EXARION - Parte II: Eco di Sirene

di KaienPhantomhive
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17.

Il Monarca Bianco

 

Un’interminabile processione parte dall’inizio di Selborne Street e si snoda lungo tutta la via, fino alle porte della grande sinagoga in mattoni rossi di Princes Road.

Aaron Alford, in un ricco abito di un bianco candido con un fiore rosso all’occhiello.

Mille sagome nere formano un corridoio fino alla sinagoga; le teste sono macchie confuse, come nebbie sfuocate o scarabocchi isterici di una matita spezzata. Risate maligne.

Oltre il massiccio portone moresco il corteo prosegue all’interno della chiesa inondata della luce del rosone, fino all’altare. Una ragazza dai capelli azzurri e dal viso bendato a metà si lascia superare senza voltarsi.

Un accordo è stato stretto, un Desiderio è stato espresso, senza bisogno di parole.

Lui raggiunge la tomba di marmo che ha preso posto dell’altare. Sopra sono state disposte due spade bianche incrociate, una stola ripiegata dello stesso colore ed una corona d’argento. Protende una mano verso quella composizione ed è una mano sporca di sangue.

 

/   /   /

 

Circa due mesi prima.

Centro di Controllo Esecutivo, Agenzia Speciale ECHELON, Contea di Santa Clara; California; Austramerica.

 

Primi piani del volto di Aaron si alternavano a riprese dell’intera saletta insonorizzata in cui si trovava. Sedeva a un tavolo insieme ad una coppia di mezza età – uomo e donna – e a quello che altri non poteva essere se non il principe ereditario d’Inghilterra, dietro il quale svettava una nerboruta guardia giurata e un’altra donna, in tailleur, con in mano una cartellina per gli appunti. La coppia seduta accanto al ragazzo era visibilmente emozionata di parlare a tu-per-tu con un Reale e pareva sforzarsi di incitare lo stesso tipo di sentimento anche in Aaron, che si limitava però a tenere gli occhi bassi, vacui, e a mormorare brevi frasi non udibili in video.

 

“Quindi sarebbe lui l’altro Meister?” – chiese il Capitano Andrea McCoy, china sul tavolo luminoso sul quale era riprodotta la registrazione, insieme a copie virtuali di altri documenti.

“Non ci sono dubbi.” – anche Rajesh Khurana si trovava in quell’ufficio – “La perizia psicoanalitica ha confermato che anche le caratteristiche del suo sogno sono analoghe a quelle degli altri.”

“Dio mio.” – Andrea schioccò la lingua, tirandosi su – “È solo un ragazzino.”

“Ma è anche per questo che stiamo lavorando al modello artificiale, no?”

“Come se questo potesse esimerli davvero.” – la McCoy esaminò gli altri documenti sul tavolo luminoso, disposti ordinatamente per un raffronto veloce. Erano scansioni di tre schede identificative, tutte contrassegnate in alto dall’inconfondibile logo a cinque occhi: ECHELON. C’erano un mucchio di informazioni doviziosamente riportate nelle apposite sezioni del form – tra dati anagrafici, comportamentali e previsionali – ma il suo sguardo si soffermò sui mezzi busti delle persone fotografate e l’elenco puntato di anagrafica essenziale che le accompagnava. La prima era una ragazza dai capelli tinti di magenta, ritratta frontalmente con un’espressione molto seria: Nataša Novikov, data di nascita 23 Maggio 2029, Russia. Seguiva un’altra giovane donna, dai tratti somatici orientali particolarmente belli: Nang Jun-Hee; nata il 18 Aprile 2023; Corea del Sud. E da ultimo lo stesso ragazzo dall’aria dimessa del video: Aaron Alford; 5 dicembre 2033; Regno Unito.

“È comunque meno deplorevole che esaltarsi perché il proprio figlio è stato scelto per un programma militare segreto.” – aggiunse Rajesh, arricciando la bocca alla vista della coppia seduta accanto ad Alford.

La McCoy scosse la testa e con un gesto della mano allontanò le schede sul tavolo touch screen, spostandosi su delle riproduzioni di fotografie, che ingrandì con un pizzico dell’indice e pollice.

