Era
l’estate del 1899 quando lo vide per la prima volta, ed
avvenne nei
pressi del cimitero. Non era da molto che Albus aveva ottenuto il suo
MAGO e fatto ritorno dalla sua famiglia a Godric’s Hollow. Si
erano
trasferiti lì su volere di sua madre, dopo che suo padre era
stato
rinchiuso ad Azkaban. La morte di sua madre l’aveva obbligato
ad
abbandonare il viaggio che aveva in programma con Elphias Doge per
permettere al fratello di continuare la scuola.
Ebbene,
nel cimitero di Godric’s Hollow fu dove il suo sguardo cadde
per la
prima volta su di lui. Un giovane alto, biondo, avvolto in abiti di
un tessuto scuro, intento a studiare una delle lapidi. Il modo in cui
ne scrutava la superficie ruvida e macchiata di licheni, con
assorbimento totale e fascinazione, e le labbra appena dischiuse che
mormoravano qualche incomprensibile parola, costrinse il mago a
rallentare il passo. Non era lì per piangere sulla tomba di
qualche
parente, Albus lo intuiva. Non c’era afflizione, tristezza,
la sua
postura non faceva pensare ad una qualunque sorta di gravità
nel suo
stato d’animo. Gli aveva ricordato piuttosto un ricercatore
che
dopo anni trovava finalmente ciò che desiderava.
Albus
senza volerlo si fermò. Non gli sembrava di averlo mai visto
lì,
forse era un parente in visita, o un turista. Non un turista babbano,
loro non avevano alcun interesse in quel paese, a differenza della
comunità magica.
Lo
sconosciuto dovette accorgersi di essere osservato, perché
voltò il
capo di scatto nella sua direzione.
-
Salve. - gli disse con un sorriso sornione.
Albus
rispose con un cenno del capo ed un sorriso decisamente più
forzato
di quello che era stato rivolto a lui, ed si affrettò a
riprendere
la sua strada.
Nei
due giorni successivi non ebbe difficoltà a catalogare quel
breve
episodio come un imbarazzante occasione. Lo intravide un paio di
volte mentre era in paese, ma non gli ricapitò di incrociare
il suo
sguardo. Un paio di litigi con Aberforth furono sufficienti a
relegare il ragazzo con il sorriso malizioso nella remota periferia
dei suoi pensieri. Se ricordava correttamente, il battibecco aveva
qualcosa a che fare con delle capre, cosa ridicola sicuramente, ma
che sul momento gli era parsa importante. Così fondamentale
non
doveva essere se non era riuscito a tenerne memoria.
Il
terzo giorno lo vide nuovamente, ma questa volta anche
l’altro si
accorse della sua presenza. Avvenne dal panettiere della cittadina,
il che perlomeno era meno spiacevole che un cimitero.
Il
sole batteva insolitamente forte persino per quel periodo
dell’anno.
Forse per il torpore, forse per la stanchezza causata dal caldo, ma
quel giorno c’erano pochissime persone fuori dalle loro case.
Era
abituato alle strane occhiate che gli riserbavano per via del suo
litigioso fratello e della strana sorella semi reclusa.
Albus
aveva appena fatto la sua richiesta al negoziante, quando lo
sconosciuto entrò.
-
Salve. - il mago
ne riconobbe la voce. Era ancora una volta vestito completamente di
nero, i capelli biondi che ricadevano soffici sugli zigomi e sulle
spalle. Si domandò, Albus, se ci fosse una qualche
particolare
ragione per cui non un filo di colore s'intravedeva tra i suoi abiti,
o se semplicemente amava quella tinta. Dovevano pure fargli caldo: un
velo di sudore gli imperlava la fronte, e difatti gli erano rimaste
alcune ciocche dorate incollate appena sopra le sopracciglia.
-
Ci siamo visti l’altro giorno, o sbaglio? –
l’estraneo si stava
rivolgendo a lui, con un sorriso curioso, gli angoli della bocca
appena incurvati in su. Quando Albus esitò a rispondere,
causa la
bocca improvvisamente secca che gli aveva fatto incollare la lingua
al palato, inclinò appena la testa da un lato, come un
piccolo cenno
d’incoraggiamento.
-
Uh… certo. Credo proprio di sì. –
riuscì a biascicare il rosso,
e sperava davvero di non essere sembrato un idiota. Ma che colpa
poteva avere lui se quel giovane dalla testa dorata aveva davvero una
bellissima voce? Sarebbe stato disumano chiedergli di non distrarsi.
– Non credo di avervi mai visto in passato, però.
Siete un
visitatore o vi siete trasferito qui da poco? –
Così
doveva andare bene, pensò. Dialogo casuale, nulla di strano.
Il
sorriso del ragazzo si fece più ampio. – Mi
fermerò qui per
qualche mese. Sono in visita per… motivi accademici.
–
Albus
sollevò un sopracciglio. I babbani non avevano alcuna
ragione al
mondo per andare a Godric’s Hollow per “motivi
accademici”, il
che confermò la sua ipotesi che si trattasse di un mago. La
cittadina aveva un valore storico solo ed esclusivamente per la
comunità magica.
L’estraneo
doveva avergli letto nel pensiero, perché con un gesto quasi
casuale
della mano destra fece trapelare il manico di una bacchetta dalla
tasca.
-
Capisco. E questi motivi accademici vi hanno portato al cimitero
l’altro giorno, immagino. –
Il
panettiere gli stava porgendo il sacchetto di carta con una mano, e
teneva il palmo dell’altra aperto in attesa del denaro, che
Albus
si affrettò a contare e consegnare.
-
Non vi sbagliate. Alcune tombe sono molto interessanti. –
confermò
il biondo, e seguì l’altro mago, mentre egli si
apprestava ad
uscire dal negozio. – In questo luogo sono vissute alcune
famiglie
dalle vicissitudini singolari. Si tratta di cose che non si possono
sempre apprendere nelle aule, se mi capite… -
Nonostante
parlasse perfettamente inglese, Albus notò un lieve accento
slavo
nella parlata del ragazzo.
Mentre
era impegnato a pensare ciò, l’altro gli si era
avvicinato. Forse
gli si era avvicinato un poì troppo, di sicuro
più di quanto
farebbe normalmente uno sconosciuto.
