HERE IS NO WHY
Glitter burned
by restless
thoughts of being forgotten…
~
Capitolo 1 ~
The
Beautiful People/*
Il
marciapiede scorre fluido sotto i miei occhi. Un passo
dopo l’altro, tra pozzanghere di acqua fangosa. Alla mia
destra l’estensione
grigiastra del fiume Cedar, che si snoda come un serpente dalla pelle
iridescente. Scarpe di tela sdrucite ai piedi, quando sarebbe stato
più logico
indossare tutt’altro.
L’Iowa
non è la Bassa California.
Qui
piove frequentemente, copiosamente.
L’avevo
dimenticato.
Un
pesce fuor d’acqua, ecco quello che sono.
Un
ottimo inizio, non c’è che dire.
Ho
chiesto al tassista di fermarsi a metà strada tra
l’aeroporto e la destinazione finale della nostra corsa.
L’auto
sembrava andare troppo veloce, mentre a me mancava
sempre di più il respiro.
“Ha
l’ombrello? A breve
diluvierà…”, mi ha avvertito
l’uomo alla guida, un sessantenne dall’aspetto
cordiale.
“Non
ha importanza”, ne ho liquidato i dubbi con una
mancia generosa, un ringraziamento e un saluto frettolosi.
Se
il tassista mi ha riconosciuto deve aver pensato che
ero il solito eccentrico made in Hollywood. Gente strana gli attori, in
fondo,
no?
La
destinazione di cui sopra corrisponde ad un indirizzo
urbano.
Quello
di casa.
O
meglio, di quella dove ho vissuto fino al trasferimento
in California.
Siamo
a Cedar Rapids.
È
qui che sono nato.
Ed
è che qui che sono di ritorno.
Il
volo da Los Angeles l’ho passato ascoltando una lunga
serie di playlist a tema, create da me nel tempo libero. Sono un
melomane che
asseconda senza vergogna la propria passione per la musica.
L’iPod che ho
sempre con me, e con il quale gioco a fare il DJ, lo dimostra
chiaramente.
Il
paesaggio offerto dal
finestrino dell’aeromobile ha catturato più volte
la mia attenzione. Lasciato
alle spalle il deserto del Colorado, l’Iowa si è
palesato distintamente sotto
forma di campi di grano e frumento, intervallati qua e là da
vigneti coltivati.
C’è
turbolenza e accolgo con sollievo
l’annuncio dell’atterraggio ormai prossimo.
Non
ho paura di volare, ma
sono agitato, consciamente ora, e desidero nient’altro che
stabilità sotto i
piedi.
“Dove
la porto, signore?”.
Prima
di rispondere, ho dovuto
riflettere per un qualche istante.
Non
sull’indirizzo, che
ricordo perfettamente.
Il
dubbio che mi assale
riguarda mio padre.
Vivrà
ancora lì?
Di
fatto non lo so e se si
fosse trasferito altrove, non saprei come cercarlo.
Ammetto
di conoscere molto
poco Cedar Rapids o chi, suppongo e spero, la abiti ancora.
Dopo
diciassette anni passati
a Los Angeles, credo di potermi ormai considerare un homie./**
Rifletto
su tutto e niente
mentre cammino costeggiando il fiume.
Ho
bisogno di una sigaretta
che accendo con gesti fin troppo collaudati.
Musica.
Tabacco. Caffeina.
Tre
droghe molto diverse tra
di loro e da cui sono allo stesso modo dipendente.
Caffè
quando mi prendo una
pausa o studio per la prima volta con un copione.
Nicotina
per calmarmi.
Musica
sempre, per esprimere e
filtrare tutto il resto.
Un
figlio alle prese con il
proprio padre.
Perché
sono così nervoso?
Passo
a salutarlo, vedere come
sta.
Non
è un’abitudine per me, ma nemmeno
un’ascesa al
patibolo.
E
allora perché rimango a bagnarmi sotto la pioggia
anziché essere già da lui?
Forse
la natura del nostro rapporto, inesistente,
è
un buon punto di partenza per delineare questo ritratto di famiglia un
po’
sbiadito.
La
decisione di tornare a casa è stata figlia di un
impulso. Dall’oggi al domani mi sono ritrovato a cliccare su
“conferma acquisto
volo” e ad essere ringraziato dalla compagnia aerea per
l’ottima scelta.
Perché
proprio adesso?
