Ciao! Questa è la mia prima fanfic, spero che questa storia
vi
diverta e vi faccia diventare degli eroi! Si, perché tutti
in
fondo, nel nostro piccolo, possiamo diventarlo; basta un pizzico di
immaginazione ed eccoci nei panni del nostro eroe personale, non privo
di difetti, che affronta la vita di tutti i giorni.
Ricorda, tu sei l'eroe della tua vita.
In questo capitolo presenterò Allan Chord, un ragazzo molto
distratto e sfortunato, gliene succederanno di tutti i colori,
fidatevi. Ora siamo ancora agli inizi, ma lo vedremo crescere e
diventare un eroe!
Vorrei creare un mio stile di scrittura frizzante e divertente grazie a
questa storia!
Ma spetta a voi commentare cari lettori, dunque, non mi resta che
augurarvi buona lettura e di raccomandarvi di essere sinceri...se la
storia non vi piace,
esprimetelo nelle vostre recensioni senza timore...E se vi piace, non
potrò che esserne felice!
Fatevi sentire in tanti! ;)
1. Il mio nome è
Allan, Allan Chord!
Tic-Tac, Tic-Tac.
Un orologio scandiva a ritmo costante i secondi che passavano.
Io lo fissavo accigliato. La testa mi faceva male e respiravo a fatica.
Distogliendo lo sguardo da quell'orologio mi scoprii disteso su un
letto, il panciotto ben in evidenza.
Con un piccolo dolore alle cornee, i miei occhi blu come il mare si
spostarono, facendo il giro della stanza.
Mi trovavo in un ambiente sconosciuto. Quella stanza era enorme e
affollatissima, ma era anche così malinconica e triste.
I miei occhi si dovettero abituare alla desolazione di quel posto,
perché intorno a me vedevo tutto grigio. Le pareti, il
pavimento. E poi c' erano letti e persone stese sopra, a pancia in su
come me. Alcuni dormivano, altri si lamentavano, anche se non riuscivo
a capire per cosa.
Nonostante tutti questi particolari, la mia testa non arrivava a capire
dove mi trovavo in quel momento. Fu l' arrivo di un' infermiera con una
grossa siringa in mano a destare in me qualche sospetto.
Finalmente capii: ero in un ospedale.
Con impeto provai ad alzarmi, ma gli arti mi facevano male e ogni volta
ricadevo sul letto come un salame. "Colpa degli anni" continuava a
ripetermi la mia testa. Erano venticinque.
- I reumatismi, - boccheggiai. - le mie ossa!- tentennai in un ultimo
mal riuscito tentativo di alzarmi da quel maledetto letto.
Una domanda mi sorgeva così spontanea: "come ci ero finito
in ospedale?"
Non me lo ricordavo; fare mente locale con un' emicrania da urlo era
praticamente impossibile.
Intanto vidi l'infermiera che si stava avvicinando verso il mio letto,
la siringa in mano puntata verso l' alto. Era una bella donna
quell'infermiera. Era
alta, aveva un gran seno prosperoso e profumava di vaniglia da qui a
là. Ma il bello è che non me ne importava un bel
niente
della sua avvenenza. O almeno non in quel momento. Vederla avanzare
così bella verso me, armata di un siringone, mi terrorizzava
più di qualsiasi altra cosa.
L' infermiera avanzava. Aveva dei grandi occhioni verdi che le
indolcivano il volto abbastanza duro. I capelli erano di un biondo
chiarissimo e li portava
in un caschetto che le ricopriva fronte e orecchie.
Se prima respiravo a fatica, ora quasi non respiravo affatto. Chiunque
mi conosceva sapeva che la punta acuminata di una siringa mi piegava in
ginocchio e mi faceva piangere come un bambino.
La "femme fatale" era giunta al mio cospetto. Lucy, potevo leggere sul
cartello identificativo.
Mi irrigidii.
Gli occhi smeraldini di Lucy avevano assunto una nota interrogativa.
Poi la donna sorrise, mostrando denti perfetti. Infine
abbassò
"l' arma dalla punta
decisamente non arrotondata" e la indirizzò verso di me.
Sussultai e gemei.