–
Posso
farvi una
domanda? – gli chiese a voce bassa. Albus annuì
senza pensare. –
Voi siete Albus Silente, non è così? Il mio nome
è Gellert
Grindelwald. – si presentò il giovane senza dargli
il tempo di
rispondere alla domanda.
Il
nome non gli disse nulla, ma se quel giovane sapeva il suo nome, il
loro incontro non doveva essere un caso. Con apprensione
pensò che
si trattasse di un altro dei curiosi che speravano di sapere qualcosa
sulla ragazza strana dei Silente, e di infierire su di loro
riportando a galla lo scandalo causato da loro padre. Si
allontanò
di un passo da Gellert Grindelwald, rivolgendogli uno sguardo
diffidente.
-
Sì, sono Albus Silente. È un piacere fare la
vostra conoscenza, ma
posso chiedervi come sapete il mio nome? –
Gellert
sembrò esitare e misurare le parole prima di continuare.
– Non era
mia intenzione sembrarvi sgarbato o invadente. Vi ho riconosciuto da
una fotografia stampata in una delle vostre ricerche pubblicate. Mi
erano parse estremamente brillanti, e speravo di fare la vostra
conoscenza per poterne discutere con voi in prima persona. Sarei
venuto a Godric’s Hollow comunque, non pensate che voglia
perseguitarvi. –
-
Nessun disturbo. – si ritrovò a dire Albus. si
scoprì distratto
dagli occhi del nuovo arrivato. Erano particolari: mentre uno pareva
di un grigioverde, l’altro era di un affascinante color
ghiaccio. –
Non prima di domattina, però. Per la giornata, sono molto
impegnato.
–
Gellert
Grindelwald sorrise con soddisfazione. – Non vedo
l’ora. –
mormorò. – Non immaginate quale piacere sia per me
sia stato
incontrarvi. –
Albus
non ricordò molto del ritorno verso casa, né di
come esattamente si
fossero separati, di sicuro non aveva capitò
granché di cosa gli
fosse appena successo. Quel giovane era apparso di punto in bianco,
gli aveva detto di sapere chi fosse ed era riuscito a fargli
accettare di vederlo ancora, semplicemente così, con poche
frasi
soltanto, dritto al punto e senza nemmeno preoccuparsi dei comuni
convenevoli.
Albus
si rese conto di non avergli nemmeno chiesto da dove venisse, e dove
alloggiava nel frattempo. Si diede dello stupido. Come avrebbe potuto
vederlo ancora se non sapeva nemmeno dove cercarlo?
Poi
ricordò che probabilmente quel Grindelwald sapeva anche dove
lui
abitava, visto che non pareva essersi fatto sfuggire nulla. Non ci
credeva neppure un po’ che il loro incontro non fosse stato
almeno
in parte volontario da parte dell’altro.
Entrando
in casa, lasciò l’involto di carta marrone sul
tavolo, tirando
lunghi sospiri.
-
Aberforth? – chiamò. Nessuno gli rispose. Stava
per fare un altro
tentativo, quando fu interrotto da una voce sottile e flautata.
-
Nostro fratello è uscito. – Ariana gli si era
avvicinata, i
capelli biondi costretti in due trecce ai lati della testa. –
Bentornato. – disse ancora lei, con in volto appena
l’ombra di un
sorriso. Era il meglio che le aveva visto fare da molto tempo.
-
Sai dov’è andato? – sospirò
di nuovo, ricevendo una risposta
negativa dalla ragazzina. – Hai fame? –
Lei
gli rispose di nuovo scuotendo la testa.
Albus
ripensò a quel ragazzo. C’era qualcosa di
singolare in lui, come
una scintilla che gli illuminava quegli occhi bizzarri. Lo aveva
percepito dalla trepidazione nella sua voce mentre gli parlava,
c’era
un desiderio o un’aspirazione che lo colmava, che lo aveva
fatto
brillare e vibrare nell’avvicinarsi ad Albus, come un
qualcosa che
spingesse per liberarsi. Era davvero bastato poco a intuirlo, quel
Gellert Grindelwald non era particolarmente bravo a celare le proprie
emozioni.
Desiderava
rivederlo. Non sapeva perché, ma sentì
un’irrefrenabile curiosità
nei suoi confronti.
Nel
suo studio, ci arrivò in pochi secondi. Forse era
irresponsabile da
parte sua lasciare sola la sorella minore così tanto tempo
ogni
giorno, ma non era in grado di restare solo con lei a lungo, il
bisogno di immergersi nel suoi libri lo soverchiava.
Con
un colpo di bacchetta fece levitare un ventaglio, che prese a
sventolare nella sua direzione. Quell’estate era veramente
molto
caldo.
Sedette
alla scrivania e riprese in mano i tomi che aveva lasciato
lì posati
dalla sera prima. Stese un rotolo di pergamena davanti a sé,
afferrò
una piuma ed una boccetta d’inchiostro, e riaprì
il libro in cima
al mucchio al punto che aveva lasciato segnato.
ALBERO
GENEALOGICO:
FAMIGLIA
PEVERELL
Quella
notte sognò il corpo della madre riverso sul pavimento, il
viso
attraversato da segni grigiastri ed un rivolo di sangue che le usciva
dalla bocca in un fili sottili. Sentiva i lievi singhiozzi spezzati
di Ariana e le urla spaventate di Aberforth mentre la sorella tornava
ad assumere sembianze umane. Le sue dita avevano ancora la parvenza
di vorticante cenere nera.
Gli
faceva male la testa, non riusciva a respirare.
Il
volto di Kendra, digrignato dal terrore e dal dolore che doveva aver
provato, era volto verso di lui, come in segno d’accusa, o
come a
dirgli che quel fardello ora era suo da portare: mantenere il resto
della famiglia, tenere Ariana lontana dagli occhi del mondo, impedire
che la portassero via da loro.
Si
svegliò con il viso premuto contro le pagine di un libro ed
un forte
dolore al collo. Doveva essere crollato sulla propria scrivania la
sera prima. ormai era un’abitudine stare alzato fino allo
stremo,
chino sulle sue ricerche. Su alcuni punti l’inchiostro era
leggermente sbavato, e sul viso, attorno agli occhi, sentiva la pelle
secca e tirata dal sale. Si ripulì in fretta dalle tracce di
lacrime
secche.
