Sono
passati quasi undici anni dall'ultima volta che sono stata qui.
Allora ero solo una bambina, una ragazzina di dodici anni che non si
immaginava nemmeno che di lì a pochi mesi sarebbe stata
travolta
dalla valanga nota come "adolescenza".
Bei
tempi, quelli. Si fa per dire, eh: in realtà non mi mancano
affatto.
Non mi capita spesso di ripensare agli anni in cui la mia vita
è
andata a rotoli, quando la magia dell'infanzia è andata in
mille
pezzi e la vita reale è venuta a bussare alla mia
porta con la
scortesia che la contraddistingue.
Ma
va be', è acqua passata... o almeno mi piace pensare che sia
così.
Quest'anno la mamma ha deciso di tornare a San Tommaso mossa dalla
nostalgia dei tempi andati e io ho deciso di seguirla. È la
prima
volta che sento davvero il bisogno di allontanarmi dalla
città,
almeno per i mesi estivi. Sì, è colpa della
calura, ma non solo.
Questo è stato un anno strano. Ho finalmente concluso il
percorso di
studi che mi ha permesso di avere in tasca una laurea triennale in
Lingue e Letterature straniere e ho come la sensazione che una parte
della mia vita si sia conclusa.
Io
andrò avanti a studiare, resterò nella stessa
facoltà che mi ha
accolto per gli ultimi tre anni, ma le altre... le altre no.
C'è chi
cambia ateneo, c'è chi va a lavorare, c'è chi
parte per
un'avventura all'estero. E c'è anche chi si sposa, come
Emma. Pazza.
Come diavolo si fa a sposarsi quando non si hanno nemmeno
ventitré
anni? Sinceramente mi sembra un suicidio. Un modo per buttare nel
gabinetto gli anni migliori della propria vita e tirare lo
sciacquone. Io non la capisco. Non riesco nemmeno a immaginarmi di
avere un ragazzo serio, figuriamoci se riuscirei a
sopravvivere
con un marito, magari con dei figli. Mi vengono i brividi solo a
pensarlo.
Rabbrividisco
davvero, mentre cammino sulla strada sterrata che profuma di erba e
di sole. È impressionante vedere quanto poco gli anni
abbiano
cambiato questo posto: è praticamente rimasto uguale a come
me lo
ricordavo. I miei piedi calzati in un paio di vecchie scarpe da
ginnastica sollevano nuvolette di polvere bianca che mi si appiccica
alla pelle, ricoprendomi fino al ginocchio in una specie di patina
grigiastra che dovrò lavare via al più presto.
Quand'ero bambina me
la trovavo fino in bocca.
Cammino
sola, ma è come se accanto a me ci fossero le ombre dei
ragazzini
che un tempo mi accompagnavano. Sandra, Michele, Giovanni e Letizia.
A volte Matteo, ma solo ogni tanto, perché i suoi genitori
erano
troppo apprensivi per permettergli di scorrazzare a piede libero come
facevamo noi. Chissà che fine ha fatto. Chissà
che
fine hanno fatto: non ho
più avuto notizie di
nessuno di loro. Magari abitano ancora da queste parti.
In
realtà non ho voglia di incontrare nessuno: questa estate la
voglio
dedicare solo a me. A settembre dovrò tornare in
città e riprendere
gli studi, dovrò ricostruirmi un nuovo nido in un nuovo
appartamento, magari più piccolo dell'ultimo che ho
affittato, se
possibile senza coinquilini, ma fino ad allora non voglio pensare a
nulla se non a me stessa.
Il
fatto è che ho bisogno di ricaricarmi un po'. Mi sento
spossata,
vado a letto esausta e mi sveglio stanca. Le giornate mi sembrano
opache e ripetitive, prive di interesse e di colore. A volte ho la
sensazione di guardare la mia vita dall'alto, di assistervi senza
esserne veramente la protagonista. Mia madre sostiene che sia colpa
dello stress legato alla tesi che ho sostenuto pochi mesi fa, ma io
mi chiedo se il problema non sia un altro. Google mi
dice che i miei sintomi sono riconducibili a una forma d'ansia,
magari anche a una leggera depressione, ma la verità
è che io mi
sento in attesa: di cosa, non sono certa di saperlo.
Sempre
mia madre - l'unica persona che mi è abbastanza vicina per
potersi
permettere di darmi consigli in merito - sostiene che dovrei trovarmi
un hobby o almeno un ragazzo. Più facile a dirsi che a
farsi. Io li
hobby ce li ho: mi piace leggere, scrivere, fare fotografie, ma
ultimamente anche queste cose mi sembrano solo un modo inutile per
passare il tempo. Il ragazzo ce l'avevo, ma ci siamo lasciati poco
dopo Natale: le cose non funzionavano più già da
tempo. Stavamo
insieme per abitudine, senza provare più amore né
tenerezza. Non
rimpiango Stefano e lui non rimpiange me, ne sono certa.
