Cosa dice la pioggia

di SibillaCubana
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Cosa dice la pioggia


 
La residenza di Luigi Aureli era divisa, come la Gallia, in tre parti.
Alcune stanze della prima erano riservate a lui stesso, ma ben più numerose erano quelle destinate alla moglie che, a causa del male al cuore, non poteva fare sforzi.
Attraverso un lungo corridoio si giungeva alla seconda, abitata dal figlioletto Tito.
Il ragazzo se ne stava rintanato in camera, e leggeva l'enciclopedia. Ogni pomeriggio esplorava una voce diversa, poiché un mattino d'estate s'era messo in testa di impararle tutte a memoria. Molti anni dopo, il giorno prima di salire all'altare, sarebbe riuscito a rammentarla in sequenza dalla A alla R. E infine, sul letto di morte, avrebbe maledetto il mondo moderno, che non faceva che aggiungere a quelle pagine scoperte e considerazioni, di modo che l'ultima definizione che gli era concesso ricordare, di fatto, non era più l'ultima.
Talvolta, dalla sua postazione di lettura, Tito Aureli allungava oziosamente una mano per pescare un cubetto di ghiaccio dal secchio che teneva ai piedi del letto: se ne nutriva da un paio di mesi; abitudine, questa, ereditata dal padre.
Le scale, raggiungibili anche dall'ingresso sul retro, conducevano infine alla terza parte, dove viveva Agata Aureli.
Annoiata, indolente, stava distesa supina e teneva le gambe magre sollevate, mentre le sue dita si muovevano veloci sullo schermo del telefono. Quella superficie liscia, talvolta leggermente viscida, la cui luce le rimaneva impressa nelle retine, era spesso l'unica finestra che desiderava avere sul mondo. Scorrendo rapide verso il basso, le foto, gli impulsi sonori e i concetti si mescolavano l'uno sull'altro, in una congerie confusa e poco digeribile che era per lei fonte di piacere.
I corpi degli uomini e delle donne, affannosamente ostentati, sempre alla ricerca di una forma che superasse quella degli altri, le provocavano una sorta di compassionevole curiosità, che le dipingeva un armonioso sorriso sulle labbra.
Rideva spesso, Agata: rideva ai commenti sotto alle sue foto, che lei voleva tutte uguali, per mostrare i capelli biondi, gli occhi color nocciola e il sorriso da fata. Alcuni la osannavano per quanto era bella, altri la offendevano, altri ancora le chiedevano cosa avrebbe potuto fare con la bocca e con le mani.
Agata, con la bocca, rideva: le piacevano la vanità, la disperazione e il deperimento.
Non le piaceva quando il suo bislungo oblò sul cosmo, per un'interruzione della linea, diventava un semplice rettangolo luminoso, capace di dirle che ora fosse, o poco più. In quei momenti, il suo petto veniva colto dall'ansia, e non poteva fare che aspettare.
Non pensava mai al tempo, in verità non remoto, in cui Triedica non era che un villaggio, fatto di capanne abbarbicate senza criterio attorno alla residenza di Luigi Aureli. Allora, il serpente di ferro ancora non portava i viaggiatori da una parte all'altra, e il telefono dallo schermo brillante non esisteva. La modernità era arrivata tutta insieme.
Due rapidi colpi alla porta annunciarono, prima ancora della voce, la presenza di suo padre.
«Andiamo», le diceva, «sono quasi le sei».
Agata si alzò dal suo giaciglio di piume d'oca, stiracchiò le membra candide, spingendo la schiena in avanti e le braccia all'indietro. Si spogliò con naturalezza, e indossò un vestito celeste che le arrivava poco sopra alle ginocchia. Un filo sottile di perle le impreziosiva il piccolo seno, fasciato nel corpetto. Lo specchio a cui si rivolse, mentre si pettinava con una lisca di pesce, le restituì l'immagine perfetta dei suoi occhi da cerbiatta, capaci di insinuare un vorace, in un certo qual modo oscuro, stato di turbamento negli uomini.
Uscita di casa, Agata attraversò il grande giardino a passi lenti e misurati: non era mai stata lei ad attendere gli altri. La luce del pomeriggio, ancora intensa, illuminava la tabaccheria davanti al garage, e la ragazza notò con disappunto che la marca di sigari pubblicizzata nel grande schermo a cristalli liquidi era diversa da quella che ricordava. Il mondo, senza chiederle il permesso, continuava la sua arrancante rivoluzione verso l'ignoto.
Su un secondo schermo, molto più grande del precedente – tanto che qualcuno, vedendolo per la prima volta, lo avrebbe definito smisurato – campeggiava l'immagine del candidato sindaco, Giulio Cosma. Parlava e parlava, fiero della sua campagna elettorale, ma tutto ciò che Agata vedeva era un cranio bitorzoluto, lasciato nudo da una quasi totale calvizie, e una schiera di denti storti, gialli e piccoli come chicchi di mais. Alle sue spalle venivano proiettate immagini dei bassifondi di Triedica, accuratamente alternate a quelle dei quartieri di più recente costruzione, e la sua voce tonante rassicurava, con tono che andava in crescendo:
«Non importa quanto sia difficile, ma ci si può rialzare. Non importa quanto ci vuole, ma puoi riuscire ad alzarti. Non importa quante volte cadrai, tu devi rialzarti. Non conta quanto sono alti gli ostacoli. Non conta quante volte sei caduto. La tua speranza ti permetterà di rialzarti ancora. Perché tu puoi farcela. Tu sei forte e ti alzerai ogni volta».