Era
già giorno, e sentiva la voce forte e raschiante di Aberfort
sbraitare concitatamente qualcosa. Forse a loro sorella, o forse a
qualcuno alla porta. La seconda era più probabile, dato che
Aberforth raramente usava toni aspri con Ariana, e lei non dava mai
ragione di farlo.
Scese
con calma per vedere di che si trattasse, e scoprì Ariana
che
osservava di nascosto l’altro fratello. Aberforth era alla
porta,
come pensava Albus, che parlava con qualcuno, e dal modo in cui
gesticolava gli dette l’impressione che stesse tentando di
scacciare via il malcapitato. Albus intravide una camicia scura e dei
capelli biondi.
-
Ah, eccoti! – sbottò Aberforth. – Questo
qui dice di voler
parlare con te. –
Dall’altra
parte c’era l’avvenente sconosciuto del giorno
prima, Gellert
Grindelwald. Albus si fece avanti superando il fratello. –
Tranquillo, Aberforth. Ora esco, stai con Ariana, d’accordo?
–
Aberforth borbottò qualche parola d’assenso, e
occhieggiò il
biondo con sospetto e ostilità.
-
Temo di esservi sembrato un pedinatore, ieri. – gli disse
Grindelwald quando si furono chiusi la porta alle spalle. –
Stare
lì ad aspettarvi, dopo avervi cercato
appositamente… non vorrei
avervi dato una troppo brutta impressione. –
-
Non saprei dire ancora. – provò a dire Albus,
tentando goffamente
di scherzare.
-
Ve l’ho già detto, forse, ma ho visto la vostra
foto nella stampa
delle vostre ricerche, ed in un giornale. Il più brillante
studente
di Hogwarts non passa certo inosservato. Zia Bathilda mi ha detto che
siete compaesani, quindi… –
-
Bathilda Bath? – esclamò il rosso con sorpresa.
– La conosco da
anni, non sapevo avesse un nipote. –
-
Pronipote, per l’esattezza. Ora sto a casa sua. Lei mi ha
confermato la vostra identità dopo che le ho descritto il
ragazzo
che ho visto al cimitero. –
-
Posso chiedere cosa ci facevate lì? –
Gellert
rallentò il passo e gli sorrise. Eccola di nuovo, quella
trepidazione, quel luccichio vibrante di eccitazione nei suoi occhi.
– Proprio di questo volevo parlarvi.–
Gellert
gli raccontò una storia, una che Albus già
conosceva. Si trattava
della storia dei Tre Fratelli, un mito che ogni genitore aveva
raccontati ai propri figli, e che qualcuno pensava fosse più
che una
favola per farli dormire.
Secondo
il giovane, non si trattava di un semplice mito. Era convinto che i
tre manufatti donati ai tre fratelli dalla morte fossero realmente
esistiti, e prese a spiegargli le tracce e gli indizi che aveva
trovato in anni di studio, e che lo avevano condotto fino a
Godric’s
Hollow.
Aveva
un modo di parlare molto affascinante. La sua eloquenza
nell’esprimere il suo pensiero, il suo modo di gesticolare
con
eleganza e vigore, avrebbero potuto fare di lui un agitatore di folle
od un politico, se solo avesse voluto.
-
Ho letto molte delle vostre ricerche, lo scorso anno. Il vostro
metodo di analisi è straordinario. Credo che questo mi abbia
spinto
a cercarvi, Albus. – disse d’un tratto Gellert
interrompendo il
filo della sua spiegazione.
Erano
giunti di fronte alla casa di Bathilda Bath. – Io al momento
sto
con zia Bathilda. – disse di nuovo Gellert. –
Pensavo che se vi
avessi mostrato qualcosa di più concreto di alcune parole,
avrei
potuto interessarvi di più. –
Albus
acconsentì, e si lasciò guidare nella villetta di
Bathilda. Lei era
in ottimi rapporti con la famosa storica. Era stata una grande amica
di sua madre Kendra, quando questa era ancora in vita.
-
Albus caro! – lo accolse lei nel vederlo fare il suo
ingresso. –
Era più di una settimana che non ti facevi vedere! Qualche
altro
giorno, e avrei finito per convincermi che Aberforth ha solo una
sorella! –
Lo
baciò su entrambe le guance con fare materno. –
Vedo che hai fatto
conoscenza con il mio Gellert. Ti ha adescato con i racconti sulle
sue affascinanti ricerche? –
.
Qualcosa del genere, sì. – rise Albus. ora che ci
pensava, forse
lei gli aveva accennato qualcosa su un nipote, in passato. Un nipote
che frequentava una scuola di magia all’estero. Forse era da
lì
che arrivava la strana cadenza di Gellert.
-
Vuoi del tè? Una fetta di torta? –
-
Se non ti dispiace, li porto in camera. grazie per il disturbo, zia.
– le rispose il pronipote.
Tenendo
un vassoio con tazze, zucchero e un po’ di quel dolce di cui
parlava la donna, Gellert guidò Albus su per delle scale di
legno
cigolanti.
Oltre
al letto, nella camera c’erano diverse librerie a coprire le
pareti, una larga scrivania, alcune sedie e sgabelli e una
cassettiera con armadio soprastante. Il biondo posò il suo
carico su
un lato della scrivania che era rimasto sgombro dalle montagne di
libri, pergamene e bottiglie d’inchiostro che riempivano la
stanza.
-
Possiamo darci del tu? –
-
Certamente. Qui è dove vivi, quindi? –
-
Sì, ma non resterò qui molto a lungo. Me ne
andrò alla fine
dell’estate. –
Gli
fece cenno di accomodarsi su una delle sedie. Fino ad ora non gli
aveva ancora chiesto nulla del suo lavoro, solo parlato delle proprie
ricerche. Non dovette attendere molto per intuire come mai avesse
cercato proprio lui, tra tutti i grandi studiosi che c’erano,
e
perché non avesse coinvolto più di tanto sua zia
Bathilda. Ciò che
vedeva non sarebbe stato considerato storicamente rilevante dai
più,
e il motivo di tutto quel lavoro probabilmente non sarebbe stato
approvato dalla zia.
Passarono
le ore successive a sfogliare libri su libri, mentre Gellert gli
mostrava estratti di alcuni manoscritti. Il ragazzo aveva raccolto e
ordinato una spaventosa quantità di aneddoti e fatti di
cronaca che
potevano essere ricollegati ai cosiddetti Doni della Morte: strani
accadimenti, furti di oggetti apparentemente futili, maghi e streghe
ricoverati e dati per pazzi che affermavano di aver parlato con
famigliari morti da tempo.