Probabilmente Lucy pensò che non ero del tutto cosciente,
perchè non parlò, ma si limitò ad
affondare l' ago
dentro la mia carne.
Quando sentii l' arma premere sulla pelle del mio avambraccio, di colpo
ricordai tutto.
Il sole raggiante del primo mattino illuminava le strade di una grande
metropoli. Era Nottingwish, la città in cui abitavo con mia
sorella. Lo so, il nome non promette nulla di buono, ma io adoravo
vivere in quel posto.
Ero per strada, salutavo la gente, anche se loro neanche mi
calcolavano. Avevo un colloquio di lavoro quel giorno ed ero vestito
elegante: giacca e cravatta marroni abbinate a dei pantaloni di velluto
bianco, scarpe scamosciate di un blu sgargiante, insomma quel giorno
avevo scelto i migliori abiti che avevo trovato nel mio armadio. Anche
se devo dire che la gente che incontravo per strada non sembrava essere
d'accordo con me. Beh, forse i colori non si intonavano molto fra loro,
ma che ci volete fare, la mia indole inappropriata era molto evidente.
Guardai l' orologio da polso. Era tardi e dovevo fare in fretta; non
potevo rinunciare anche a questo lavoro.
Decisi di trovare una scorciatoia. Conoscevo ogni strada di Nottingwhis
come le mie tasche. Per me non era un problema trovarne una.
Dovevo solo arrivare al municipio. I seggi elettorali stavano per
iniziare e un buon posto da scrutatore era un ottimo lavoro per un
perenne disoccupato come me. Dovevo ottenere questo lavoro. Per me e
per mia sorella.
Di colpo sentii la scarpa inumidirsi.
-Oh, accidenti!- dissi guardando un cagnolino che mi aveva lasciato un
ricordino tutt'altro che piacevole. - Dovevi farla proprio addosso a
me?- gli chiesi.
Ovviamente il cane non rispose. Invece si girò, mostrandomi
le
chiappe e smosse le zampe posteriori, disfacendosi del suo misfatto.
Senza pensare troppo, mi tolsi la scarpa bagnata e continuai a
camminare come uno zoppo verso la mia meta.
La gente per strada rideva, ma non me ne importava proprio niente.
C' era una scorciatoia proprio dietro l' angolo. Era un vicolo buio e
desolato, non praticato dalla gente. Molti non lo conoscevano, ma non
io che avevo una mappa di Notthingwhis impressa nella mia testa.
Mi affrettai. Prima di girare l' angolo diedi una rapida occhiata ad
una vetrina, per specchiarmi.
Rimasi a fissare il mio riflesso per un po'. Avevo gli occhi blu che
brillavano come zaffiri in quel volto così rotondo e
imperfetto.
I capelli mi
ricadevano sulla fronte, erano di un biondo sporco e lisci come l'olio.
Sorrisi, mostrando le fossette sotto le guanciotte. Ciò era
un
bene: pettinarmi i
capelli era una pratica che potevo evitare benissimo. Il mio naso era
così rotondo e schiacciato sulla superficie che sembrava
quello
di un cinghiale.
La mia bocca, sottile e dal colorito pallido, sembrava non ci fosse.
Perfetto, pensai. Non ero nato per apparire,io, Allan Chord.
Di colpo mi riaffiorarono in mente le parole di mia sorella: "Qualunque
cosa succeda, cerca di arrivare in tempo al colloquio di lavoro."
E dovevo farlo. Senza un lavoro avremmo perso tutto, andando sul
lastrico. Mia sorella frequentava la prestigiosa università
della città e gli studi costavano parecchio.
La strada del vicolo era buia, i raggi del sole non illuminavano quelle
strette mura. Mi fermai di colpo. Tra l' oscurità scorsi un
muro
davanti a me.
Rimasi allibito. non ricordavo che fosse un vicolo cieco.
Poi qualcuno si mosse nell'oscurità. Sgranai gli occhi nel
tentativo di vedere meglio.
Alte figure si stavano avvicinando verso me. Poi vidi qualcosa di
brillante.
Avevo paura e sarei scappato se le mie gambe non sarebbero state sul
punto di cedere.
Le alte figure erano incappucciate e stringevano in mano dei coltelli
appuntiti come rasoi. Erano in tre.
