Dalla
stessa parte
Ci sono persone disposte su due
lati e un passaggio libero al centro, come se quello fosse un matrimonio, come
se fosse una celebrazione d’amore e non di morte.
Eccetto che l’amore c’è comunque,
negli occhi lucidi dei familiari di Fred Weasley, nell’abbraccio degli amici,
nella postura contratta dei conoscenti. E c’è Astoria, che ne ha troppo nel
cuore e non più in grembo.
Si è accomodata dalla stessa
parte del gemello del defunto, ma più in fondo. Non l’ha scelto, ha
semplicemente scorto una chioma rossa tagliata alla stessa maniera e l’ha
seguita come un miraggio. Non ha avuto necessità di raggiungerla, però: si è
accorta alcune file di sedie prima che quei capelli, identici ai suoi,
non hanno niente di familiare. Non ci ha passato le dita nel mezzo di una
confessione d’amore, non li ha strattonati durante un incastro di carni e
cuori. George Weasley ha un orecchio che è una ferita di guerra e di vita, e per
Astoria è un promemoria non necessario del fatto che è solo uno sconosciuto
nelle sembianze della persona che l’ha conosciuta più di tutti – nella mente
nuda e nelle sue direzioni impreviste.
Daphne si è proposta di
accompagnarla, silenziando la propria disapprovazione. È stata il suo appiglio,
quando Astoria ha perso il cielo in cui brillare.
Non le è rimasta che terra
fredda. Tra arbusti che fanno troppa ombra, sotto i piedi di maghi che non
hanno cullato nel ventre una parte dell’uomo che piangono, il suolo inghiotte
quel che resta di Fred Weasley.
Astoria non si alza, mentre gli
altri vanno via. Non li guarda negli occhi, molti non sanno nemmeno chi lei sia
e che ci faccia lì – il privilegio del cognome dei Greengrass, erba pulita in
tempi di guerra e di pace, mai una presa di posizione troppo netta.
L’uomo che è Fred ma non è Fred
le si siede accanto. Allunga un palmo, lo trattiene, si irrigidisce.
È la sua voce che, infine,
le parla. «La famiglia era più avanti.» Accenna con il capo alle prime file.
«Io non sono di famiglia.»
Astoria scioglie le mani che ha tenuto incrociate sul grembo per tutta la
durata della cerimonia funebre.
George intreccia le dita alle
sue. Sono calde, gentili e conosciute.
«Se avesse avuto la possibilità
di scegliere le sue ultime parole, mi avrebbe chiesto di prendermi cura di te.
E del bambino.»
Astoria guarda davanti a sé.
Inspira, espira: c’è profumo di fiori. «Non c’è nessun bambino.» È riuscita a
dirlo senza mostrare occhi lucidi e una voce spezzata.
Avverte lo sguardo dell’uomo – sarebbe
stato uno zio – sul profilo del proprio volto. Lo sente sospirare. «Quando
è successo?»
«Il due maggio.» La notte in cui
non è scivolato via solo Fred.
George le sfiora la mano con le
labbra. Anche le sue guance sono umide; Astoria si domanda se possa distinguere
sul dorso il sapore salato delle lacrime che ha strofinato via. «Voglio
comunque prendermi cura di te, di qualunque cosa tu abbia bisogno.»
«Non puoi fare niente.»
Strattona il braccio, meno
gentile del suo conforto, e scompare.
***
Quando si incontrano sono completamente
soli, a eccezione di un uccello che starnazza da un ramo e copre i suoi
singhiozzi. Astoria si chiede se sia sempre il solito, se, come le sue lacrime,
abbia eletto quel cimitero a dimora ogni due del mese.
Lei e George non si sono mai dati
appuntamento, ma non ne hanno mai mancato uno, nello stesso giorno e alla
stessa ora dell’incantesimo mortale che ha congelato l’ultima risata dell’uomo
che ognuno ha amato come una parte di sé. Sono dalla stessa parte del
lutto, nascosta e inarrivabile.
Cade in ginocchio e con le dita
sfiora un nome e un cognome, graffia due date separate da un’insopportabile
manciata di anni. L’uomo al suo fianco si piega sulle gambe per portarsi alla
sua altezza e le fa ritirare la mano, quando lei arriva a premere sulla pietra
aguzza al punto da ferirsi un polpastrello. Una goccia scarlatta macchia il
candore della lapide lucida: è sangue puro, e malato, e per suo figlio
l’avrebbe versato ma questo è solo vano.
George la attira a sé e Astoria
seppellisce tutta se stessa – il cuore ingiustamente battente, doveva essere
lei quella condannata a una vita breve – nel calore delle sue braccia. Il corpo
che ha accolto i suoi pianti, negli ultimi tempi, è anche quello che piange.
Piange gli stessi capelli del colore di un bacio al tramonto, gli stessi occhi
attenti e la voce... Piange, e li ritrova.
Inclina il viso verso l’alto per
incontrare uno sguardo altrettanto afflitto; con un dito segue il tragitto di
una lacrima, dal solco scuro sotto le ciglia a una guancia all’angolo della
bocca. Incornicia tra le mani quel volto insopportabilmente e meravigliosamente
indistinguibile dai ricordi più vividi, pure dietro una patina di pianto a
offuscarle la vista. «Sei uguale a lui.»
«Non lo sono.»
Non serra le palpebre, nel
tentativo di mantenere immortale l’immagine perduta del volto di Fred, mentre
posa la bocca su quella di George. Sfiora, accarezza, preme.