Gellert
aveva ricostruito quella che sembrava una linea temporale che seguiva
gli spostamenti ipotetici dei tre manufatti e la lista dei loro
possessori. Aveva fatto ipotesi alternative che seguivano le varie
piste, le aveva divise per probabilità di
veridicità. Si trattava
di un’opera di richerca magistrale, Albus era impressionato
dalla
determinazione e dalla convinzione di quello stregone.
La
sua ricerca non terminava lì: aveva anche identificato
l’origine
di questo mito nella famiglia Peverell. Antioch, possessore della
Bacchetta di Sambuco, Cadmus, possessore della Pietra della
Resurrezione, e Ignotus, possessore del mantello
dell’Invisibilità:
così identificava i tre fratelli della leggenda.
Gellert
era alla ricerca dei Doni, e per questo gli serviva aiuto. Silente
era un talentuoso stregone, era abile in svariati campi della magia
che avrebbero potuto tornargli utili, e, cosa più
importante, era
già affascinato da lui.
Quello
che seguì fu un mese a dir poco esaltante. Non ci era voluto
molto
perché Albus stesso fosse preso dalla folle idea di Gellert,
la
caccia ai Doni. Aveva un ideale, il ragazzo. Voleva usare il potere
dei tre manufatti per sostenere il mondo magico e rendere migliore la
vita dei suoi abitanti, per liberarli dalla loro vita
nell’ombra,
così diceva lui.
-
Non ti fa impazzire, Albus? – esclamava a volte,
tormentandosi i
capelli. – Come si può sopportare una vita di
segretezza in cui
dobbiamo nascondere la nostra vera natura? Siamo forse i servi dei
babbani, il mondo deve girare sempre e solo attorno alla loro
tranquillità? –
E
questo accadeva nei giorni più ordinari. A volte perdeva il
controllo di ciò che diceva (così pensava Albus,
perlomeno), e
diventava più pesante. In quei giorni i babbani diventavano
una
minaccia, per lui. – Sono così arretrati e
mentalmente gretti! Hai
idea di quante cose sono fuori legge per loro, quando per noi sono
assolutamente normali? Sono peggio delle bestie! –
Purtroppo
molto ciò che diceva sui babbani era veritiero. La loro
società era
estremamente arretrata sotto molti punti di vista, non poteva essere
negato, però Albus pensava che questo non sarebbe rimasto
così per
sempre. Gellert, invece, parlava di un mutamento repentino, a suo
parere necessario. Per il bene superiore, ripeteva.
L’idea
di una rivoluzione non dispiaceva ad Albus, solo che non sempre
capiva sotto quali termini
la
intendeva Gellert. Ciononostante, non gli era difficile allontanare
questi pensieri quando Gellert gli sorrideva radioso e gli diceva
quanto fosse felice di averlo conosciuto, e di lavorare a tutto
questo assieme a lui.
Aveva
iniziato a proporgli di lavorare fuori, sul prato, sulla collina,
sotto un albero. Passavano assieme un’enorme
quantità di tempo, a
malapena Albus tornava a casa sua.
Questa
loro amicizia rendeva Aberforth tutto meno che contento. A lui
Gellert non andava a genio, né l’avrebbe mai fatto
probabilmente.
-
Non capisco cosa ci trovi in quello. – era il classico
borbottio
che Albus sentiva ogniqualvolta provasse a raccontare a lui e Ariana
di Grindelwald.
-
Da quando lo hai conosciuto, stento a riconoscerti! –
sbottò un
giorno il fratello. – Parli come lui, ti sei sentito? Dici
tutte le
sue stesse assurdità sui babbani e i non magici, sei
ossessionato da
quei Doni della Morte! Ma ci pensi a noi ogni tanto? Ci pensi a tua
sorella? È a lei e a me che tu dovresti dare più
attenzioni, non ad
un esaltato del genere! –
Quando
accadeva il giovane si sentiva stringere lo stomaco dai sensi di
colpa per ore.
Un
giorno, poi, accadde qualcosa.
Quel
pomeriggio era avvenuto un piccolo incidente: Albus aveva, nella
distrazione, rovesciato un vassoio con tè e dolcetti che
stava in
bilico su alcuni libri addosso al compagno. Fortunatamente non lo
ferì, l’acqua del tè si era raffreddata
a sufficienza da non
scottarlo, ma fece un disastro sui vestiti di Gellert.
-
Oh, Merlino! Perdonami, Gellert! – con un colpo di bacchetta
fece
raccogliere i frammenti di porcellana della teiera e li fece
riassemblare. Purtroppo non c’era modo di recuperare il cibo
e la
bevanda, così si limitò a pulire la moquette.
-
Non ti affannare, Albus. è tutto a posto. – disse
Gellert senza
battere ciglio. Anzi, forse stava addirittura accennando un sorriso.
– Non ti dispiace se io…? – non
aspettò nemmeno una sua
risposta prima di iniziare a spogliarsi dai panni lerci per infilare
qualcosa di pulito.
Anche
se gliene avesse lasciato il tempo, Albus non avrebbe saputo cosa
rispondere. Non di certo dopo che il biondo ebbe sbottonato e sfilato
la camicia, facendo mostra di una vasta distesa di pelle color crema,
immacolata, e dei sinuosi rilievi della muscolatura appena accennata.
Una
meraviglia, una bellezza squisita e frastornante, Albus non riusciva
a distogliere lo sguardo.
-
Oh, me ne è finito anche sui pantaloni! – ad Albus
quasi venne un
colpo quando Gellert iniziò a trafficare con i bottoni, e
stavolta
si costrinse a voltarsi prima di sembrare troppo interessato alla
nudità dell’amico.
Fece
comunque in tempo a cogliere la sporgenza dell’osso del
bacino e la
prima metà di una soffice curva in fondo alla schiena.
Sebbene
ripresero poco dopo le loro attività, l’immagine
lo tormentò fino
a sera.
Sdraiato
sul letto, non poté non chiedersi se Gellert
l’avesse fatto di
proposito, e cosa sarebbe successo se non si fosse voltato, o se
avesse allungato la mano per sfiorargli la schiena.