Perché
non un mese fa o un anno fa?
Non
è normale non ricordare l’ultima volta in cui si
è
incontrato o sentito il proprio padre.
Il
bisogno di vederlo ha reso perplesso me per
primo.
Ancora
di più, quando ho realizzato che eravamo pronti al
decollo e stavo partendo senza aver accennato nulla né a mia
madre né a mia
sorella.
Ho
un ottimo rapporto con entrambe.
Credo
di poter dire che sanno tutto di me e viceversa.
Di
sicuro non ho mai dovuto mentire sulla meta o le
motivazioni alla base dei miei viaggi.
Questa volta però
è
diverso.
Non
sono in volo per una destinazione esotica.
Non
sto andando ad un concerto.
Non
mi hanno invitato ad una festa esclusiva.
Di
fatto, non so che diavolo stia facendo qui, a cento
metri dalla staccionata dell’abitazione che riconosco
immediatamente.
Non
lo so davvero.
Suppongo
di aver taciuto su Cedar Rapids perché so già
che sarà un fallimento.
Il
genere di cosa da tenere per sé.
Di
un granchio preso cinematograficamente parlando, sarei
il primo a ridere, coinvolgendo senza problemi mia madre, Hannah e Zach.
Ma
qui si tratta di mio padre e il discorso cambia.
Non
c’è nulla da ridere.
Anche
il dolore altrui tornerebbe a galla alla minima
menzione di lui.
È
troppo pericoloso.
Che
sia tornato in Iowa, dopo il divorzio, è stata una
scelta concorde alle proprie origini, fatta da un uomo che ha sempre
amato
molto lo Stato in cui è nato. I ritmi di una vita con delle
certezze di fondo e
poca frenesia, poco rischio.
Avevo
sei anni quando ci siamo trasferiti in California.
Mia
madre credeva, dimostrando un’indubbia fiducia in me,
che potessi fare mia una qualche carriera artistica, magari in
pubblicità, e Los
Angeles era il luogo migliore per provarci.
Vedevano
la vita in maniera diversa, i miei, per questo
la loro separazione non è stata sorprendente,
bensì il risultato di una
parabola personale discendente, influenzata da obiettivi e aspirazioni
in buona
sostanza opposti.
La
gradualità delle circostanze, l’abitudine
all’assenza
di mio padre, man mano sempre più marcata…
è stato naturale considerare mia
madre come l’unico punto di riferimento solido nella mia
vita, proprio lei che
aveva abbandonato la concretezza dell’Iowa per il sogno
volubile della
California.
Cinquanta
metri.
Ho
le spalle completamente bagnate.
Accelero
il passo.
Il
quartiere è cambiato, gentrificato.
Villette
a schiera su ambo i lati della strada. La
pavimentazione del marciapiede è interrotta in maniera
modulare da aiuole nel
mezzo delle quali si erge il fusto imponente dei cedri che ricorrono
nella
topografia cittadina. La resina cola lenta dalla corteccia, oggi come
allora.
Ne percepisco tutto ad un tratto l’odore.
Attraverso
le strisce portandomi sull’altro lato del
viale.
Numeri
dispari.
Il
mio domicilio è appunto segnalato da una cifra
così.
Venti
metri.
Cammino
e registro attivamente dettagli vecchi e nuovi.
Ad esempio, cosa ne è diventato del primo piano del palazzo
in fondo alla
strada, vicino l’intersezione che conduce in pieno centro
cittadino.
Un
tempo ospitava uno degli esercizi commerciali dei
miei.
L’insegna
luminosa di un supermarket in franchising
testimonia che la nostra deli/***
non esiste più.
Riaffiora
al palato il sapore
corposo dei sandwich al pastrami e quello piccante della torta al
rabarbaro.
Passavo
i pomeriggi tra quegli
odori, la preparazione dei tanti cibi sul menù studiato da
mia madre, mentre
ero alle prese con i primi compiti di scuola, seduto al tavolo che dava
su una
piccola area giochi.
Sono
ricordi che mi pesano
addosso come piombo.
La
mano raggiunge d’istinto il taschino del giubbotto di
jeans, alla ricerca del bistrattato pacchetto di Clove,
ma freno l’impulso di accenderne un’altra. Sono
praticamente arrivato.
