A
Piece for Assorted Lunatics
Londra
è una città che David non comprenderà mai. Non ne comprende le migliaia di
sfaccettature, né comprende come possano coesistere. Da ragazzo la amava di un
amore spropositato, genuino ed infantile – ma ora, a ventotto anni, quella
magia si è persa; diffusa nella nebbia di Novembre, ridotta a un cumulo di
foglie autunnali schiacciate dalle suole delle scarpe dei passanti, evanescente
nelle risate e nelle voci e nella birra spillata a litri per poche sterline.
Siede
in un pub di cui non ha memorizzato il nome, stanco. La sua anima ha le stesse
proprietà di quella della città: smarrita tra le nubi di fumo, nella musica
suonata dal vivo da un gruppo di ragazzi inesperti. Li osserva, nel parco
nell’angolo; osserva l’energia che impiegano in ogni nota, ogni accordo, la
sinergia tra i membri del gruppo, i sorrisi eccitati e il sudore sui loro volti
sbarbati. Il suo sguardo scivola al boccale pieno a metà, ai bicchieri lasciati
vuoti da Richard, Nick e Roger. Sono spariti tutti, chi in bagno, chi a parlare
con un gruppo di ragazze. È rimasto solo Roger, che però non siede al tavolo.
Non sembra essere capace di rimanere fermo troppo a lungo nello stesso punto:
c’è sempre qualcosa da fare, qualcosa da dire, a cui pensare. Ora è in piedi
contro una colonna, tiene il tempo del giovane bassista del gruppo che, ignaro
di quell’esame, impiega tutto se stesso nella performance.
Roger
solleva la sigaretta alle labbra e per un attimo, quando la accende, il suo
profilo si illumina a giorno. È un faro in quella nebbia artificiale, i
lineamenti non meno duri e scolpiti della pietra e del cemento; un’immagine
moderna e viva che appartiene ad un museo, alla polvere, agli sguardi dei
visitatori. David allunga la mano verso il boccale e affoga quei pensieri in un
sorso di birra. Quando riabbassa il bicchiere e torna al mondo reale Roger lo
sta guardando, le labbra appena dischiuse in una smorfia simile a un sorriso.
Indica il gruppo di ragazzi con un cenno della testa. David solleva le
sopracciglia, annuisce in segno di approvazione. Sono bravi, forse non lo sono
abbastanza, ma sa benissimo che a Roger non interessa: vive troppo in
quell’istante per preoccuparsene. Lo guarda allargare le braccia e accogliere
in sé quella cacofonia di suoni, chiudere gli occhi e assimilarla, il dio della
musica che dona la propria benedizione a quei pagani inconsapevoli. David ride,
suo malgrado.
Si
domanda se quei ragazzi facciano sul serio, se sappiano ciò che li aspetta nel
mondo reale – tutte le discussioni,
tutta la fatica, i compromessi accettati a denti stretti, il risentimento
ingoiato a forza – tutto ciò che consegue il volersi definire un gruppo.
“Ne dovrete ingoiare, di merda”, direbbe loro, se solo ne avesse
l’occasione; e poi si ritrova a chiedersi cosa direbbe loro Roger.
Deve
smettere di pensare a lui. Ci pensa troppo spesso, e troppo spesso in termini a
cui non è abituato. Solo la definizione che da di lui – la statua, il dio –
dovrebbero metterlo in guardia, ma è troppo sbronzo e troppo stanco per voler
comprendere davvero cosa provi, quali siano le implicazioni. Lo guarda di nuovo
e si irrigidisce nel rendersi conto che Roger si è avvicinato, che sta afferrando
la sedia di fronte alla sua e si sta sedendo. Tira dalla sigaretta e getta la
cenere nel bicchiere di Rick, nonostante il posacenere sia alla sua portata.
Guarda David e la sua espressione si distende in un sorriso lento.
«
A che stai pensando? », gli domanda. David beve un altro sorso di birra,
anziché rispondere. Non subito. Il tempo di pensare a una scusa.
«
Non ti piacerebbe saperlo. »
È
il turno di Roger di alzare le sopracciglia. « Sorprendimi. », lo incita,
ridendo. Le dita scivolano sulla sigaretta, che stringe tra indice e medio; la
libera dalla costrizione delle proprie labbra e gliela porge. David fa per
prenderla, ma Roger si ritrae. Scuote la testa. « Un tiro per i tuoi pensieri.
»
Questa
volta è lui a ridere. « Che cazzo di scambio sarebbe? », borbotta, scuotendo la
testa. Lo guarda così, il capo inclinato, i capelli biondi che gli scivolano
davanti al volto. Roger non accenna a ritrarsi o a contrattare. Non ritorna mai
sui propri passi, aspetta che siano gli altri a raggiungerlo, e David non è
quasi mai a disposto a compiere il primo passo. Quella sera sì: si sporge e
prende la sua sigaretta in bocca. Sente le sue dita contro le labbra e per
qualche ragione non abbassa gli occhi, ma fissa gli occhi scuri di Roger. Lui
non sorride. Lo guarda in una maniera strana, peculiare, esclusivamente sua. È
uno sguardo che David conosce, e nel recepirlo si allontana, la boccata di fumo
amara in bocca. Sfiata contro il suo viso e Roger si ritrae.