Foto di famiglie in povertà, donne che stringevano al petto la propria prole, improvvisamente rinate a nuova vita dopo aver posto una croce sopra un simbolo arancione. Una musica strappalacrime, pianoforte e violino, per un mantra inadeguato.
Agata rivolse alla strada un sorriso amaro, mentre fissava la dalia sul petto di quello che, a breve, sarebbe stato eletto per la seconda volta primo cittadino. Era rossa come il sangue: sembrava che gli avessero sparato al cuore.
Un'altra cosa che le provocava un'incontenibile ilarità erano i discorsi motivazionali, vuoti, come se l'umanità – la stessa che la riteneva un abominio – avesse potuto riscattarsi alzando la testa al suono di belle parole struggenti, e commuoversi dinnanzi a frasi costruite ad arte. Era gente della peggiore risma, quella da cui si nascondeva.
I pensieri della giovane furono interrotti, proprio mentre si facevano sempre più cupi, dal rombo dell'auto sul vialetto. La casa di Giulio Cosma, che li aspettava per cena, non era lontana, ma ci sarebbero andati in macchina lo stesso.
L'esuberante politico e la sua signora avevano preparato ogni cosa con grande precisione: ricevere Luigi Aureli, il ricco proprietario terriero, non era avvenimento da tutti i giorni. Ogni anno, a Natale, Cosma si prendeva la briga di inviargli una cartolina con i "più sentiti auguri", assieme a un invito a cena. Tuttavia, non aveva mai ricevuto risposta.
Ad aiutarlo nella sua impresa era giunto il miracolo del telefono: un lucido apparecchio nero, impossibile da non notare, trionfava sul muro bianco dell'ampio androne che accolse la famiglia Aureli. Nel corridoio dove, pochi istanti dopo, risuonò l'incedere composto della bella Agata, spiccava invece un'imponente icona di fattura – disse Giulio Cosma – bizantina.
Carmen Cosma, stretta nel suo tubino da prima signora, era impegnata in una fitta conversazione con la madre di Agata.
«Vedi, ne sono sicura» fu tra le poche frasi che la ragazza sentì. «Carla Parolo, la vicina, ha piantato quel cipresso per farmi ombra ai fiori. Sapevo che era invidiosa delle mie dalie, ma arrivare a un gesto tanto meschino...»
Le sue parole concitate si perdevano, negli occhi spenti della signora Aureli e nell'alto soffitto della sala da pranzo dove s'erano accomodati.
«Ne sono sicura, non riesce più a dedicarsi al giardino perché è troppo triste: il marito le mette le corna». Carmen si sistemò il cappello piumato. «Quindi, deve aver deciso che un albero le avrebbe dato meno da pensare».
«Servitevi del tacchino», la interruppe d'un tratto Giulio Cosma, «non fate complimenti».
«È ottimo», disse Luigi Aureli.
La conversazione continuò. Agata tagliò una fetta sottile di carne, mentre udiva suo fratello rimestare il ghiaccio nella ciotola che gli era stata portata. Non aveva molto appetito, e si ritrovò concentrata a guardare il grugno storto della signora Cosma, il suo mento che, come quello di un bulldog, sporgeva in avanti oltre agli occhi strabuzzati.
Con gesto distratto, il sindaco premette un tasto del telecomando, e un televisore a colori dallo schermo piatto prese vita davanti agli occhi di tutti.
«Oh, vi disturba lo sport?» domandò, come se fosse una faccenda ordinaria. «Io e la mia Carmen lo seguiamo sempre, a quest'ora».
I coniugi Aureli, accondiscendenti, scossero la testa con un sorriso. Presero a commentare gli uomini nerboruti che, oltre al vetro, rincorrevano una palla ovale.
«Anch'io vorrei un televisore!» esclamò con trasporto la signora Aureli, voltandosi verso il marito.
«È stato Giulio a innamorarsene: è stato folgorato dalla tecnologia» disse Carmen con enfasi, arricciandosi una ciocca sull'indice. Il suo sguardo si incupì, e abbassò la voce. «Ieri ha portato a casa un elenco del telefono ma, a dire la verità, lo tengo relegato in un angolo. M'inquieta: mi disturba pensare a quanti nomi di persone ormai morte contiene. Di certo è un cattivo presagio».
La signora Aureli annuì. «Di certo, di certo», disse.
«Suvvia, accomodiamoci sul divano» li invitò il sindaco, interrompendo il discorso della moglie. Delle gocce di sudore gli imperlavano la fronte, che deterse con un fazzoletto candido. «Gradite un digestivo? Un caro amico mi ha portato della grappa all'aglio, direttamente dalla Transilvania. Giura – pensate! – giura addirittura di aver visto un vampiro!».