Quattro foto un po’ fuori fuoco ma ancora abbastanza nitide da far riconoscere il soggetto: un ragazzino poco più giovane di Aaron, dai corti capelli scuri. Era stato colto palesemente a sua insaputa e lo si vedeva seduto al parco insieme a una ragazza probabile sua coetanea, sull’uscio di casa intento a richiudersi dietro la porta, su una gondola veneziana in compagnia del gondoliere e poi in mezzo a una piccola folla riunita davanti a un portone sul quale campeggiava a caratteri cubitali la scritta ‘FASCI MAIALI’, in vernice spray.

“E di lui che mi dite?” – chiese.

“Non siamo ancora riusciti a individuare la Siren, ma continuiamo con le ricerche.” – rispose uno di due uomini dell’Agenzia Speciale, dall’altra parte del tavolo.

“Stategli addosso.” – concluse lei, senza distogliere gli occhi da quelle foto – “Di certo si farà viva per il Risveglio della Machine.

 

*   *   *

 

26 Agosto.

Venezia, Italia.

 

Nei giorni a seguire dal loro primo incontro, il rapporto tra Màrino ed Aaron si era andato stringendo. Le prime uscite sporadiche si fecero frequenti, fino ad incontrarsi ogni giorno, facilitati dalla frequentazione della stessa scuola. Aaron si rivelò essere per Màrino un compagno insospettabilmente piacevole e anche la barriera linguistica si andò sempre più assottigliando. Sebbene Aaron avesse presto imparato ad apprezzare la cortese riservatezza del suo amico, aveva maturato una certa curiosità su alcuni aspetti della sua vita, pur non osando mai chiedere più di quanto non fosse lui stesso a raccontargli: era convinto che Màrino non volesse svelare qualcosa di grigio celato nel suo cuore, ma non riteneva giusto spronarlo a farlo.

Ed in questo modo – nella tiepida discrezione dei loro rapporti – procedevano i giorni, tra la noia interminabile delle lezioni e l’attesa del potersi rivedere il pomeriggio. Pomeriggi che avevano il colore turchese dei canali della città, lo scintillio del sole sulle increspature dell’acqua e il calore delle pareti ricamate dei caffè barocchi di Venezia. Il silenzio assordante che si era impadronito della vita di Màrino iniziò squarciarsi, lasciando filtrare spiragli di luce e musica. Spesso Aaron si lasciava ascoltare e osservare durante le sue prove al violoncello e a Màrino sembrava che il miracolo della vita prendesse vita al muoversi di quell’arco sulle corde. Come era possibile che ci fossero persone in grado di produrre suoni tanto meravigliosi? Un paio di volte, spinto dalla curiosità, si lasciò convincere a provare una viola per un duetto decisamente strimpellato e goffo, ma la musica non era più piacevole delle loro risate.

Anche Sara De Bortoli era finalmente stata dimessa e da due si era passati in tre. Adesso la felicità era all’angolo di una viuzza storica non esplorata o in un gelato consumato su un ponte sul Canal Grande. Piedi scalzi correvano su una spiaggia nel Sole delle cinque e mani si ferivano nell’arrampicarsi su uno scoglio per respirare un tramonto che profumava di salsedine. Il sudore e la fatica non esistevano più e i compiti delle vacanze non erano una tortura. Se Aaron non aveva in programma di lasciare l’Italia e se Sara era con loro, i granelli di sabbia che restavano tra le pagine dei libri valevano più dell’oro e perfino la guerra di cui parlavano gli adulti sembrava solo una fantasia.

E così, tra un Canone di Bach e una canzone di Tommaso Paradiso, l’estate volse agli sgoccioli così com’era arrivata. Aaron cominciò a sentirsi sempre meno smarrito in quella nuova città dai segreti nascosti tra i vicoli e a Màrino sembrò che le cose, dopo tanto tempo, potessero migliorare.

 

Era una giornata come tante altre già trascorse e anche questa volta il loro bighellonare li aveva riportati al fresco della casa di Màrino, dove lui si era lasciato cascare sul divano dissestato. Aaron aveva avuto il coraggio di addentrarsi nel regno della cucina di casa Alto, sbirciando tra mensole e frigorifero in cerca di qualcosa di rinfrescante che andasse oltre il solito gelato.

“Ma qua ci sono solo schifezze?” – aveva esclamato, alla vista dell’ennesimo pacchetto di snack e bibite gassate.

Ma ora che avevano preso una certa confidenza, Màrino sentì il bisogno di ignorare il commento e porre una domanda che lo tormentava dal primo giorno in cui si erano visti: “Senti, stavo pensando…a una cosa.”

“Cosa?” – Aaron richiuse sconfortato il frigo.