«
Sei un pezzo di merda. », dichiara, tossendo. L’incantesimo è sciolto, ma David
non è più con lui: le note che sta ascoltando diventano quelle di Eclipse,
la voce del ragazzo sconosciuto diventa quella di Roger, la stanza il palco dell’Empire
Pool. Davanti a loro una folla urlante, sopra di loro le luci calde e
soffocanti dei riflettori, alle loro spalle psichedelici giochi di colori. Le
sue dita seguono gli accordi che ormai conosce a memoria e la sua voce segue
quella di Roger. È dall’altra parte del palco, la batteria di Nick tra di loro,
ma quando Roger si volta a guardarlo accade qualcosa di strano, magnetico. I
suoi occhi sembrano splendere di luce propria, troppo bianchi, più veri e
freddi di qualsiasi altra cosa li circondi – e forse è colpa di quello che ha
preso prima dell’esibizione, forse è un inganno della sua testa, ma per un
attimo David riesce ad abbandonarsi e tutto quanto scompare. Non è solo una
questione fisica, materiale: si spoglia di ogni cosa, ogni pregiudizio e ogni
rancore. Rimane solo con Roger, e la sua voce gli appare come una litania
erotica e pericolosa. Non la segue perché deve, la segue perché vuole;
la segue perché è l’unica cosa realmente esistente. Le loro liti gli danno
ragione di esistere, gli danno una forma; la musica che scrivono assieme
diventa un ponte tra le loro menti. Sono una cosa sola, sono perfettamente in
sintonia e cazzo – ora sta immaginando come sarebbe se Roger
allontanasse le mani dal basso e sfiorasse la sua schiena, i brividi che
causerebbe, il riverbero che la sua voce genererebbe se lo facesse; ora lo sta
immaginando nudo, premuto contro un muro, le dita intente a tirare i suoi
capelli e il collo esposto per permettergli di succhiare, e mordere, e donargli
qualsiasi stimolo David desideri. Sta immaginando la sensazione del suo cazzo
contro la coscia, la foga con cui lo libererebbe dalla costrizione dei
pantaloni stretti. Lo ha visto nudo, non ha bisogno di sognare ad occhi aperti
per figurarsi l’aspetto del suo corpo, e anche perdersi nella fantasia della
violenza con cui lo spingerebbe contro il letto e pretenderebbe di avere il
controllo – come sempre, come sempre – risulta fin troppo facile.
E
cosa farebbe a quel punto? Quanto gli concederebbe? Sbatte le palpebre, un
gesto che gli causa un fastidio pungente agli occhi. È di nuovo sul palco
dell’Empire e Roger lo sta ancora fissando, le labbra che sfiorano il microfono
davanti a lui.
And everything under the sun is in
tune / but the sun is eclipsed by the moon. I suoi occhi tornano alla massa
urlante e informe sotto di loro, un istante prima che David comprenda che in
qualche modo – non gli è dato conoscere come – i suoi pensieri e quelli di
Roger sono stati una cosa sola per un lungo, doloroso momento; ma è troppo
tardi, forse è troppo presto.
Sbatte
di nuovo le palpebre ed è di nuovo in un pub senza nome, in una notte senza
tempo, davanti a un uomo senza perdono. Roger smette di tossire e si alza,
scocciato. Mai troppo a lungo nello stesso posto.
«
Se non hai intenzione di dirmi a che cazzo stai pensando non ho motivo di
rimanere. », borbotta. Lascia cadere la sigaretta consumata a metà nel
posacenere. « Tieni, Dave. Un regalo. »
Lo
guarda dall’alto, in attesa di vedere cosa farà, e David pensa – riflette, pondera.
Sa che esistono istanti che possono prolungarsi nel tempo, frazionarsi,
dilatandosi fino ad inglobare un lasso che non dovrebbero essere in grado di
coprire; momenti irripetibili e decisivi. Se ora si alzasse e prendesse quella
sigaretta e si avvicinasse a Roger darebbe un senso a quell’istante, una
ragione per esistere: sussurrerebbe in un suo orecchio parole che non ha mai
detto a un uomo, gli direbbe di fotterlo, di aver capito che Roger lo vuole
quanto lui. Osserva il tabacco bruciare, secondi scanditi da quella fiammella
che risale in inscindibili ghirigori.
«
Va pure. », lo invita. Riesce persino a sorridergli. « Tanto che cazzo te ne
frega di quello che penso, Roger? »
Roger
ride. Non è una risata divertita, è amara, velenosa. Gli da le spalle scuotendo
la testa, frustrato. David lo guarda scomparire nella coltre di fumo, perdersi
in mille e più frammenti. Torna ad essere una luce nella nebbia. Fa scivolare
le dita verso il posacenere e recupera la sigaretta di Roger, quell’invito
silenzioso, quella promessa vaga di qualcosa che entrambi non comprendono.
Ormai
è ridotta a un mozzicone. La porta comunque alle labbra, ma tutto ciò che
ottiene è di sentire le dita e le labbra bruciare. È troppo tardi. Forse è
troppo presto.
Questa storia è stata scritta su commissione. I più
sentiti ringraziamenti al committente, Alice!
Ho le commissioni aperte, se siete interessati:
https://twitter.com/aggretsujo/status/1403073899605151748
Vi ringrazio per l'attenzione, alla prossima!
-Joice