Rivide
quel miraggio come se fosse stato davanti ai proprio occhi: i vestiti
che scivolavano via, la pelle soffice, le braccia sottili ma toniche,
un capezzolo rosa che faceva capolino da sotto la camicia.
Si
sentiva tremare. Fece silenziosamente scivolare la mano sotto i
pantaloni e prese in mano la propria virilità.
Di
lì in poi fu ancora più facile focalizzarlo: i
capelli biondi che
ricadevano sulle spalle, gli occhi di due colori diversi, la sua voce
e la sua bocca. Oh, la sua bocca! Poteva immaginare mille cose su
quella bocca, a cominciare dai mille modi in cui voleva baciarlo.
Vide,
sotto le palpebre chiuse, Gellert che lo spingeva gentilmente sul
letto in cui si trovava ora, si faceva largo tra le sue gambe, e
faceva uso di quella bocca per qualcosa che l’avrebbe fatto
arrossire terribilmente alla luce del giorno, e nel mentre teneva lo
sguardo inchiodato sul suo.
Dovette
mordersi una mano per non gemere ad alta voce al pensiero.
L’immaginazione,
una volta liberata, non può essere fermata. Il suo Gellert
etereo
non aveva cessato di fare ciò che… per imitare
ciò che vedeva
nella propria mente, Albus portò il pollice a strofinare la
punta.
Una cosa simile fece il Gellert immaginario, prima di allungarsi e
stendersi su di lui per baciargli il collo. riusciva ad evocare la
sua voce come se fosse lì realmente. Un sospiro spezzato del
proprio
nome detto dall’altro ragazzo, quella fu la sua fine.
Raggiunse
l’apice con gli occhi bicolori di Gellert e la sua voce alla
mente.
Si
addormentò a malapena due minuti dopo, il viso ancora
accaldato e il
cuore che batteva impazzito.
Quella
era un punto di non ritorno.
-
Pensi che Nicholas Flamel potrebbe esserci d’aiuto?
–
Gellert
annuì vigorosamente alla sua domanda. Non avendo ancora
alcuna
traccia recente sul mantello, ed essendo quelle sulla bacchetta
ancora troppo flebili e difficili da seguire, avevano preso la
decisione di concentrarsi sulla pietra, al momento.
Non
era certo semplice cercare una pietra: non si conosceva
l’aspetto
di essa, e avrebbe potuto essere ovunque, anche gettata in una comune
spiaggia di sassi, ma se fossero riusciti a capirne il funzionamento
potevano tentare di riprodurla loro stessi. Sapendo che le origini
dei Doni erano in realtà ignote, che la storia della Morte
era quasi
di sicuro una favola, non era improbabile che fossero stati i
fratelli Peverell stessi i creatori dei Doni. In tal caso, sarebbe
stato possibile crearli di nuovo, se si fosse venuti a conoscenza
della loro vera natura e scoperto quale sorta di magia li aveva
dotati di tali poteri.
Se
si doveva parlare di una pietra per combattere la Morte, il creatore
della pietra filosofale era un buon punto da cui partire.
-
So che non sarà facile raggiungerlo a Parigi, ma credo che
ne
varrebbe la pena. Pensi di poterlo fare? – Gellert lo
guardava
speranzoso, una mano posata sulla sua spalla. Albus dovette
trattenersi dall’abbassare lo sguardo sulle proprie ginocchia
ed
arrossire.
Erano
diventati amici molto in fretta, e Gellert non sembrava disdegnare il
contatto fisico. Non era raro che gli afferrasse le braccia, si
aggrappasse sulle sue spalle o gli sfiorasse le mani distrattamente.
Albus apprezzava tutto ciò. Era bello, semplicemente bello,
stare
con lui ed avere quella complicità e naturalezza, quella
spontaneità
nel loro rapporto. Lo sarebbe stato anche di più se ogni
contatto
non avesse fatto ribollire il sangue nelle sue vene, o se non gli
fosse venuta la pelle d’oca ogniqualvolta l’altro
gli toccasse le
mani per prendere qualcosa che teneva.
-
Sì, credo di poterlo fare. Però si tratterebbe di
creare una
passaporta illegale. –
Gli
occhi di Gellert furono a pochi centimetri dai suoi appena un istante
dopo che ebbe pronunciato quelle parole. Il biondo, con le braccia
appoggiate sulle spalle di Albus, aveva catturato una delle ciocche
rosse dei suoi capelli, e li tormentava scherzosamente. – Oh,
ma
sono sicuro che tu sarai perfettamente in grado di farci arrivare
lì
senza essere intercettati. Non è forse così?
–
Il
suo finto tono piagnucoloso e il broncio erano così buffi e
fuori
luogo che scoppiò a ridergli in faccia. –
Sì, lo faccio, lo
faccio! – assentì Albus, ridendo ancora. Gellert
sorrise senza
staccare le mani da lui, poi il suo sguardo si fece più
serio. Aprì
la bocca come per dire qualcosa, poi la richiuse e abbassò
lo
sguardo. si stacco da Albus, le sue braccia corsero ad incollarsi ai
proprio fianchi.
-
Gellert? –
-
Dimmi. –
-
Ho fatto qualcosa che non va? Sei rigido come una bacchetta.
– non
appena lo disse, Gellert mise le braccia conserte e sciolse la
postura. Lo stesso non accadde al volto, però, che rimase
immobile e
distratto, sperduto.
Albus
era esterrefatto. Non era accaduto nulla, aveva soltanto riso.
-
Gellert, vuoi che riprendiamo con gli articoli di cronaca del
’56?
–
Lui
annuì. – Certo, certo. Subito. –
Ciononostante,
non si mosse per prendere i documenti in mano. Dovette accorgersene
lui stesso, perché si riscosse con un sobbalzo. –
Sì, uh…
certo. E poi, ricorda di cercare come fare la passaporta. –
Ripresero
le ricerche, e il biondo fu stranamente silenzioso per le ore che
seguirono, fino a quando Albus non gli disse che doveva tornare a
casa per badare ad Ariana.
Gellert
non cessò quel suo strano comportamento per tutta la
settimana che
seguì. Non fu mai quanto quel giorno, ma c’era una
certa
accortezza nel modo in cui si approcciava ad Albus. a volte gli
sembrava che esitasse a toccarlo, e dopo che mantenesse il contatto
più del necessario. Una mattina lo sorprese ad osservare lui
invece
che a leggere le pergamene che aveva posato sulla scrivania. Quando
il ragazzo, vedendosi osservato a sua volta, sussultò e
tornò in
fretta a scrutare le rune scritte fittamente sui fogli, Silente non
poté fare a meno di sperare che fosse significato qualcosa.