Però,
a volte...
Ecco,
il fatto è che a volte ho l'impressione che il tempo passa e
invece
che andare avanti io vado indietro. So che non dovrei fare dei
paragoni con gli altri, so che ognuno cresce con i propri tempi, ma
ci sono dei momenti in cui non posso fare a meno di pensare che le
mie amiche siano scappate avanti e mi abbiano lasciato ferma al palo.
Io
non ho mai lavorato, se escludiamo qualche lavoretto estivo di poco
conto. Durante l'anno accademico vivo da sola, sì, ma
l'appartamento
me lo paga la mia mamma. Non ho mai avuto una storia seria e il solo
pensiero di averla mi fa girare la testa. Io non mi sento pronta. Non
mi sento pronta a decidere cosa farò da grande e non mi
sento pronta
a pensare di farmi una famiglia tutta mia. Non posso immaginare di
passare quello che mia madre ha passato per colpa di mio padre. Non
riesco a vedermi con un neonato in braccio. Riesco a malapena a
essere responsabile per me stessa, figuriamoci se potrei esserlo per
altri.
Ci
sono giorni in cui mi chiedo se in me ci sia qualcosa di sbagliato.
Ma forse sto solo ricadendo nella mia vecchia abitudine di rimuginare
troppo sulle cose. È per questo che mi serve questa estate:
per
schiarirmi le idee. E poi, anno nuovo, vita nuova. Più
consapevole.
Più sicura di me. Più adulta. Più...
Basta.
Ci sto ricascando. Ho bisogno di resettare la mia mente e so anche
qual è il posto perfetto per farlo.
Il
sole di questa giornata di inizio luglio è fin troppo caldo
per i
miei gusti, ma so che dove sto andando mi aspetta una deliziosa
brezza che sa di acqua dolce e di fiori di ginestra. Sono le due del
pomeriggio, un orario in cui le persone sane di mente se ne stanno
rinchiuse in casa o adagiate all'ombra di un albero o di un
ombrellone, e la strada è tutta mia. Ho incontrato solo un
signore
che portava a passeggio un cane e due impavidi ciclisti, e sono
sicura che giù al fiume non ci sarà nessuno:
quello in cui sto
andando non è un buon posto per pescare.
Anche
se sono passati molti anni dall'ultima volta che l'ho percorsa, i
miei piedi ricordano perfettamente la strada e i miei occhi
riconoscono tutti i segnali naturali che mi indicano il percorso.
Ecco la curva dove una volta sono caduta pedalando troppo
velocemente, ecco l'albero marcio (è un miracolo che sia
ancora in
piedi) che da bambina mi sembrava un gigante mostruoso, ecco il masso
che nasconde il sentierino che porta sulla riva del fiume. Sono
arrivata.
Al
di là del ciglio della strada l'erba è alta e
all'improvviso mi
raggiunge l'odore intenso delle ortiche. Sorrido: solo in questo
momento mi accorgo di averne sentito la mancanza. Le ortiche, con il
loro fusto urticante, sono state una presenza fissa nelle estati
della mia infanzia e adesso mi sembra quasi che mi stiano dando il
benvenuto, sorridendomi come delle amiche un po' stronze che quando
ci sono ti punzecchiano, ma che quando non ci sono ti mancano.
Non
mi mancano abbastanza per fargli di nuovo fare conoscenza con i miei
stinchi, quindi mi muovo con cautela, facendo bene attenzione a dove
metto i piedi. Come immaginavo, il sentiero è poco
frequentato:
l'erba che lo ricopre è appena calpestata da qualcuno che
dev'essere
passato da queste parti questa mattina o magari ieri pomeriggio. Alzo
appena lo sguardo e vedo il fiume scintillare al di là delle
betulle
e degli ontani che crescono sulla riva.
Mi
scopro di nuovo a sorridere e ad allungare il passo. L'angolino di
prato ombreggiato sul quale ho passato tanti pomeriggi con i miei
amichetti di un tempo è proprio là, a poche
decine di metri da dove
mi trovo ora. Già sento sotto ai miei piedi l'erba fresca,
già mi
pare di vedere, oltre le mie palpebre chiuse, il gioco di luci e
ombre delle foglie mosse dal vento. Magari schiaccerò un
pisolino.
Magari resterò sveglia a fantasticare o a non pensare a
niente o a
sognare la trama di un nuovo racconto. Magari...
I
miei sogni vanno in frantumi all'improvviso. Il mio posto, il mio
angolino di fiume, il fazzoletto di terra sul quale avevo in
programma di fermarmi per ricaricare le batterie è
già occupato. Il
cuore mi balza in gola e lo stomaco mi si stringe in una morsa
oltraggiata. La mia prima reazione è la rabbia. No,
seriamente: la
mia cassa toracica si gonfia in un respiro bellicoso e per un istante
sono tentata di andare dall'invasore e di dirgli di levare
immediatamente le tende. Il che è ridicolo, visto che questo
posto
non è più mio che suo, però questo non
toglie che ci sono rimasta
male. Molto.