Fradicio,
teso e con una grande voglia di mangiarmi le
unghie. Ho promesso ad Ellen/**** che avrei smesso, ma è un
vizio radicato. Ho
delle mani oggettivamente brutte: unghie cortissime e pellicine spesso
sanguinanti. Non c’è una sola persona che non se
ne sia accorta guardando “Il
Signore degli Anelli”.
Sconfiggo
la tentazione di girare i tacchi e tornare in
aeroporto così come sono venuto.
Anonimo
e insignificante, sotto la pioggia che tamburella
sull’asfalto così come fanno i dubbi nella mia
testa.
Prendo
tempo ed osservo l’abitazione dall’esterno.
È
uguale ad allora.
Ulteriori
ricordi si aggiungono ai precedenti. Mi rivedo correre
dietro Zach come un’ombra fastidiosa e poi giocare con Hannah
sugli scalini del
portico. A mia sorella piacevano le bambole allora. Punk lo
è diventata
crescendo.
Anche
il colore delle mura è lo stesso.
Il
giardino invece è diventato sempreverde –
maschile, in
un certo senso.
I
fiori di cui si occupava mia madre sono scomparsi.
Imbocco
il vialetto d’ingresso.
Intravedo
la luce accesa attraverso la vetrata di quello
che era, a memoria, il salotto.
Troverò
senza dubbio qualcuno in casa, ma di chi si
tratti davvero, lo scoprirò soltanto se mi riceveranno.
Non
ho letto il nome del proprietario sulla cassetta
della posta.
Non
lo leggo nemmeno vicino il portone.
Sono
al riparo dal temporale finalmente, sotto il portico
di legno bianco, ben tenuto. Pitturato di recente.
Ho
le gambe molli e lo stomaco in subbuglio quando premo
il campanello.
Fotogrammi
di un Halloween quasi preistorico. Gli amici
del quartiere che ci visitavano giocando a dolcetto e scherzetto e
specularmente, io le loro case, con la stessa domanda sulle labbra:
“Trick or
treat?”.
La
porta si apre senza che venga chiesto chi è.
Ed
eccolo lì, sullo stipite.
Warren
Wood.
Mio
padre.
“Elijah?”.
La
voce è roca, familiare, così come il viso,
segnato in
maniera distinta dal passare degli anni, rimanendo però
riconoscibilissimo.
L’immagine del cinquantenne che ho davanti si soprappone a
quella del
trentacinquenne delle polaroid custodite in vecchi album che nessuno
sfoglia
più.
“Elijah…”.
Un
tono interrogativo prima e attestante l’attimo
successivo.
Warren
non dissimila minimamente la propria sorpresa nel
vedermi comparire dal nulla.
Avrà
mai letto di me sui giornali, visto qualche film in
cui ho recitato? Seguito da lontano la mia crescita non soltanto
artistica?
Oppure i ricordi sono legati anche per lui a degli scatti ingialliti
dal tempo?
“Hi,
Dad”.
Lo
saluto come se lo avessi visto il giorno prima.
Senza
dichiarazioni plateali di amore filiale.
Lui
nemmeno me ne offre.
Fa
soltanto un passo indietro.
Un
modo di invitarmi ad entrare, credo, eppure quanto
percepisco è l’esatto contrario.
Non
smette di fissarmi.
Dai
vestiti bagnati alle mani
mangiucchiate e strette a pugno, in una posa passivo-aggressiva che non
riesco
a controllare. Sono metaforicamente pronto a colpire se provocato.
Rifiutato.
Il
borsone da viaggio che ho imbarcato è capiente e
Warren sembra studiarlo con attenzione, ipotizzare uno scenario che
nemmeno io
ho ben chiaro. Aver portato diversi vestiti con me non vuol dire che ho
fatto
chissà quali calcoli riguardo
la
durata della mia visita. Rimarrò un giorno? Tre giorni? Una
settimana? È questo
il problema? Non mi vuole tra i piedi troppo a lungo?
Tutto
rimane nella mia testa, ma l’irritazione che provo
è gridata a pieni polmoni dalla rigidità con cui
respiro, la serietà con cui ne
sostengo lo sguardo.
È
qui che mio padre accenna un sorriso.
Un
pugno in pieno stomaco.
Non
me lo aspettavo.
Non
so come interpretarlo.
È
inaspettatamente cordiale quando riapre bocca: “Entra
in casa. Ti prenderai un malanno se rimani lì
fuori”.