“È un cosa un po’ stupida, ti avverto.” – la domanda non era delle più felici e sperò che l’amico non si offendesse troppo.

“Ok.”

Màrino soppesò ogni parola, come se dovesse scegliere le meno peggio da un vocabolario di soli termini imbarazzanti: “A voi ragazzi…ehm, ebrei…fanno ancora…quella cosa?”

“Cosa?”

“Si dai…quello. Voglio dire, tu hai il…ehm…”

“Che stai dicendo?”

Màrino era diventato paonazzo nel provare a mimare la parola: “Si insomma…dai, hai capito, no?”

E piegò la testa in direzione dell’inguine di Aaron.

Aaron rimase dubbioso per un momento poi l’illuminazione arrivò e le sue guance avvamparono al limite della fosforescenza: “What the f-! Non sono affari tuoi!”

“Non hai negato, quindi vuol dire che ho ragione!” – Màrino sgranò gli occhi e portò le mani al cavallo dei pantaloni neanche sentisse dolore fisico – “Mio Dio, che brutta cosa!”

 “Si chiama brit milah ed è un segno culturale!”

“E com’è? Fa male?”

“Non ero abbastanza grande per ricordarmelo! Potremmo cambiare argomento?!”

“Stavo solo chiedendo.” – sbuffò Màrino.

A quel punto Aaron pensò bene che la circostanza fosse propizia per tirare in ballo un argomento che anche lui voleva approfondire da un pezzo: “Senti, anche io ho una domanda per te.”

“Cioè?”

“Perché non mi parli dei tuoi genitori? Non ti vengono a prendere, sembra che tu non abbia orari, non li chiami mai nemmeno per salutarli. Avete litigato?”

Stavolta fu lui a irrigidirsi, come un istrice che punta gli aculei.

“No.” – disse freddamente.

“E allora?”

“Di questo vorrei non parlare.”

“Eh, no!” – Aaron incrociò le braccia – “Non vale. Non puoi farle solo tu le domande scomode.”

“Non siamo sullo stesso piano.” – Màrino strinse un pugno.

“E questo che vorrebbe dire?”

“Che loro sono…!” – Màrino trattenne l’ultima parola, non tanto perché l’avrebbe urlata, ma perché dirla ad alta voce l’avrebbe probabilmente fatto vomitare. Espirò come una valvola delle emozioni espellerebbe gas: “Sei sicuro di volerlo sapere?”

“Te l’ho chiesto io.”

Màrino scattò in piedi, nervoso: “Allora usciamo. E non fare domane finché non siamo arrivati.”

 

*   *   *

 

Cimitero di San Michele.

 

Lente onde si accasciavano contro gli argini delle rive coperte di mattoni rossi dell’isolotto, risuonando lontane attraverso i viottoli lastricati del cimitero. Alti cipressi verdeggianti sussurravano alla brezza del pomeriggio morente, mentre sepolcri di pietra grigia parlavano di silenzio ai fiori rossi e violetti depositati al loro cospetto. Una Madonna di granito sorreggeva un Cristo disteso sulle sue gambe e da qualche angioletto a cui il marmo aveva negato la vita si aggrappano a viticci di inferriate nere. Era fresco, all’ombra.

 

Màrino ed Aaron erano in piedi dinanzi una lastra di marmo lucido, che doveva essere recente.

 

ISABELLA E GIOVANNI ALTO

2010, 2005 – 2050

Nel sempre vivo ricordo del figlio.

 

“Volevi conoscere i miei? Eccoli qui.” – Màrino fissava la tomba ai suoi piedi – “Contento ora?”

Aaron era alle sue spalle, a un passo da lui: “Io non pensavo che…”

Mosse la bocca come in cerca d’aria, sperando di trovare parole sensate, ma nulla, né in Italiano né in Inglese, poteva andare oltre il: “Mi dispiace.”

“Non c’è nulla di cui scusarti.” – la voce del figlio degli Alto era tornata a mesi fa, fredda e atona – “La colpa è mia. Il fatto è che non sono mai stato bravo a fare amicizie e non avrei dovuto risponderti in quel modo. O forse dovevo parlartene prima, non so.”

Guardò il mazzo di ciclamini che aveva abbandonato lì un paio di settimane prima: erano secchi, scoloriti e fragili. Pensò che fossero scheletri di piante.

“Com’è successo?” – chiese Aaron fissando anche lui gli stessi fiori.