Costruire
una passaporta, di per sé, non era eccessivamente difficile.
Aveva
tutte le competenze e le conoscenze che gli servivano per farlo, non
dubitava delle proprie capacità. La parte complicata era
un’altra:
far in modo che non fosse tracciabile. Ogni magia di quella portata
era percepibile, e il Ministero non ammetteva passaporte non
regolamentate. Albus doveva far sì che passassero sotto il
loro naso
senza che se ne rendessero conto.
Ci
impiegò otto giorni, alla fine. Lavorò giorno e
notte per elaborare
ogni sfumatura dell’incantesimo. Ciò che ottenne
fu la formula per
una passaporta perfettamente invisibile al Ministero, il loro mezzo
per andare e far ritorno da Parigi senza che si venisse a sapere
nulla.
Non
disse nulla ad Aberforth, solo che sarebbe stato via un giorno o due
con Gellert Grindelwald. Il fratello non ne era entusiasta, ma oltre
ad un grugnito non disse nulla.
Gellert
aveva insistito per essere presente quando avrebbe infine tramutato
un oggetto in passaporta. Lo osservava, ora, con il fiato sospeso
mentre puntava la bacchetta su un pezzo di metallo ricurvo che aveva
trovato per strada. Aveva già lanciato i vari sortilegi per
celarlo
al Ministero.
-
Portus. – mormorò. L’oggetto
brillò qualche istante, poi torno
apparentemente come prima.
Gellert
lo sfiorò in punta di dita. – Straordinario.
– la voce gli
tremava appena. – Sei straordinario, Albus. –
La
passaporta ora stava tra le mani di Albus. dopo solo un attimo di
tentennamento, Gellert le ricoprì con le proprie, di poco
più
grandi, e sembrò soppesare quel ferro deformato e ossidato.
Poi fece
un piccolo movimento del pollice, una, due volte, e ancora,
finché
Albus non si rese conto che gli stava accarezzando il dorso della
mano. Alzò lo sguardo suk suo viso affilato. Gellert lo
guardava con
un’intensità che lo fece quasi retrocedere.
-
Andiamo a Parigi oggi. Andiamo da Flamel subito. – gli disse
con
trepidazione. – Per favore. – aggiunse poi.
Albus
non poté dirgli di no.
La
passaporta li aveva fatti atterrare sul limitare di un viale
alberato, e poco ci mancò che fossero visti da un babbano
che
passava nelle vicinanze. La cosa fece ridere Gellert, con grande
sconcerto del compagno.
Da
quel punto, ci volle un po’ per trovare
l’abitazione di Flamel.
Nessuno di loro due era pratico delle vie di Parigi, e il sistema
degli arrondissement non aveva in Inghilterra simili corrispondenti a
cui potessero far riferimento. Perlomeno, la via dove poterlo trovare
non era ignota.
-
È sempre una bella sorpresa vedere dei giovani. –
il vecchio mago
li aveva accolti con benevolenza. Albus aveva già scritto
qualche
lettera all’alchimista per scambiare qualche opinione
accademica
con lui (e per chiedergli se sarebbe stato favorevole a lavorare
assieme a lui in futuro), e doveva dire che non era esattamente come
l’aveva immaginato. Era più grazioso, e molto meno
serio. – Dà
una certa allegria, mi capite? –
I
due ragazzi annuirono energicamente, senza capirlo assolutamente.
D'altronde, come potevano due ragazzi capire come si sente un
vecchio?
Peronella,
la moglie del mago, sedeva al suo fianco su un vecchio divano
polveroso, e sorrideva loro con dolcezza e con una punta di malizia
che fece arrossire il giovane Albus. aveva l’impressione che
stesse
osservando dove Grindelwald tamburellava le dita (ovvero vicino alla
clavicola di Albus, visto che il biondo aveva un braccio sulle sue
spalle e la mano che ricadeva vicino al suo collo).
Parlare
con i coniugi fu illuminante, sebbene non li fece progredire molto
nella loro ricerca. Gellert pensava che la pietra filosofale potesse
avere qualche elemento comune con l’ipotetica Pietra della
Resurrezione. Fece un vago accenno alla possibilità che
quest’ultima
si potesse creare, ma abbandonò l’idea in men che
non si dica.
Flamel fu molto categorico nell’illustrare come la
possibilità
fosse pari a zero, e che la sua pietra non avesse nulla che potesse
riportare i morti in terra.
-
La pietra filosofale tiene in vita il mio corpo. Ma riportare
indietro i defunti? Non si tratta solo del corpo, dovresti riportare
indietro la loro coscienza. Io non posso aiutarvi in faccende simili.
–
Dopo
qualche ora di discussioni, avevano finito per cambiare argomento, e
quando i due ragazzi si congedarono, già da un bel pezzo i
Doni
della Morte non erano più l’oggetto del discorso.
Gellert
ara già in strada prima che Albus uscisse del tutto dalla
porta. La
signora Peronella lo fermò mentre stava per scendere i
gradini
all’ingresso. Gli fece un cenno con la testa verso il
compagno. –
Sono felice per te. – gli disse con un tono di
complicità, e lo
lasciò andare.
Fu
strano tornare a Godric’s Hollow. Quelle ore trascorse
assieme,
lontano da parenti e conoscenti, gli erano parse come un sogno, una
fuga in un regno lontano. Era stato bello in un modo che non seppe
descrivere, ed ora sentiva di nuovo un peso nello stomaco.
Per
fortuna la passaporta li aveva riportati in cima ad un colle a venti
minuti a piedi dal centro del paese. Avevano ancora un po’ di
tempo.
Gellert
però esitava ad incamminarsi. – Se vuoi possiamo
restare qui
qualche minuto ancora. –
Passò
ben più di qualche minuto, e Gellert per ogni istante
sembrava sul
punto di dirgli qualcosa, soltanto che finiva per cambiare idea ogni
volta.