Un istante dopo lui le prende i
polsi e separa le loro labbra, ma congiunge le fronti. «Astoria» la ammonisce.
«Ti prego.»
«Io non sono Fred.»
«Hai detto “di qualunque cosa tu
abbia bisogno”. Sto parlando a te.» Non a Fred, ma non ne pronuncia il
nome ad alta voce.
Non ha abbastanza vita davanti a
sé per provare rimorso.
Si porta le sue mani sui fianchi.
Lui stringe, un sospiro è una resa e guida una Smaterializzazione Congiunta per
un luogo che non ha importanza.
Astoria non è mai stata nella
camera da letto di George Weasley, nell’appartamento che divideva con il
fratello, ma non si preoccupa di studiarne l’arredamento. Si muove solo per
imprimere nuove memorie come fuoco rovente. Se lo guarda ovunque meno che sul
profilo sinistro, lui è Fred – nella bocca, sul torace, tra le gambe. George
lascia che lei lo spogli anche dei vestiti, per ritrovarlo uguale al suo amore
perduto in una nuda menzogna.
Astoria presta un’attenzione
maniacale all’esecuzione dell’incantesimo contraccettivo, perché dentro di sé
non vuole altro che piacere senza conseguenze, nessuna eredità di carne. George
prende il suo corpo, insopportabilmente gentile, ma è il suo gemello che ha
avuto il primo sangue versato senza dolore – e l’ha voluto, pure malato.
***
È di nuovo il due maggio e lui
non si è presentato.
L’ultima volta, tra lenzuola
fredde e stropicciate come lei, George ha implorato “basta”, ma Astoria non gli
ha creduto. Lui ha ribadito che doveva cercare una conclusione, ma lei ha
pensato che non gliel’avrebbe permesso. Loro due sono dalla stessa parte del
tormento, quella che resta immobile e non è scalfita dal tempo.
Guarda la lapide solitaria – solo
loro si recano a visitarla a quell’ora impossibile – e stringe i pugni. È
l’anniversario, e come osa George Weasley mancare all’appuntamento che
non hanno mai fissato?
Un brusco respiro è il tempo
necessario a decidere di Smaterializzarsi. Non la lascerà da sola a piangere il
primo anno trascorso senza l’amore, nei due modi in cui l’ha conosciuto e
perduto quella notte.
Dall’esterno l’appartamento è
silenzioso e ordinato, ma è poco distante il trambusto che anima la via altrimenti
avvolta dal calare del buio. Astoria scansa un gruppo di curiosi e le parole
che strappa alle loro chiacchiere sono sufficienti a rendere il flusso del
sangue una vorticosa processione senza direzione.
Il negozio per cui Fred l’ha
lasciata a Hogwarts, il lavoro per cui la lasciava dopo ogni incontro,
l’eredità che George non ha lasciato esaurire, non esiste più. Un cumulo di
macerie e nubi di polvere scura. Neanche l’insegna con il loro cognome – lo
stesso che avrebbe avuto un bambino mai nato – è rimasta in piedi.
Un’esplosione, sussurrano. Un
esperimento andato male, ipotizzano. Una disgrazia, commentano.
Non è rimasto nemmeno un cadavere
integro da infossare nella stessa terra che oscura il sonno mortale del suo
gemello. Le braccia che Astoria ha perduto e creduto di ritrovare in un inganno
non esistono più.
Le gambe sembrano diventate
incapaci di reggerla, per puro sforzo di volontà non crolla sulla pietra.
Accanto alla punta di una scarpa giace un frammento di un mattone dal colore
troppo vivace per Diagon Alley.
Astoria trattiene con le unghie
sulla gola l’urlo che minaccia di erompere dagli argini del suo autocontrollo. Seppellisce
in un basso gemito l’interrogativo che non smetterà di tormentarla nel resto
dei giorni che la malattia le concederà di vivere. Dal lato opposto di un muro
di pianto che separa i vivi dai morti, George era davvero solo impegnato perché
il lavoro del fratello non sfiorisse come il corpo? Oppure si è concesso la
deliziosa disattenzione con cui raggiungerlo dalla stessa parte?
Ha sempre saputo di non essere
destinata a lunga vita, ma perdere un Weasley al prezzo di due non l’aveva
preventivato. Prima di abbandonare il proprio corpo su un giaciglio imbrattato
di sangue malato, è stata abbandonata da Fred e dalla sua ombra, l’uomo che era
Fred ma non era lui.
Una piccola strega ricurva, con
finissimi capelli di neve, si sofferma sulle sue lacrime. Le offre un
fazzoletto in una mano rugosa e gentile. Troppo candore: è il due maggio ed è
primavera, ma da un anno è una stagione di rami spogli e alberi avvizziti.
«Lo conoscevi, cara?»
Astoria volta le spalle
all’ennesimo addio che non ha dato.
Stringe le palpebre, inclina la
nuca. Non si vedono stelle in cielo.
«No. Conoscevo un’altra persona.»
Note:
Volendo restare in tema di
citazioni musicali, come nel primo capitolo, il titolo “Dalla stessa parte” è
un verso di Sempre e per sempre di De Gregori.
In questo capitolo le
interazioni tra George e Astoria prendono una “direzione imprevista” quantomeno
controversa, ma penso al fatto che, nel canon, George finisce per sposare
Angelina Johnson, che è stata proprio una frequentazione del gemello. (La cosa
mi lascia sempre un po’ perplessa, a essere onesta, ma se non disturba loro!)
Grazie per la lettura!
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