Di colpo capii che quelle erano persone poco raccomandabili, volevano
qualcosa da me.
Uno dei tre banditi si avvicinò, sussurrandomi delle parole
all'orecchio. La sua voce aveva un tono terribilmente pungente. -
Sgancia tutto quello che hai in tasca.- disse con un ghigno.
Io, tremavo come una foglia, la scarpa bagnata dal cane ancora in mano.
Non ero mai stato una persona coraggiosa.
Annuii a quella richiesta. Mi portai le mani alle tasche, ma non avevo
niente. Ne' contanti, ne' carte di credito. Avevo solo le chiavi di
casa.
Lo dissi ai tre banditi. Quello più vicino a me era ancora
col fiato sul mio collo.
- L'orologio.-
- L'o...orologio?- ripetei balbettando.
No. La mia testa mi suggeriva di non dare la cosa a cui tenevo di
più. Non potevo dar loro l' orologio. Per me era troppo
importante, era un antico cimelio di famiglia e me lo aveva donato mio
padre prima di morire. Evidentemente non avevo riflettuto a lungo con
chi avevo a che fare.
- No.- dissi tirando fuori un briciolo di coraggio e offuscando la mia
vigliaccheria.
I tre banditi, dapprima spiazzati, alzarono i coltelli.
- Non ti conviene farci arrabbiare.- E il bandito più vicino
a
me si tolse il cappuccio, mostrando una testa pelata e tanti tatuaggi
su tutto il capo. - Gli
intelligenti sanno che non devono giocare col fuoco, rischiano di
scottarsi. E ora dacci quel dannato orologio!-
I miei occhi blu si scontrarono contro quelli grigissimi e perforanti
di quel malvivente. Per un attimo mi sembrò che da quelle
iridi
presto sarebbero
scaturite delle fiamme che mi avrebbero abbrustolito, ma ovviamente non
successe.
I miei occhi, dettati dalla semplicità, non ressero il
confronto
contro quelli ruvidi e perfidi dell'uomo. E presto abbassai lo sguardo.
Ma di dare l'orologio non se ne parlava neanche da morto.
Ad un tratto la mia vigliaccheria ritornò in un lampo e feci
quello che ogni vigliacco sa fare meglio, scappare.
O almeno tentai di farlo, ma non ci riuscii. I banditi mi presero e mi
tennero fermo, mentre la lama di uno dei tre si conficcò
nella
mia carne.
Fui investito da un dolore lancinante al petto. Una coltellata
sconquassante mi aveva perforato una vertebra. Gridai e caddi
a
terra inerme.
Presto mi ritrovai disteso in una pozzanghera rossa, era il mio sangue.
Il bandito senza cappuccio mi tirò via l' orologio da polso
con
tale impeto che mi lasciò profondi graffi in tutta la mano.
Quell'orologio a cui tenevo tanto mi era stato rubato. In quel momento
volevo solo giustizia. Mi sarei ripreso l'orologio di mio padre, non
importava a che prezzo.
Quella fu l' ultima cosa a cui pensai, poi svenni in quel lago fatto
col mio stesso sangue.
“Ecco com'era andata.” pensai. Qualcuno doveva
avermi
trovato lì, in quel vicolo cieco. E poi mi aveva portato in
ospedale.
Lucy, l'infermiera aveva già finito di siringarmi.
La guardai. Senza l'arma in mano sembrava solo una bella donna,
nient'altro.
Ma non me la dava a bere. Sapevo che presto sarebbe tornata alla carica
con una nuova siringa.
No. Non intendevo perdonarla per quel suo gesto così
avventato.
Mi rigirai nel letto, dandole le spalle. E la mia immaginazione prese
il volo.
Io vestito da supereroe. Lucy che urlava spaventata. Io che la
inforcavo con una siringa più grossa di lei.
Si, in quel momento desiderai essere l'uomo siringa. E scatenare la mia
vendetta su quell'infermiera formosa quanto antipatica.
Eccoci qua, come vi sembra?
Vi aspetto nell'angolo recensioni... ;)
Un abbraccio a tutti i coraggiosi eroi che sono arrivati fino alla fine!
Matt_Plant
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