-
Albus. – mormorò ad un certo punto con voce
tremante. Albus sentì
le dita di Gellert stringersi attorno alle sue. – Vorrei
poterti
parlare in completa sincerità, ma temo ciò che
potresti pensare di
me. –
Sempre
tenendogli con dolce fermezza la mano, il giovane si sedette
lentamente a terra. L’erba era umida di rugiada, ma nessuno
dei due
badò a questo, e il rosso si calò anche lui a
sedere vicino
all’amico.
-
Puoi dirmi qualsiasi cosa, lo sai bene. – lo
incoraggiò, il cuore
in gola. Era sempre riuscito a sentire il proprio battito con tale
chiarezza?
Gellert
fece una mezza risata alle sue parole, una risata nervosa. Albus
rimase stupito dalla chiarezza con cui ormai era in grado di leggere
le sue emozioni. La tensione, l’insicurezza, le risate finte,
erano
limpide come l’acqua ai suoi occhi. Ma quel tormento che
leggeva
nel suo volto, era nuovo. Non l’aveva mai visto nel viso del
compagno, mai era trapelata quella sorta di brama tentennante.
-
Tu mi affascini, Albus. – disse in un soffio. –
Quando ti sento
parlare, quando ti vedo chino sui libri, io mi trovo a pensare che
vorrei essere nella tua mente. Vorrei capire come vedi le cose,
sentire ciò che senti, distruggere ciò che ti
affligge. E senza
alcuna ragione o secondo fine, soltanto perché sei tu.
Io… - si
fermò a riprendere fiato: aveva parlato quasi senza
respirare. Una
febbrile trepidazione lo rendeva irrequieto. – Io desidero la
tua
presenza in ogni istante. Parlare con te, ridere con te. Oppure anche
solo starti accanto, senza far nulla in particolare. Io ne ho la
certezza. Se potessi legarmi a te per sempre… -
-
È possibile. – lo interruppe Albus. – Se
tu lo desideri, è
possibile. –
Strinse
con forza la mano di Grindelwald, che lo fissava a bocca aperta, come
un animale selvatico colpito dalla luce di una bacchetta. –
Ma devi
prima dirmi in completa sincerità e a cuore aperto se
è davvero ciò
che vuoi, perché io lo voglio con assoluta certezza. Se tu
mi
illudessi per poi perdere interesse in me e sparire, non potrei
sopportarlo. – non sapeva da dove venisse tutta quella
determinazione, ma sembrava aver placato parte del timore di Gellert.
Non tremava più come prima, anzi, gli occhi gli si erano
accesi di
una luce speranzosa.
-
Anche tu…? – sul suo volto iniziava a comparire
l’ombra di un
sorriso sollevato. Quello stupore, quella luce che lo illuminava,
erano le stesse di un bambino che per la prima volta vede il mondo.
-
Gellert, se mi chiedessi di seguirti in capo al mondo, io lo farei.
Voglio stare con te. Desideri legarti a me? Ottimo, non aspettavo
altro. –
Gellert
stette per lungo tempo senza proferir parola, lo scrutava soltanto
con meraviglia, tanto che Albus iniziò a sentire quel
coraggio che
aveva raccolto farsi meno, ed un potente imbarazzo prese il
sopravvento e gli infiammò le guance.
Poi,
però, Gellert si porse verso di lui, e dannazione, quanto
facilmente
avrebbe potuto annegare in quegli occhi! Si fermò a pochi
millimetri
dal suo vis. Sentiva il suo fiato caldo sulla bocca. Sarebbe bastato
così poco, così poco!
-
Sì, sì. Legati a me, ti prego. Andremo ovunque
vorremo, non abbiamo
bisogno di nessun altro. – sussurrò Grindelwald.
Un nodo strinse
lo stomaco del più vecchio, si sentiva formicolare le
membra.
-
Allora facciamolo, ora. Facciamo un patto di sangue. –
Non
ebbe bisogno di parole per capire la risposta di Gellert. Si alzarono
lentamente. Un silenzio quasi religioso era calato d’un
tratto.
Se
l’avessero fatto, non ci sarebbe stata una via di ritorno.
Era
giusto così, non voleva che il loro legame potesse venir
reciso con
tanta facilità.
Albus
estrasse la bacchetta, invitandolo con un cenno a fare altrettanto.
Quella
che uscì sussurrata dalle sue labbra era una cantilena in
latino
finemente composta e raffinata da stregoni e streghe secolo dopo
secolo. Il giovane dai capelli dorati ripeteva parola per parole al
suo seguito, incapace di distogliere lo sguardo dal viso
dell’altro.
Attorno
a loro, eccezion fatta per le loro voci, c’era un grande
silenzio.
Albus non osava neppure parlare più forte di quanto facesse
ora,
seppur la sua voce fosse poco più di un soffio di vento.
Percepiva
con spaventosa consapevolezza le trame dell’incanto che si
tessevano man mano, che stringevano un filo dolce e inesorabile tra
loro.
Per
l’enormità di ciò che compiva,
l’incantesimo non impiegava
molto tempo a concludersi. Non erano passati che alcuni minuti quando
la cantilena giunse al suo termine.
Gellert
lo guardava dall’alto in attesa, e lui chiuse gli occhi con
un
sospiro. allungarono le mani l’uno verso l’altro.
Strinsero forte
le dita assieme, l’energia che fluiva da Albus a Gellert e
viceversa. Due gocce di sangue furono l’unico segno fisico di
ciò
che stava accadendo. Due gocce che si staccarono dalla punta delle
loro dita e si sollevarono in aria per congiungersi. Quello era il
sigillo del sortilegio, ciò che avrebbe negato ogni via di
scampo da
quel legame indissolubile. Attorno alle gocce prese forma un piccolo
gioiello che le racchiudeva. Poi cadde tra le sue mani, come un
gingillo qualunque.
Era
fatta.
Entrambi
guardavano sbalorditi quel ninnolo scintillante. Così
piccolo, così
insignificante. Quell’oggetto era tutto ciò che
contava nel mondo
intero. Silente lo portò con dita incerte alla tasca del
panciotto.
Si
ritrovò avvolto da due braccia calde, ed una massa di
capelli biondi
gli solleticò il viso. Febbricitante per
l’emozione e
l’incredulità di ciò che avevano fatto,
ricambiò la stretta con
tutta la forza che aveva. Si staccò dopo poco da Gellert
solo per
prendergli il viso tra le mani e posargli un bacio leggero sulle
labbra.
