una collezionista di tazze giapponesi. Non di quelle antiche,
quelle preferiva saperle nei musei. Lei collezionava servizi da tutti i
giorni, per così dire.”
Emily fece un piccolo sorriso tra sé: non si era mai sentita in
soggezione davanti agli inviti per il tè pomeridiano di Anne. Erano ore
tranquille, di quieta felicità e discreto sarcasmo. A volte barzellette
sporche.
“Sa, quando la polizia ha visto il suo appartamento, ha subito pensato
a un tentativo di furto, un ladro che forse voleva sedarla per poi
svaligiare la casa con calma, ma che ha commesso un errore e ha finito
per avvelenarla. La detective Montoya, che si occupa delle indagini, ha
ammesso che non sembra un modus operandi molto pratico, per un topo
d’appartamento, ma non ci sono altre piste.”
Emily scosse la testa. “Però a me proprio non convince. Anne non aveva
cose preziose, solo buon gusto. E occhio: avrebbe saputo riconoscere
stile ed età di un qualunque servizio giapponese a prima vista. Aveva
tanti di quei cataloghi di musei e case d’aste.”
“Affascinante.”
“Vero? E adorava fare ricerche sulla storia di quelle vecchie
porcellane! A chi appartenevano prima, se venivano dalla collezione di
cineserie di una famiglia ricca che le aveva acquistate in Oriente come
status symbol — si usava in Europa, non è vero? — o se si trattava di
ricordi di incarichi diplomatici. Cose così. C’era la storia di un
servizio, in particolare, di uno stile originato da un vasaio coreano
nel XVI secolo,” continuò, gli occhi incollati in quelli grigi e gelidi
di Woodworth. “Lo stile Koishiwara-yaki,
lo conosce?”
“Non sono familiare con i vari stili. Non gradirebbe uno scone? Sembra
che i closed sandwich non siano di suo gusto.”
“No, grazie. Questo servizio Koishiwara-yaki aveva una storia
che mi è rimasta impressa: era scomparso negli anni 90’, rubato dalla
casa di una famiglia nobile di Norwich. Gli Ashenhurst, di Sprowston, a
essere precisi. Non solo, la casa era appena stata teatro di
un’inspiegabile tragedia: la morte improvvisa del padrone di casa per
un malore imprecisato.”
“Non si sporga sul tavolo,” le ordinò Woodworth, aspro.
Emily lo ignorò. “Pensavo che lei fosse familiare con quella storia,
signor Woodworth, con il fatto che anche lei abitava e lavorava nella
vicina Norwich. Era curatore di un piccolo museo, in quegli stessi
anni, non è vero? È stata sempre Terry a dirmelo.” Sorrise. “Il tour
dell’Istituto che offre è davvero esaustivo.”
“Perché rivangare questa macabra storiella?” chiese Woodworth.
“Be’, lei non ci crederà, ma Anne era certa che il
servizio giapponese nel suo ufficio fosse identico al Koishiwara-yaki rubato in
Inghilterra: di sicuro è molto simile alla foto sul catalogo di
Soteby’s del ’41 che Anne aveva nella sua collezione…”
Woodworth posò la propria tazza e ritrasse le mani dal tavolo.
“Normalmente noi Inglesi siamo disturbati da un’eccessiva sfrontatezza,
ma penso di aver assorbito abbastanza le usanze americane, ormai,”
disse. “Quindi, la pregherei di dirmi dove vuole andare a parare, miss
Miller. Prometto di non offendermi.”
Anche Emily si scostò appena dal tavolo. “D’accordo, allora. Il servizio Koishiwara-yaki
nel suo ufficio è lo stesso trafugato da casa Ashenhurst, ne sono
certa. Come sono certa che se fosse finito nelle sue mani in maniera
innocente, Anne non sarebbe stata avvelenata, mostrando dei sintomi non
del tutto diversi da quelli del malore improvviso che aveva stroncato
il signor Ashenhurst.
“Lei ha scoperto che l’uomo aveva in casa quel servizio. Ma lui non
voleva separarsene, né prestarlo al suo museo. Così lei lo ha ucciso e
ha rubato il Koishiwara-yaki. È fuggito in America, dopo, in attesa che
anche gli eredi di Ashenhurst morissero, o si scordassero della
faccenda, prima di rivendere il servizio e arricchirsi.”
“Questo non è un collegamento. È un salto, temporale e spaziale, di
pura immaginazione, temo,” rispose Woodworth, prendendo il tovagliolo
dal tavolo. “Inoltre, la polizia non ha idea di come miss Hartway sia
stata avvelenata, lo hai detto tu stessa.”