Sentì Màrino lasciarsi sfuggire un ghigno soffocato, amaro come la gramigna: “Vorrei saperlo anch’io.”

Poi, senza guardarlo, iniziò a raccontare: “Tornavo da scuola, come se nulla fosse. Ci eravamo salutati solo qualche ora prima. Quella mattina mi erano sembrati un po’ tesi, però…non lo so, non so cosa pensassero, o cosa sapessero. E poi…poi…” – arricciò le labbra, deglutì e aggrottò la fronte – “…li ho trovati così, impiccati nel salone di casa nostra. Quello stesso salone dove mangiavamo ogni giorno.”

Le sue palpebre si distesero e le sue pupille si allargarono mentre si perdeva in quel ricordo vorticoso: “C’era tanta di quella gente intorno alla casa…mormoravano…e poi tutte le sirene della polizia.”

Serrò i denti e i pugni, che erano abituati ai segni delle unghie nei palmi: “Loro dicono che si sono suicidati ma io lo so che me li hanno ammazzati!”

La voce si era incrinata e riflessi acquosi iniziarono ad invadergli gli occhi blu.

“Chi è stato?” – Aaron trovò la forza di alzare un po’ la testa.

“Non lo so. Qualcuno. Gente che credeva che i miei fossero delle cattive persone. Quando arrivarono i Nazisti, tutti si erano convinti che i miei fossero dalla loro parte! Ma non è vero, io lo so che non lo è, non lo erano mai stati!”

Una prima lacrima iniziava a fuggire dalla stretta delle sue ciglia, mentre le guance gli andavano a fuoco e con la voce non chiedeva altro che pietà.

“Il giorno dopo vennero degli uomini a dirmi che mi avrebbero preso in custodia, così non sarei dovuto andare in un orfanotrofio.”

Aaron fu tanto felice quanto stupito di quel fatto: “Dei benefattori? E chi sono?”

“Non li conosci.” – rispose immediatamente il ragazzo; gli sovvenne un sorriso al vetriolo – “Da ridere, eh? Di tanti possibili…”

Aveva una parola e un segno che gli ballavano nella coscienza.

“Però almeno posso tenermi la casa.” – aggiunse – “Quella casa in cui li ho trovati morti.”

Era troppo. Il vaso del suo animo colmo di vernice nera si ruppe su un pavimento a scacchi di rabbia e solitudine e le parole presero il sopravvento sulla sua lingua: “Però la verità è che io ormai sono solo!”

Stava gridando, e piangendo, e tutto il suo corpo tremava come se volesse esplodere, eppure non vi riusciva e così le lacrime iniziarono a sgorgare copiose e incontrollate.

“Per colpa di un pettegolezzo, a sedici anni, io i genitori non ce li ho più!” – aveva così tanta rabbia e subito dopo tanto amore – “Gli abbracci di papà…e i baci di mamma…io non li riavrò mai più indietro! Ma perché proprio io?!”

Gocce di cristallo caddero dalle sue guance e s’infransero sul marmo. Si coprì il viso con le mani: “Mai più.”

Aaron sgranò gli occhi, mentre spade di dolore si sfilavano dal cuore sanguinante del suo amico per conficcarsi nel suo. Poi Màrino gridò ancora, con tutta quell’incommensurabile solitudine che aveva ormai preso il posto della sua vita, parlando, parlando e parlando ancora: “E tutto quello posso fare è fissare questo pezzo di pietra, che continua a non rispondermi e che non mi consola mai! E non posso nemmeno rimanerci troppo a lungo, perché non sono forte e dopo un po’ fa male!”

Le lacrime gli finirono in bocca ma poi…

“Basta.” – la mano di Aaron fu un tizzone ardente sulla spalla, la sua voce fu l’abbraccio di un fratello mai avuto – “Non c’è bisogno che continui.”

Màrino provò un fremito, qualcosa di inesprimibile, mentre l’amico gli si avvicinò solo qualche centimetro di più: “Mi dispiace. Vorrei poterti aiutare, ma non so come. Però, se almeno può servire…”

E nella cedevole sera silenziosa scesa sul cimitero, la mano di Aaron Alford cercò le dita tremanti dell’amico e le strinse.

“…tu non sei più solo.”

 

*   *   *

 

Il giorno dopo.

Bibione, provincia di Venezia.

