At the end of this.
“…Come
ti senti?”
“Bene.”
Quanto tempo era, ormai, che Watanuki
poneva quella stessa,
identica, ossessiva domanda?
Nessuno lo sapeva. Forse solo i muri
della sua prigione
dorata, dove il tempo si fermava in lunghi, caldi attimi
d’attesa, aspettando
che le prime vittime del suo inesorabile scorrere si facessero avanti.
Ma lui no.
Era strano, all’inizio,
svegliarsi sempre con la solita
faccia, senza vedere alcun cambiamento: nessun pelo sul petto, sul
mento. Niente
voce roca, niente denti del giudizio.
Dopo una ventina d’anni,
divenne un incubo.
E Doumeki, il suo compagno e prima
ancora amico,
invecchiava.
Inesorabilmente.
Ci volle una notte di luna piena, con
la pallida luce che
filtrava sul loro futon sfatto, per far vedere a Watanuki alcune
piccole rughe
sul suo volto rilassato, che la luce del sole non aveva mai rivelato,
per
qualche crudele scherzo della vita.
E sì, ora si rimembra il
momento in cui Watanuki iniziò a
porre quella domanda. Fu esattamente dopo quella notte, dopo che ebbe
pianto
come un bambino sul cuscino accanto al volto di Doumeki, impregandolo
di
lacrime amare e singhiozzi repressi.
Lo chiedeva appena si alzavano e
subito prima di
addormentarsi, forse perché mentre dormiva non aveva il
potere di vegliare sull’uomo
che amava, come un angelo custode sul suo possessore.
Durante il giorno i suoi occhi si
fecero attenti, e il suo
corpo sempre pronto a qualsiasi cosa: una caduta, uno sforzo eccessivo,
una
carezza in più.
E Himawari, l’unica persona
che veniva a trovarli minimo una
volta a settimana, sorrideva come aveva sempre fatto, con il viso dolce
segnato
anch’esso dalle primavere passate.
Il povero Tampopo, con le piume un
po’ meno in salute dei
suoi primi trent’anni di vita, non svolazzava più
allegro attorno alla sua
padrona, ma si limitava a starle sulla spalla, cantando con la sua voce
melodiosa una qualsiasi sequenza di cinguettii per rendere felice la
sua
padrona e i suoi amici, mentre i tre giocavano a maijong e bevevano
sakè sul
terrazzo in legno scuro.
Watanuki, più di una
volta, lo aveva invidiato.
Sapeva, come anche Himawari ormai
aveva intuito, che la vita
del piccolo uccellino era legata indissolubilmente a quella della sua
ex
compagna di scuola. Insieme avrebbero raggiunto la fresca terra, e
avrebbero
trovato riposo nello stesso istante.
*
E fu esattamente così.
Quando Doumeki riportò
sulle sue spalle ancora in forze i
resti della povera Himawari, teneva stretto in una mano anche il
piccolo
uccellino.
Affermò di averli trovati
insieme, lei stesa sul letto della
sua casa e lui sopra il suo petto.
Watanuki non poté
reprimere il desiderio di donare una
lunga, dolce carezza hai capelli ormai bianchi della sua amica, che per
anni e
anni non aveva potuto accarezzare, sapendo bene cosa rischiava con quel
velenoso contatto.
Percorse lentamente con le dita i
suoi riccioli perfetti,
piangendo.
Stette così per ore, una
mano sul capo della donna e l’altra
sul piumaggio del piccolo uccello, senza un solo singhiozzo udibile da
Doumeki,
sempre alle sue spalle.
*
Quando si staccò da
entrambi, era ormai notte.
Li seppellirono lì, nella
stessa fossa scavata nel giardino,
battendo bene la terra perché non si vedesse nulla.
Nessuno, da quel momento in poi,
sarebbe potuto andare a
disturbare il loro sonno.
*
“A che
pensi, Kimihiro?”
La voce
dell’uomo al suo fianco lo scosse dai pensieri del passato, e
Watanuki lo guardò, istintivamente.
Le sue mani erano
ormai rugose, e una fitta coltre di neve era scesa
sui suoi capelli, coprendo il nero brillante della gioventù.
Ma gli occhi, quelli
erano sempre rimasti uguale.
Gli occhi, il loro
primo legame.
Sorrise, Watanuki,
abbassando lo sguardo.
“A nulla,
Shizuka.”
*
Passo ancora qualche anno, e poi
accadde.
Maru e Moro piangevano, mente
attendevano al di là delle
porte scorrevoli della camera dal letto.
Quando si spalancarono, un volto
eternamente giovane
avvizzito dal dolore gli passò accanto, e loro non ebbero il
coraggio di
muoversi.
Watanuki portò da solo la
salma, avvolta in un velo bianco,
e la posò a terra, nel giardino, scoprendone il volto.
Doumeki era lì. Era
lì, freddo come il ghiaccio e come la
neve sul terreno che bagnava il telo in cui era avvolto, con le labbra
chiuse e
gli occhi altrettanto sigillati.
Il corpo di Watanuki fu scosso dai
singhiozzi, ma una sola
parola fu pronunciata con tono umido di lacrime.
“…Shizuka…”
Gli donò poi un ultimo
bacio, e la terra ricoprì ciò che le
era appartenuto da sempre.
Quando il lavoro fu finito e Watanuki
si rialzò, le mani
sporche di terra e sangue, un inconfondibile odore di pipa si spanse
per l’aria,
accompagnato dalla consistenza del fumo grigio che si materializzava di
fronte
hai suoi occhi, rendendo il paesaggio invernale, se possibile, ancora
più
triste.
Sorrise, però, fra le
lacrime, girandosi verso la donna che
aveva alle spalle e che aveva sentito arrivare fin da quando
l’ultimo battito
del cuore del suo amato si era spento addosso al suo petto.
Sorrise, felice per quella
apparizione e per ciò che ne
seguì.
“Adesso
posso andare
anche io… Vero, Yuuko-san?”
*
Se qualcuno di voi dovesse passare
per il negozio di Yuuko,
a Tokyo, vi prego di fermarvi per un istante a contemplare il giardino
di
quella quanto mai bizzarra abitazione.
Vi prego di donare uno sguardo alle
tre lapidi di pietra nera che
son piantate a terra, all’ombra dei ciliegi, sempre piene di
fiori freschi e di offerte.
Vi prego di posare un pensiero, solo
uno, a quelle tre anime
che riposano lì per sempre.
Salve, sono di nuovo
io.
Perdonatemi per aver
scritto una cosa così triste, ma mi gironzolava in
testa da parecchio tempo e dovevo buttarla giù.
Il risultato non mi
è piaciuto per niente. Nemmeno un po’.
Spero che a voi
ispiri qualcosa. Per me, qui c’è una minima parte
di
ciò che volevo veramente intendere.
Questa è
la mia prima e credo ultima fanfic su XXX Holic.
Voglio tanto bene a
questo manga.
Un bacione,
Rika.
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