“Be’, io temo, a volte, di essere fin troppo curiosa per il mio bene:
ho avuto modo di parlare con la detective Montoya in più di
un’occasione,” cominciò Emily.
René Montoya non aveva gradito troppo parlare con lei, specie
nell’occasione in cui Emily si era intrufolata nell’appartamento di
Anne approfittando della confusione delle indagini. Ma lei aveva notato
subito qualcosa di promettente.
“È stato portato all’attenzione della polizia che uno dei servizi da tè
giapponesi di Anne era incompleto. Sembrerebbe un piccolo dettaglio, ma
è invece fondamentale per andare a fondo di questo mistero. Mancava una
tazza: la tazza usata per somministrarle il veleno! L’assassino ha
dovuto portarla via; ha lavato e riposto con cura le altre, perché
nessuno notasse che erano state usate o trovasse le sue impronte, ma
quella che conteneva il veleno ne aveva senza dubbio assorbito un po’.
Essendo così porosa, la ceramica assorbe facilmente i liquidi—”
“Tutto questo è ridicolo. Il servizio può essere incompleto per
un’infinità di ragioni. Miss Hartway potrebbe semplicemente aver fatto
cadere una delle tazze.”
“Mh, ora lo vedo, che non conosceva Anne molto bene. Lei era molto
attenta ai suoi servizi da collezione e non era per nulla sbadata.”
“Potrebbe averla rotta un’ospite,” ribatté Woodworth, con un’occhiata
eloquente a Emily.
Lei arrossì suo malgrado: non si contavano le tazze, i bicchieri e i
piatti che aveva rotto nel corso della sua vita. L’Istituto aveva una
politica di tolleranza di due tazze, prima di addebitare i danni agli
iscritti. Le tacche sulla cintura di Emily (o meglio, le sue mani
maldestre) attestavano quattro caduti, ad oggi.
Ma con Anne non si era mai sentita in soggezione, appunto, né osservata
o giudicata: non aveva mai rotto niente per nervosismo.
“Non è stata rotta da un ospite,” rispose, riprendendo il controllo.
Prese la sua borsa e ne estrasse una tazzina di ceramica grezza, molto
semplice, sorella di quelle del servizio incompleto che René rifiutava
così testardamente di prendere in considerazione. “Eccola, la tazza con
cui ha avvelenato Anne, signor Woodworth, l’ho trovata io stessa nel
suo ufficio.”
Woodworth la fissò sbalordito per un attimo, poi scoprì i denti: “Non
mi crederai così ingenuo? Non ho certo conservato quella che—” L’uomo
si bloccò all’istante, le labbra serrate e le narici che fremevano: non
aveva detto molto, ma si era indubbiamente tradito.
Emily appoggiò la tazzina sul tavolo. “Deve averla gettata via,
immagino,” disse, oltre al rombo del proprio cuore. Voleva esultare,
urlare di rabbia, gridare vendetta. Non fece niente. “Ma per un attimo
ha avuto paura che l’avessi trovata sul serio, contro ogni logica,
vero?”
“È la tua parola contro la mia,” rispose Woodworth, rilassandosi di
nuovo.
“Per ora. Ma quando la polizia sarà informata di tutte queste
coincidenze, quando vedranno il famigerato servizio Koishiwara-yaki…”
Emily scrollò le spalle.
“Nessuno ne sarà informato,” disse Woodworth. “E questa tua recita alla
Poirot mi ha stancato.”
“Tanto peggio per lei, non ho intenzione di smett—”
Emily si ritrovò a fissare interdetta il tovagliolo che Woodworth le
puntava contro, appena al di sopra del bordo del tavolo.
“Sapevo che avresti portato guai dal momento in cui ti ho trovata a
ficcanasare nel mio ufficio,” riprese Woodworth, mentre Emily si
rendeva conto, in ritardo, che quella che le veniva discretamente
puntata contro era una piccola pistola. “Ora seguimi fuori in silenzio
e nessun altro si farà male,” intimò Woodworth.
‘Nessun altro… tranne me!’ pensò freneticamente Emily. Col cavolo che
lo avrebbe seguito fuori!
“Quest’uomo ha una pistola!” strillò a squarciagola nel tintinnio delle
ceramiche e dei cucchiaini.
Qualcuno degli impomatati avventori della sala da tè si sarebbe ripreso
dallo stupore per la sua maleducazione prima che Woodworth si
comportasse in modo ancora più inappropriato e le sparasse?