 

Del tramonto non restava ormai che qualche strascico. Le ghirlande di lampadine retrò erano già tutte accese sulla veranda in legno bianco dello Shabby Discobeach, gremito di clienti. Le sdraio e gli ombrelloni erano stati sostituiti con letti a baldacchino dai veli vaporosi e con angoli cocktail rivestiti di canne di bambù. Il programma prevedeva una serata revival della musica dall’Italia degli anni ‘80 e il DJ avrebbe lasciato spazio alla conversazione ancora per un po’, con una rispolverata dei 45 giri di una Nada che parlava di amori disperati e vite che girano senza un perché. Tra finger food in piattini di plastica, alcolici in mano e musica soft, non c’era spazio per cose distanti come Macchine giganti che combattevano in un’altra Nazione.

 

Aaron e Sara erano in attesa fuori dal locale e chiacchieravano già da una decina di minuti. L’idea di una seratina in discoteca li aveva spronati a sfoderare il meglio del loro guardaroba estivo, con la camicia a delicate stampe floreali e shorts verdi acqua di lui e la combo top sblusato-e-minigonna svolazzante dell’amica. Quando le vide giungere dal lungomare, Aaron agitò un braccio per farsi notare e due sagome accelerarono il passo: erano Màrino, che per l’occasione aveva addirittura rinunciato alle t-shirt per indossare una Polo, e un’altra ragazza dall’aria affatto familiare in abitino di pizzo bianchissimo. Rapido scambio di saluti all’italiana, con annessi baci sulle guance a cui Aaron aveva imparato ad aderire.

“Scusate se ci abbiamo messo un po’.” – disse subito, accompagnare Na-El era un piacere, ma un piacere lento – “Ah, le presentazioni! “Sara, Aaron, questa è Na-El. Na-El, Sara e Aaron.”

Dire che entrambi non ne rimasero turbati sarebbe ipocrita. Avevano davanti una ragazzina piccola, con un visetto candido e serafico…ma quelle bende di seta piene di fiori e l’unico occhio scoperto, tanto spento da far pietà, li disturbarono non poco. E poi quei capelli azzurri. Il ragazzo prese le mani di Na-El e le avvicinò a quelle dei suoi amici fino a far sfiorare le dita, cosicché potesse avere percezione del nuovo arrivato.

“Oh.” – Sara tentò di avviare le cortesie per prima, non senza qualche indecisione – “Ehm…ciao! Molto piacere.”

“Il piacere è mio.” – disse lei piegando appena di lato la testa.

Aaron fu trapassato da un déjà vu: il suo sogno; la giovane in piedi all’altare di marmo ed il contratto stipulato col sangue sulle vesti regali immacolate. Era lei.

“Sì…anche per me, certo. Piacere.” – cercò di imbastire un po’ disorientato, senza staccarle gli occhi di dosso.

Màrino si avvicinò a loro, sussurrando: “Lei non ci vede, quindi…”

“Ce ne siamo accorti, tranquillo.”

Visto che la nuova arrivata non sembrava molto loquace, Sara batté le mani per evitare che il silenzio diventasse imbarazzante: “Bene! Io avrei un sacco di fame, voi?”

Fu accolta da una conferma generale. Màrino iniziò a farsi strada all’interno del locale, tra gomiti e schiene, in cerca di qualcuno a cui chiedere un tavolo. Aaron prese per mano Na-El, accompagnandola mentre Sara provava goffamente a rompere il ghiaccio con domande quali “Che bella tinta di capelli, da chi sei andata?” o “Che bel vestito, di che marca è?” e ricevendo per risposta solo vaghi giri di parole.

Quando finalmente riuscirono a ritagliarsi un divano in un angolo del locale, Aaron chiese all’amico: “Non ti facevo tipo da discoteca.”

Il sorriso che Màrino aveva avuto fino a quel momento si spense solo un po’. Si voltò verso la spiaggia a alle loro spalle, respirando la salsedine mista al profumo drink alla frutta. “Non lo sono. Però ho pensato che con questa guerra che è scoppiata nel mondo forse non ci rimane più molto tempo per fare quello che non facciamo mai…o essere di buon umore. Quando mi sento felice vorrei non smettere.”

Aspettò che un soffio di vento gli sfiorasse la fronte e poi si voltò verso gli amici, riacquistando in un attimo l’euforia: “Vado a ordinare qualcosa da stuzzicare! Voi non vi conoscete, quindi rimanete qui e…” – mimò una sorta di scatola con le mani – “…fate amicizia, ok?”