Lo
seguo nell’atrio senza proferire parola, lucido quanto
basta per notare che la carta da parati è scomparsa dalle
pareti, sostituita da
una vernice pastello.
Mi
impongo di modulare diversamente il respiro, come se
si trattasse di un esercizio di recitazione.
Mi
impongo anche di dimostrarmi meno nervoso, fragile,
davanti all’uomo che sono venuto a cercare dopo dieci anni di
telefonate,
lettere e visite mancate.
Come
rapportarsi con un genitore assente?
Come
rapportarsi con un figlio assente?
Nessuno
dei due ha le idee troppo chiare.
Forse
se fossi stato più loquace o affettuoso vedendolo
uscire sul pianerottolo.
Forse
se avessi finto tutto quanto non sono riuscito ad
esprimere, poggio il borsone a terra, notando la pozza
d’acqua che si è formata
ai miei piedi.
Dovrei
cambiarmi.
Non
ho intenzione di ammalarmi.
Obbligare
mio padre ad occuparsi di me in quel modo.
Mi
sposto però in cucina, una stanza perfettamente in
ordine e dall’aspetto accogliente.
Il
bollitore elettrico è acceso.
Qualcosa
di caldo da bere. Non è una cattiva idea.
Mi
tolgo il giubbotto greve di pioggia e lo appendo ad
una sedia.
Mio
padre mi raggiunge allora, uscendo da quella che
ipotizzo essere rimasta la lavanderia. Mi lancia un asciugamano che
afferro al
volo e con cui mi tampono come meglio posso i capelli.
Mi
siedo nel momento esatto in cui vedo offuscarsi i
contorni della credenza appartenuta alla mia bisnonna. I limoni che
decorarono il
copritavolo perdono altrettanto improvvisamente forma, diventando un
ammasso
indistinto di giallo.
“Un
tè, Elijah?”.
Scuoto
la testa, rimettendo a fuoco la stanza. “Un caffè.
Preferirei un caffè”, rispondo educato e
incredibilmente a disagio.
Warren
annuisce, versando due cucchiai di Nescafé in una
tazza. A quel punto aggiunge l’acqua e allinea sul tavolo
tovaglioli di carta, cucchiaini,
una zuccheriera, del latte.
Senza
fronzoli, ma perfetto dal punto di vista formale.
“Zucchero?”,
inquisisce, fissandomi diritto negli occhi.
Suppongo siano lucidi. Sto bramando una doccia, un letto e un viaggio
di
ritorno a casa. Quella vera, a Venice, in prossimità del
mare, con mia madre e
quella monella appiccicosa di Hannah per vicine e confidenti.
“Due
zollette, grazie”. Visto che siamo giocando ai
gentiluomini, faccio anch’io la mia parte.
“Latte?”.
“No,
I like it black”.
Prendo
il mug che mi viene porto.
Mi
tremano impercettibilmente (o quasi) le mani.
Freddo,
nervosismo, stanchezza.
Avrei
un milione di motivazioni da addurre.
Il
caffè ha un buon sapore. Non ne avevo mai bevuto tra
quelle mura.
Osservo
mio padre tagliare una fettina di limone per il proprio
tè.
È
l’unica frivolezza che si concede per alterarne il
sapore.
Non
lo sapevo.
Ne
ignoro i gusti in toto o comunque, nei miei ricordi lo
vedo più spesso con una birra in mano, accompagnando una
pizza o della carne
alla brace.
Senza
volerlo, Warren imita i miei gesti, rivolgendo i propri
pensieri alla tazza che tiene tra le mani.
Ben
salde, le sue.
Curate.
Nessun
segno evidente di lavoro manuale propriamente
detto.
Dopo
il trasferimento in California aveva iniziato ad
occuparsi di vendite.
Come
si sia reinventato qui a Cedar invece, non l’ho mai
saputo.
“Ti
dispiace se accendo una sigaretta?”.
Mio
padre fa cenno di no.
Mi
guardo intorno, allora, alla ricerca di un
portacenere.
Lo
avvisto sulla credenza.
Ha
l’aria di non essere mai stato usato prima.
Un
souvenir delle Bahamas – ceramica dipinta ad olio con
maestria.
“Posso?”,
chiedo ancora una volta facendo sfoggio di
buone maniere, ignorando se ci sia un legame affettivo tra Warren e il
posacenere.
“Puoi…”.
