Focus on me

di DonVito009
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Il silenzio assoluto porta alla tristezza; è l'immagine della morte.

Affossato dalla solitudine, sputato in una strada buia, sporca come lui, Arthur si domandava cosa ancora lo spingesse a continuare su un cammino tanto dirottato. Molto probabilmente, quella sera, se avesse avuto la pistola carica, non si sarebbe fermato dal piantarsi una pallottola in gola.

Doveva accontentarsi e marciare isolato dal mondo. Quella sera non sarebbe morto, chissà, forse domani o dopodomani sì. 

- Starò bene un giorno, solo che oggi non è quel giorno. -

Iniziò a camminare verso casa, strisciando tra le stradine buie del Bronx. I capelli impolverati coprivano gli occhi arrossati per mancanza di sonno. Il corpo alto e pallido risultava cadaverico, tanto da trasmettere una sensazione di pietà ogni volta che lo si vedeva. I vestiti consumati nascondevano la profonda scritta "tueur" sull'addome, disegnata con il coltello di chi un tempo aveva chiamato amico. Quel corpo così fragile, impregnato di differenti tatuaggi come a mascherare ogni singola lesione subita, ormai non riusciva più a sostenersi. 

Quella sera entrò nel mirino di due giovani studenti. Erano riposti su delle scale antincendio, intenti forse a parlare, ad ammazzare il tempo che appariva così pensante da quelle parti. Lo videro; non c'era nessuno nei dintorni. Apparve alla loro vista come il momento perfetto per divertirsi, sentirsi grandi, perché dentro quel quartiere, il solo modo di apparire, era quello.

Raccolsero la mazza da baseball gettata per terra, tanto consumata da non riuscire più a leggere le scritte poste sopra. Dentro gli occhi di quei studenti si riusciva a notare quanto si sentissero euforici all'idea della violenza. Qualcuno, quella sera, avrebbe dovuto intervenire.

Arthur non fece nessuna resistenza, assumendo ogni colpo come fosse abitudine. Dentro la sua testa pensava, anche quando era steso a terra, con la faccia compressa contro il cemento sporco della strada, lui pensava. Si chiedeva se realmente desiderava di morire, e se sì, quella appariva come un'opportunità. Percepiva il sangue colare dalla testa, togliendoli la possibilità di vedere attraverso l'occhio sinistro. Ad ogni colpo la percezione di dolore diminuiva, lasciando spazio a quell'ira nascosta dietro un carattere apatico. 

Qualcuno, quella sera, avrebbe dovuto intervenire. 

Indossò l'orologio intorno alle nocche, alzandosi con estrema difficoltà. La sua mente appariva cento volte più forte del suo corpo. Non guardò in faccia i due ragazzi, perché se avesse notato quanto fossero giovani, molto probabilmente si sarebbe fermato prima. Barcollò nell'istante in cui colpì in viso lo studente con la mazza, facendolo cadere all'indietro. Piantò la pianta del piede sopra il suo viso, spingendolo a percepire la stessa sensazione del cemento lercio. Tanto era la rabbia dal deviarlo nel vedere il secondo impaurito, intento ad arrendersi. Non bastarono le lacrime e il pianto dal fermare Arthur, che ad ogni colpo si imbrattava le mani di sangue. L'orologio si ruppe, lasciando cadere le schegge sul viso gonfio e insanguato di quel giovane ragazzo di appena diciassette anni, la cui fortuna lo aveva abbandonato nel momento della sua nascita.

Rimase il primo, ancora con il viso a terra. Stava chiedendo perdono, con una voce morta, tremolante. Le lacrime gli consumavano gli occhi. Stava realizzando quanto facesse paura la morte, così vicina quella sera.

Arthur lanciò lontano l'orologio, pulendosi la scia di sangue che continuava a scendere imperterrita. Era così lontano dall'essere umano, così tanto sprofondato nella disperazione, che come se nulla fosse, tornò a camminare lungo la strada buia e silenziosa. 

Si chiamava Arthur Chandler, venticinque anni, nato a Manchester. Viveva nel Bronx da sette anni, in un appartamento troppo grande per una persona tanto sola. Non possedeva amici, e la sua unica conoscenza era la studentessa di psicologia Frances Garner. Queste erano le sole informazione che la polizia di New York possedeva al riguardo. Era tenuto d'occhio in particolare dell'ispettore Hank Holt, veterano quanto figura più lontana dal poliziotto.

Quella sera era lì, in macchina, distante qualche metro, a ridere dinnanzi a quello spettacolo. 

- Pari posseduto dal Diavolo, mio caro Arthur. Ti attacchi alla vita con tutte le tue forze. - Uscì dall'auto sbuffando, tirando fuori il telefono per chiamare i soccorsi medici. Era irritato; odiava salvare gente di quel topaio. 

Si presentava come un uomo di età avanzata. I capelli erano grigi ai lati, accorciati in una pettinatura particolarmente giovane. I suoi occhi rappresentavano magnificamente la sua persona; socchiusi, freddi e carichi di odio. Incuteva paura, sia per l'altezza particolarmente alta che per il corpo grosso ed imponente. Lo si percepiva subito che l'ispettore Holt non era la persona adatta con cui scherzare.

Si appoggiò alla macchina, tirando fuori una delle Winston blu che tanto non riusciva ad abbandonare. Possedeva un modo bizzarro di fumare; teneva la sigaretta perennemente in bocca, spesso dimenticandosi di averla. Lo aiutava a pensare, quasi fosse un rito sacrosanto che doveva fare ogni volta che seguiva un'indagine.

Da sette anni, Hank Holt cercava di dare risposta ad una sola domanda: cosa aveva spinto un giovane ragazzo d'Inghilterra a immischiarsi con la criminalità americana.





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