“Se vuoi ti aiu-”

“Vengo con te!” – Sara passò davanti ad Aaron nella fila per chi avrebbe fatto compagnia a Màrino. Il ragazzo inglese ricadde al suo posto, lasciando da parte l’idea di insistere e li guardò allontanarsi verso il bancone centrale. Adesso erano soli, lui e Na-El, la quale se ne stava ferma e composta come una statua babilonese in un cantuccio del divanetto, mani sulle ginocchia e lo sguardo perso nel vuoto. Continuava a lanciarle occhiate fugaci, quasi per assicurarsi che non svanisse come un’illusione, ma non sapeva veramente di che parlare. Rimasero inebetiti per un po’, poi la voce di lei lo fece quasi sobbalzare: “È esattamente così.”

“Come, scusa?” – la guardò perplesso.

“Che è come pensi. Noi ci siamo già visti. Nei tuoi sogni.”

Aaron sussultò. Quella tipa faceva sul serio?

“Non…non ti seguo.”

“Perché sei così stupito? Avverto tutto il grigio dei tuoi dubbi. Ora che ne hai certezza, di cosa ti meravigli?”

Aaron rimase a bocca aperta. In effetti, per quanto assurdo fosse, quella coincidenza combaciava perfettamente con quanto gli agenti governativi internazionali gli avessero detto circa la storia della ‘Machine’ e del suo ruolo in quella faccenda.

“Quindi, tu…sai già tutto, vero?”

Lei annuì.

“In quanto Siren devota al Drago delle Maree e al Monarca Bianco è mio preciso dovere vigilare sui Meisters scelti da essi.”

“E come fai? Puoi vedere, tipo, il Futuro?”

“No.” – nella sua voce c’era un filo di rimorso – “La vostra è una storia già raccontata. Tutto quello che posso fare è ricordare scintillii di vite passate e frammenti di memorie.”

Aaron chinò la testa. Non capiva bene ciò che Na-El intendeva ma ora, improvvisamente, sentiva che avrebbe potuto raccontarle qualunque cosa. Si conoscevano senza conoscersi. Era tornato a cercare il suo amico con lo sguardo, e lo trovò alla fila per le ordinazioni che non smetteva di conversare allegramente con Sara.

“È molto innamorato di lei, non è così?” – chiese con un sorriso mesto.

“Sì, lo è.”

Per un motivo di cui non poteva essere certo, gli occhi di Aaron si riempirono di un sentimento più scuro della delusione ma non tanto quanto la tristezza. Avrebbe preferito che gli dicesse di no, ma in qualche modo si aspettava quella risposta.

“Però, Aaron…” – Na-El aveva voltato la testa verso di lui; non poterlo vederlo, era ovvio, ma sembrava il contrario – “…però tu devi restare al suo fianco. Perché quel suo amore, un giorno, porterà a una tragedia molto più grande.”

L’animo del ragazzo tremò e la guardò con occhi pieni di timore. Tuttavia, dopo che il resto del quartetto fu tornato al tavolo, la cupezza venne sciacquata via da un mojito alla fragola e qualche salatino e tutto parve tornare alla normalità.

 

Quella notte ballarono a lungo su canzoni di un altro millennio e si sentirono nostalgici di un’epoca mai vissuta. Quando il Centro di gravità permanente di un immortale Battiato iniziò a suonare, avevano già abbandonato ogni freno e lo spirito volava in cielo, spinto sempre un po’ più su da una ricarica di troppo di alcolici. Bicchieri vennero portati in alto tra gesuiti euclidei e corpi ondeggiarono insieme a capitani coraggiosi in un twist improvvisato, finché nessuno si curò più di seguire il ritmo di chi gli stava intorno. Aaron non capiva la metà delle parole di quella canzone e nemmeno Màrino e Sara avrebbero potuto vantare di meglio, nella rubiconda leggerezza che faceva girare la testa, sorridere stupidamente e muovere i piedi, ma la musica di sintetizzatori e sassofoni era una lingua universale che parlava di un mondo senza pensieri e che quella notte era solo per loro. Un centro di gravità permanente, che mi non faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente. Se solo avessero saputo di quanto avrebbero avuto bisogno di quelle parole, di quanto presto si sarebbero trovati a leggere sé stessi in quelle strofe.

Ma la musica di sintetizzatori e sassofoni era una lingua che parlava di un mondo senza pensieri e che quella la notte era solo per loro…

 

 





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