Il
tizio che mi ha appena rovinato il pomeriggio (forse l'intera estate,
sussurra la vocina pessimista che risiede nella mia testa) se ne sta
appallottolato a pochi passi dalla riva del fiume, la testa
incastrata tra le spalle e lo sguardo perso tra i flutti. O almeno
immagino che lo sguardo sia perso tra i flutti: non ho modo di
saperlo, visto che mi dà le spalle.
Indugio
per un istante, indecisa se girare sui tacchi (silenziosamente, per
non dare l'impressione di essermi data alla fuga appena l'ho visto) o
se invece scendere fino al fiume per dare comunque un'occhiata al mio
santuario rovinato. Vince la seconda opzione. E che diavolo: sono
venuta fino a qui, tanto vale almeno respirare l'aria
di quell'angolo di fiume che mi piace tanto.
Cerco
di farlo con nonchalance, senza guardare l'intruso, ma il mio sguardo
ricade inevitabilmente su di lui. È sempre così,
quando vedo
un'imperfezione su qualcosa che sarebbe altrimenti perfetto.
Che
poi, adesso che lo guardo bene, questo tizio mi sembra decisamente
fuori luogo: è luglio, ci saranno trenta gradi e lui se ne
sta
seduto per terra con addosso un paio di jeans e una camicia a maniche
lunghe. Da dove è sbucato? Cosa diavolo ci fa qui, uno
vestito in
questo modo? La gente del posto se ne va in giro in maglietta e
pantaloncini, la sua eleganza spicciola mi sembra quasi ridicola.
Dove crede di essere?
I
miei passi devono richiamare la sua attenzione e il tizio si volta.
Mi guarda e io vedo che è più vecchio di quanto
mi aspettassi: la
sua postura e i suoi capelli un po' lunghi e spettinati mi avevano
fatto pensare a un ragazzo della mia età, ma in
realtà credo che
quest'uomo sia sulla trentina. Ci sono alcune rughe attorno ai suoi
occhi scuri e il suo volto tradisce una certa maturità.
Esito
per qualche secondo. Non è abbastanza giovane
perché io lo possa
approcciare come farei con un mio coetaneo, ma non è
abbastanza
vecchio perché io lo saluti come farei con un coetaneo di
mia madre:
la sua è un'età di mezzo che mi confonde e che mi
innervosisce un
pochino.
Mai
quanto i suoi occhi neri, però, che mi seguono con
insistenza. Sul
suo volto pallido - in verità piuttosto anonimo e, mi
sbaglierò, ma
mi pare che abbia il naso storto - si disegna un'espressione che mi
sembra quasi infastidita.
Be',
ciccio, pure tu mi stai disturbando, penso, gettandomi i
capelli
dietro le spalle e spostando risolutamente lo sguardo sul fiume.
«Buongiorno»
mi apostrofa. Ha una voce profonda, direi piacevole. Non riesce a
nascondere una tensione di fondo: sì, è
decisamente infastidito
dalla mia presenza.
«'giorno»
replico io dandogli le spalle e osservando l'acqua che scorre. Anche
se non lo guardo, ho come l'impressione che i suoi occhi siano ancora
fissi su di me e all'improvviso mi ricordo che i pantaloncini che
indosso sono un po' troppo corti. Nulla di scandaloso, ma l'orlo mi
arriva appena sotto il sedere. Sono comodi, perfetti per camminare
nella calura estiva, ma ora le mie mani prudono per afferrarli e
abbassarli un pochino nel tentativo di nascondere almeno un
pezzettino di coscia.
Non
farlo, mi dico. Non c'è nessun
motivo di fargli vedere
di che colore hai le mutande, e poi sono sicura che non ti stia
guardando il culo. O almeno spero.
Resisto
per meno di un minuto. Il tizio in camicia non dice una parola, non
produce un singolo rumore, ma io avverto la sua presenza simile a una
vibrazione elettrica e pulsante alle mie spalle. Chiudo gli occhi e
conto fino a dieci, poi esalo lentamente. Va bene, ho marcato il
territorio: adesso posso andarmene.
Lancio
un ultimo sguardo all'acqua placida e turchese che scorre davanti a
me, guardo la sabbia argentea nella quale non ho potuto affondare i
piedi, accarezzo con gli occhi le foglie che vibrano smosse da una
brezza leggera. Tornerò presto,
prometto al mio angolino
di fiume, poi mi dirigo di nuovo verso il sentiero che mi
condurrà
alla strada.
«Arrivederci»
mormoro rivolta all'uomo in camicia, ma lui non mi sente, oppure
finge di non farlo.
Poco
male, penso: più che un arrivederci, il mio voleva
essere un
addio.
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