La
risposta è quanto di più breve e asciutto potessi
aspettarmi, ma il tono equivale a un attacco personale.
Vi
trovo insito un rimprovero.
Il
solito
rimprovero.
Difatti.
“…
ma suppongo che potresti darci un taglio con quel
veleno”.
Non
gli do tempo di aggiungere altro.
“Affrancati
la paternale”, lo blocco
immediatamente.
Non
ha il diritto di farmi la morale.
Come
genitore non è mai andato oltre la facciata ed è
a
quella che lo relego adesso.
Quelle
che fisso quando poggio sul tavolo il pacchetto sono
due iridi impenetrabili.
Il
muro contro muro mi fa accendere l’ultima sigaretta
rimasta come se nulla fosse, aspirando vorace la prima boccata dal
retrogusto
di mentolo. Da lì alterno il tabacco al caffè,
divenuto tiepido.
Osservo
estraniato la nube di nicotina che esce dalla
finestra socchiusa, mentre mio padre finisce il proprio tè
con sorsate lunghe e
fin troppo misurate.
Fuori
impazza una pioggia torrenziale.
“Devo
uscire. Hai bisogno di qualcosa?”.
“No…
niente”.
Warren
mi trafigge con uno sguardo che mi inchioda al
muro.
“Fai
come se fossi a casa tua, mentre sono
via”.
È
il suo turno di delimitare i campi adesso, di
specificare il ruolo che ho io nella sua vita.
La
comparsa.
Un
ospite che non si manda via per mera cortesia.
Non
cedo alla tentazione di gridargli contro che,
maledizione, questa è casa mia.
Non
rispondo alla provocazione.
Mi
ripeto che la mia vita, quella vera, è a Los Angeles e
che lui non ne fa parte.
Spengo
la cicca nel souvenir.
Il
volto sorridente di una delle bahamensi rimane
sfregiato dal fuoco.
_________
/* Brano dei
Marilyn
Manson;
/**Slang
losangelino per
indicare una persona del posto;
/*** Deli
è il diminutivo “Delicatessen”,
negozio di specialità alimentari di origine straniera (le
cosiddette
“prelibatezze”), assimilabile a una salumeria nella
quale si vendono anche
sandwich e/o pasti caldi;
/****
Host del programma cult negli USA “The Ellen Degeneres
Show”.
_________
L'angolo
dell'autrice...
"Il
protagonista di
questa storia è Elijah Wood e il suo rapporto con la
famiglia, gli amici, il
successo. Detto così sembra tutto molto semplice, ma questa
storia è intensa.
Contiene tante e tante sensazioni e proprio come nella
realtà, e come da
titolo, si fa ben vedere che non sempre c'è un
“perché” alle cose. Raccontata
in prima persona, riesce nell'intento di desiderare di farsi leggere
fino alla
fine".
Questo
è stato il commento lusinghiero di Erika alla mia
storia, classificatasi al secondo posto del XV concorso di scrittura a
tema indetto
sul sito (“Fanfic su celebrità”).
Forse
non è proprio il tipo di racconto che ci si
aspetterebbe trattandosi di un personaggio famoso, ma l’idea
è nata per caso, dopo aver letto quest’intervista, e
ho seguito la cosiddetta Musa.
Se
dovessi riassumerne la trama con un paio di frasi
direi che si tratta di un tuffo nel passato che non ha la pretesa di
risolvere
nulla, né l’ipocrisia di addolcire con della
retorica semplicistica situazioni
emotivamente complesse.
L’ispirazione
me l’hanno fornita su un piatto d’argento
gli Smashing Pumpkins.
Il
titolo è tratto da una loro canzone e riassume alla
perfezione l’incapacità di spiegare il crearsi di
determinate circostanze. È
lecito chiedersi il perché, ma non sempre si otterranno
delle risposte.
I
titoli dei singoli capitoli anche corrispondono a
quelli di tracce musicali, citate da Elijah qua e là e che
hanno un legame
reale con la sua persona (ma non sempre con quanto narrato nel capitolo in sé).
Terminata
la pubblicazione della storia condividerò una
playlist così da ricrearne il mood anche sonoramente.
Non
c’è nulla di dinamico nella narrazione, al punto
da
poterla definire una non-azione.
Molto
di quanto accade, avrete notato, passa per la testa
e il cuore dei personaggi.
Grazie
per aver letto questo primo capitolo e a presto,
-N
|