Una
densa oscurità circonda il mio sguardo.
Sgomento,
giro la testa da una parte e dall’altra. Dove sono finito?
Non
capisco. Perché non vedo nulla?
Tremo.
Un vento gelido sferza le mie spalle.
Ad
un tratto, un fascio di luce obliqua, come un riflettore, dilania
l’aria.
Sbarro
gli occhi. Appeso ad una croce di ferro, seminudo, scorgo il corpo di
Andreas.
Sul
suo corpo scorgo i segni del violento impatto.
Sangue
sgorga dalle sue membra dilaniate.
Con
un regolare, macabro gocciolio cade.
Questo
rumore fastidioso si amplifica nella mia mente.
Ad
un tratto, la sua testa, lenta, si solleva e i suoi occhi azzurri,
sbarrati in una mashera di dolore, fissano i miei.
E
mi accusano di averlo ucciso.
Urlano
la mia colpa!
Apro
la bocca, ma solo un rantolo esce dalle mie labbra.
Non
posso difendermi dalle sue accuse silenziose.
Io
ho ucciso quel giovane.
Il
suo nome rosseggia sulle mie mani.
Arretro.
No, non voglio vedere il suo sguardo.
E
cado in un burrone irto di spine.
Con
un grido, Genzo si alzò a sedere sul letto, il volto pallido e
velato di sudore e gli occhi vitrei, fissi in un punto indefinito.
Si
posò una mano sul petto, sollevato da ansiti sempre più
rapidi e brevi. Di nuovo, il suo sonno era stato tormentato dal corpo
straziato di Andreas Schumann, emerso dalla tenebra.
Aveva
la stessa espressione vitrea, quando lo aveva visto disteso sulle
strade di Amburgo.
Violenti
brividi scossero il suo corpo e, d’istinto, il giovane portiere
strinse i pugni. Aveva scelto di abbandonare il calcio per non
danneggiare l’Amburgo e la nazionale nipponica e si era
ritirato in Romania.
Nessuno
doveva patire le conseguenze del linciaggio mediatico da lui subito.
A
passo rapido, si avviò verso la finestra e guardò
fuori.
Il
paesaggio dei Carpazi, verde di foreste, era velato dalla luce
argentea della luna, che risplendeva solitaria in un cielo purissimo,
simile ad uno zaffiro.
L’astro
notturno, con i suoi raggi, illuminava le case e le chiese del
villaggio, addormentate nel silenzio.
Genzo
sospirò. Era una terra splendida, quasi senza tempo, ma non riusciva a trovare pace e a godere dello spettacolo magnifico della natura.
Quell’armonia sublime sembrava quasi beffarsi delle sue
sofferenze e del suo tormento.
I
ricordi della tragedia accaduta in Germania lo seguivano, come
un segugio infernale.
Si
strinse con più forza la testa tra le mani, tremando, lo sguardo fisso sul
paesaggio.
Due
mani, caute, gentili, si posarono sulle sue spalle.
Genzo,
sentendo quel tocco leggero, sussultò, poi si rilassò.
Si
girò e il suo sguardo incontrò gli occhi di Ken, lucidi
di preoccupazione.
– Vuoi
parlarne? – azzardò il karateka, cauto. Ne era sicuro,
aveva avuto un incubo collegato a quel tragico incidente in Germania.
In
quei giorni, niente riusciva a destabilizzarlo come il ricordo di
quell’evento luttuoso e delle sue implicazioni.
Quell’urlo,
così lacerante, lo aveva svegliato e gli aveva rivelato la
realtà della sua pena.
Ne
era convinto, il suo sonno era tormentato da quei ricordi.
Durante
il giorno, in parte, Genzo riusciva a controllare la sua amarezza,
grazie ad una formidabile forza di volontà, ma, con l’arrivo
della notte, la sua resistenza si disgregava, come un castello di
sabbia lambito da un’onda marina.
L’ex
titolare dell’Amburgo esitò. Il suo rivale aveva
compreso la ragione della sua pena e, con cautela, gli chiedeva se
volesse parlarne.
Chiuse
gli occhi e si appoggiò un poco contro il petto dell’altro.
Quel tocco, così silenzioso e gentile, quietava un poco il suo
cuore, percosso dal martello del rimorso.
Eppure,
non riusciva a parlare della tragedia.
Le
parole si impigliavano nelle sue labbra e gli pareva di avere la
bocca ingombra di sale.
Sospirò.
Non si sentiva ancora degno del conforto che gli avrebbe dato una
simile confidenza.
Impietoso
crudele, il suo cuore gli ricordava l’atrocità della sua
colpa.
Nella
sua mente, rivedeva i volti dei familiari di Andreas, bianchi di
sofferenza, su cui spiccavano occhi rossi di lacrime e ardenti
d’odio.
Gli
sembrava quasi offensivo tornare ad una vita normale, con le sue
gioie e le sue pene.
Andreas
non avrebbe più potuto spendere la sua esistenza per la
comunità, come aveva sempre desiderato.
Con
quale diritto il suo assassino poteva essere felice?
– No.
Perdonami Ken, ma non riesco a parlarne. Non ancora. –
sussurrò, il tono stanco.
Chiuse
gli occhi e si irrigidì, cercando di frenare le lacrime. Si
vergognava di avere ceduto a quel moto dell’anima, quando aveva
veduto Ken.
Eppure,
egli non lo aveva criticato e aveva accolto la sua pena, senza alcuna
parola di biasimo.
E,
non poteva negarlo, si era sentito bene tra le braccia del suo
rivale.
Il
marzialista non rispose e accentuò la presa delle sue mani sulle spalle dell'altro. Avrebbe desiderato una risposta differente, meno
malinconica, ma non era stupito.
Genzo
sentiva su di sé il peso del senso di colpa e tale emozione
imbrigliava e soffocava la sua mente.
Gli
impediva di perdonare se stesso e di ricominciare a vivere in
pienezza le sue emozioni.
Questo
era preoccupante, ma, oltre ad una vicinanza silenziosa, non poteva
offrire altro.
Eppure,
nonostante il suo stato di prostrazione, cercava di condurre
un’esistenza dignitosa, per quanto isolata e lontana dalla sua
indole.
Come
un funambolo, camminava su una fune sottile, sospesa tra il cielo
della razionalità e l’abisso della disperazione.
No,
non poteva pretendere da lui un miglioramento repentino e duraturo.
– Non
avere fretta. Non mi devi niente. Fai un passo alla volta e pensa a
curare le tue ferite. Tutto il resto è secondario.–
rispose Ken, calmo.
Genzo,
sentendo quelle parole, si rilassò, poi si girò e
sollevò le labbra in un sorriso. Non avrebbe mai immaginato
una tale pazienza nel suo rivale e compagno di squadra.
La
sua mente provata si sorprendeva di un simile riguardo verso di lui,
dopo un tale, nefasto evento.
– Ti
ringrazio, Ken. –
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