Emily non intendeva correre il rischio: balzò in piedi, cercando
qualcosa con cui difendersi, e brandì decisa contro Woodworth… il
coltello da burro?
Entrambi abbassarono lo sguardo sulla lama corta e arrotondata. Un
ricciolo di burro minacciava di cadere sulla tovaglia.
“Be’, avresti potuto scegliere meglio,” commentò alla fine Woodworth,
sollevando l’arma.
“Non farlo, ho già chiamato la polizia, non andresti da nessuna parte,”
strillò ancora Emily. Le sue orecchie registrarono uno scandalizzato
‘ma insomma’, da qualche parte dietro di sé.
“Il secondo bluff non funziona mai,” la informò Woodworth. “Addio.”
In un lampo di pura irrazionalità, Emily diede un calcio al tavolo,
ribaltandolo e facendo volare ovunque tazze, teiera e crème fraîche. Le
grida scandalizzate si moltiplicarono, insieme a quelle di dolore di
Woodworth, ustionato dal tè bollente.
Lei non poteva dire di aver sperato in quella specifica evenienza, dato
che non aveva pensato affatto, ma non avrebbe certo sputato sulla
propria ridicola fortuna.
Woodworth le scagliò uno sguardo di puro odio, mentre si teneva la mano
offesa, per fortuna non più stretta attorno alla pistola. Poi si girò e
si lanciò verso l’uscita, spintonando chiunque si trovasse sulla sua
strada.
Era quasi all’ingresso quando un cameriere, le mani cariche della sua
ordinazione, gli si parò davanti. Lasciò cadere a terra tutto ciò che
aveva sul suo vassoio, allargò i piedi per un equilibrio ottimale, e
colpì Woodworth dritto in faccia con l’argenteria, stendendolo sul
pavimento.
Emily sobbalzò al gong
del tremendo impatto e rimase a fissare a bocca aperta il cameriere e
un suo collega che immobilizzavano Woodworth.
Il responsabile di sala si materializzò accanto a lei, tenendo la
pistola di Woodworth con un fazzoletto. “La polizia è in arrivo, miss.
Un paio di minuti al massimo. Sono molto spiacente per il ritardo.”
“Oh? Davvero? Non credevo l’avrebbe chiamata: ha reagito come se le
avessi chiesto la cosa più ridicola e isterica di questo mondo,”
rispose Emily, sbattendo le palpebre.
“Le assicuro, miss, che quando una donna mi chiede di chiamare la
polizia riguardo al suo accompagnatore, tratto la faccenda con assoluta
serietà,” disse l’uomo, grave.
“Certo. Grazie. E— mi dispiace per il tavolo. E per il servizio di
porcellana. Probabilmente anche per il tappeto. Ma davvero non volevo
giocarmela con il coltello da burro.”
“Resterebbe sorpresa, dei danni che anche un utensile del genere riesce
a provocare,” disse il responsabile con un luccichio divertito negli
occhi.
“Sul serio?”
“Oh, sì. Lo so per esperienza.”
“Esperienza in una sala da tè?” ridacchiò Emily.
L’uomo annuì. “Che cos’è un piccolo scontro all’arma bianca in una sala
da tè aperta da quasi un secolo?”
Emily lo fissò, sconvolta e ammirata. Forse era sotto choc. “Sa cosa?
Potrei dare a tutta questa storia del tè pomeridiano un’altra chance…”
disse mentre la polizia, la detective Montoya in testa, irrompeva nella
sala.
Emily fece ‘ciao’ con la mano a René, che le lanciò un’occhiataccia (ma
poi scosse la testa quasi con affetto, quindi era tutto a posto, no?) e
si chinò a cercare la piccola tazza giapponese di ceramica grezza che
aveva estratto dalla sua borsa.
“Ecco, Anne,” sussurrò tra sé e sé. “La metterò con le tue. Il servizio
sarà di nuovo completo.”
Note:
Questa storia partecipa al contest “Evocami
col mio nome, ti svelerò i miei segreti – Edizione speciale
Setsy&Mystery” indetto da Setsy e mystery_koopa sul
Forum di EFP!
Il mio pacchetto è 'La classe non è acqua', con il prompt 1: Uno dei
vostri personaggi è l’insegnante di galateo (improvvisato o
professionale) dell’altro, che deve essere molto sprovveduto per quello
che riguarda le buone maniere: come banco di prova, lo porterà in una
elegantissima sala da tè.
L'oggetto da inserire era la tazza giapponese, i generi/avvertimenti
'giallo' (e spero si percepisca anche un po' di 'commedia'XD)
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