L’altro
sgranò gli occhi come un bambino, poi scoppiò in
una risata di
gioia. Lo strinse di nuovo, premette la bocca sulla sua. Gellert
aveva un buon sapore. Sapeva di erbe e caffè, Albus avrebbe
potuto
restare incollato a lui per anni ed anni senza stancarsi. Quando
finalmente si staccarono con uno schiocco umido, il più
giovane
aveva gli occhi lucidi e trasognati, ed un ciuffo di capelli che gli
si era appiccicato alla fronte. Albus era sicuro di non essere in
condizioni migliori.
-
Albus…? – chiese con voce ansimante il compagno,
scoccando
un’occhiata al terreno imperlato di rugiada.
-
Sì. – rispose con semplicità e con una
determinazione che non
sapeva di avere.
Grindelwald
gli sfilò la giacca e lo invitò a stendersi sul
prato, con
delicatezza. Lui si lasciò reclinare all’indietro,
e sistemò la
giacca così che facesse da barriera tra lui e il freddo
della terra.
Per fortuna non era inverno.
Un
bottone alla volta, Gellert si stava facendo strada tra i suoi
vestiti, con la calma e la meraviglia di chi apre un’ostrica
e teme
di perderne il contenuto. Per quanto tutto ciò lo facesse
arrossire,
Albus dovette venirgli incontro e aiutarlo a togliere di mezzo tutto
quel tessuto inutile e fastidioso il più in fretta
possibile.
Con
un sospiro liberatorio, Gellert premette il viso contro la sua pelle
nuda, e bacio dopo bacio impresso sul petto del maggiore, raggiunse e
prese tra le labbra un capezzolo roseo. Ora fu Albus a sospirare,
mentre il ragazzo lo stuzzicava con la lingua, e sporse le mani per
liberarsi anche dei vestiti che Gellert aveva ancora addosso.
Lo
tirò in giù, verso di sé, bisognoso di
sentire la sua pelle
bollente premuta contro la propria. Lo baciò di nuovo
più
pigramente e languidamente. Non era una battaglia quella che si
svolgeva tra le loro lingue, più uno scivolare coordinato,
il
mergersi di entità che tendevano l’una verso
l’altra.
-
Per caso hai…? – chiese Gellert, con voce incerta.
-
Sì, incantesimo. – Albus gli prese la mano e
sussurrò qualche
parola in latino. Ora le dita del compagno luccicavano di una
sostanza oleosa e profumata. Piccoli trucchi che si trovano nei diari
di alcuni stregoni molto libertini. Albus divaricò le gambe
con
lentezza, permettendo al compagno di sdraiarsi tra di esse, mentre
avvicinava le dita al suo luogo più intimo. Ancora una volta
lo
guardo negli occhi per chiedere il permesso, e ancora una volta gli
fu detto di sì.
Nonostante
Gellert stesse facendo uso di tutto il controllo che possedeva per
entrare il più delicatamente possibile, dopo aver cercato di
prepararlo come meglio poteva, Albus si lasciò sfuggire un
lieve
gemito di fastidio e dolore. Non era nulla di sconvolgente, ma era
passato davvero troppo tempo dall’ultima volta che
l’aveva fatto
con qualcuno, a Hogwarts, e il suo corpo non era più
abituato.
Il
compagno si fermò per dargli il tempo di abituarsi e
rilassare i
muscoli. Il suo respiro era affannoso, e le sue membra tremavano;
Albus sapeva che non muoversi gli costava ogni briciolo della sua
volontà. Lo sguardo di pura adorazione che aveva per lui,
però, era
tutto fuorché impaziente.
Dopo
poco, ad un suo cenno, iniziò a muovere i fianchi con
cautela, ad
uscire e rientrare tentativamente, morbidamente. –
Più forte? –
chiese ad Albus. come risposta ottenne un gesti deciso della testa.
Da
dietro gli occhi appannati, il volto di Gellert si era fatto
vagamente appannato, tenerli aperti diventava più difficile
man mano
che il leggero bruciore veniva sostituito da una sensazione di
piacere intenso.
-
Sì, sì. Più forte. –
ansimò. Gellert obbedì senza farselo
ripetere, spingendosi più a fondo e con più
decisione. Il calore
che lo stringeva era soverchiante. Si stava sciogliendo, si stava
sciogliendo per fondersi con il suo amante.
Qualcosa
gli stringeva il petto. Forse erano le braccia di Albus, forse era
quella bolla di gioia che cresceva, non sapeva dire quale dei due
fosse.
Albus
a sua volta lo stringeva forte e gli veniva incontro con il bacino.
-
Ti amo. – sospirò il biondo. Fu molto facile e
naturale dirlo,
molto più di quanto avesse immaginato. – Ti amo,
Albus, io ti… -
trattenne il fiato. Il corpo del compagno si contrasse attorno al
suo, mentre raggiungeva l’apice con un sospiro.
Erano
state le sue parole? Gellert desiderava tanto che fosse così.
Con
un’ultima spinta venne anche lui dentro al compagno. Il
calore, non
poteva descrivere cosa fosse.
-
Mi togli le parole di bocca, Gellert. – poco più
di un mormorio,
valeva più che se l’avesse urlato.
Si
lasciò scivolare a fianco dell’altro ragazzo,
senza smettere di
tenerlo vicino e accarezzargli la schiena e i fianchi.
Avrebbero
passato la notte lì, in quel modo, se questo non avesse
rischiato di
destare sospetti nei loro parenti. Prima o poi sarebbero dovuti
rientrare, ma per qualche minuto ancora non osarono muoversi.
Chi
sapeva cosa sarebbe potuto succedere se si fossero spostati?
Chi
sapeva se quell’incantesimo si sarebbe infranto? No meglio,
non
muoversi di lì, meglio tenere il mondo al di fuori e
continuare a
sognare.
Come
a leggere loro il pensiero, una brezza leggere si alzò,
portando un
lieve profuma di terra ed erba, riportandoli alla realtà.
Silente
spesso si era chiesto se, avendo potuto sapere in anticipo cosa il
futuro avrebbe portato loro, avrebbe comunque scelto di stringere il
patto di sangue, o anche solo di avvicinarsi a colui che sarebbe
diventato uno tra i più pericolosi maghi oscuri e la sua
nemesi.
Alla
fine, la risposta che si dava era sempre la stessa.
Si,
lo avrebbe fatto comunque.
Sì,
tutto quanto.
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