Una risata roca, subito smorzata, fuggì dalle sue labbra annerite.
«Va bene, amico mio», rispose Luigi Aureli, «io e mia moglie la assaggeremo».
«La volete con il ghiaccio?»
«E com'è, con il ghiaccio?»
«È ottima» concluse Giulio Cosma, e si diresse verso la cucina, appoggiandosi al suo bastone da passeggio istoriato dalla figura di un serpente.
Gli occhi di Agata fuggirono verso la finestra: il vento caldo si stava placando, e il cielo, coperto da nubi grigie, si chiudeva su di lei, soffocandola con l'arrivo della sera. Qualcosa che era sempre stato dentro di lei si mosse, e un calore che ben conosceva le invase il petto e lo stomaco. D'istinto, incurvò la schiena, come per farsi più piccola, ma si costrinse a tornare composta.
Fece scivolare lo sguardo di nuovo sulla sala. Suo padre, per cortesia di circostanza, aveva rivolto la parola alla signora Carmen, seduta da sola su una poltrona di velluto.
«Sono indecisa», diceva lei, «se lasciare le travi a vista, al secondo piano, o se piuttosto coprirle e decorare il soffitto con degli stucchi. L'altro giorno, una zingara mi ha letto i tarocchi. Io non ci credo a queste cose, sai, l'ho fatto solo per curiosità... mi ha predetto che, se non decido in fretta, avrò sfortuna, anche se non ha saputo dirmi di più».
Allora fu Agata a interromperla, alzandosi in piedi.
«Vi chiedo scusa» disse, compita. «Io devo andare».
Anche suo padre si alzò e, con una certa fretta, spiegò che la ragazza aveva un appuntamento quella sera, e che era terribilmente spiacente, ma non era riuscita in alcun modo a rimandarlo.
Agata si congedò con un sorriso. Come tutte le sere, si diresse per le strade strette e buie di Triedica, che aveva imparato a non temere. La sua schiena era incurvata, le unghie le crescevano sulle mani, dure e gialle, segno che la metamorfosi stava iniziando.
Scelse un vicolo nascosto, che le sembrava di non avere mai percorso: la rassicurarono il fatto che sembrava non condurre da nessuna parte, e il canale di scolo che avrebbe potuto portarla alle fogne.
Agata infilò le mani, che per la prima volta la inquietavano, nelle tasche del vestito. Con la testa bassa, continuò a camminare.
Una finestra liscia, senza alcuna particolarità, si aprì sulla strada, e un suono si diffuse attorno a lei: qualcuno, nell'appartamento, aveva cominciato a suonare il pianoforte. Erano poche note, impulsi piccoli e brevi, per lo più slegati tra loro, ma bastavano a far vibrare tutta l'aria.
Gocce di pioggia presero a cadere dal cielo. Agata ne ricevette una sul viso: era fredda. Chiuse gli occhi, come sentendo che era una cosa che doveva fare. L'odore della terra bagnata le arrivava alle narici, e pensò che forse, allora, anche ognuna di quelle note aveva un odore. Prese singolarmente, avrebbero potuto profumare di vaniglia, di salvia o di inchiostro. Qualcuna, per qualche assurdo motivo, avrebbe potuto prendere il raggrinzito odore del pot-pourri della signora Cosmi.
Al terzo piano, una persona suonava per lei. La ragazza non la conosceva, non sapeva nemmeno se si trattava di un uomo o di una donna, non vedeva il suo volto. Non poteva in alcun modo capire se le sue mani avevano paura di colpire il tasto sbagliato, oppure se percorrevano la loro strada sicure, impegnate in un discorso più volte acclamato.
Ma, con gli occhi chiusi, penso che quel momento, come null'altro prima in quel mondo, avveniva per lei. Desiderò ricevere amore, immaginò le mani del pianista che smettevano per un istante di produrre musica, e le accarezzavano con tenerezza la pelle.
"Talvolta piove col sole", considerò, dopo aver socchiuso gli occhi. Alcune nubi si erano scostate, e il cielo si stava tingendo di una sfumatura rosata, come le guance di un bimbo sfiorate da un bacio.
La schiena di Agata, come quella di una vecchia contadina, si piegò di nuovo in avanti. Il suo viso si allungò, divenne deforme, si coprì di una peluria fitta, spinosa e dura. Le orbite si avvicinarono l'una all'altra, e gli occhi di cui andava tanto fiera divennero non più che bottoncini neri.
La coda inanellata, simile a un lombrico viscido e nudo, prese a crescere dal suo coccige, crebbe e crebbe ancora, sino a diventare lunga quasi il doppio di lei. Gli arti, già magri, si contorcevano e scricchiolavano, e gli incisivi scheggiati e puzzolenti crescevano, incurvandosi verso l'interno della bocca. Infine le orecchie grandi e rigonfie, le ultime a crescere, si voltarono tutt'attorno, alla ricerca di un segnale di pericolo.
Le giunsero solo, soffuse, le note del pianoforte. E quella notte Agata, quasi contro la propria volontà, pensò che in fondo poteva non essere così raccapricciante, la creatura in cui si trasformava di giorno.




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