Erntenacht
C’è un detto, a Mondstadt,
secondo cui in autunno la città profuma per la vendemmia e i primi venti
invernali che scorrono tra i vicoli stretti e attraverso le grondaie suonano
una canzone di festa; tuttavia, nell’istante in cui la sua schiena sbatte
contro la parete di mattoni in ombra, Kaeya non riesce a pensare né al profumo,
né alla musica, né tantomeno alla bellezza della sua città. Ciò che prova è
molto più dissacrante, e i suoi pensieri sono inebriati dal veleno dolce del
vino.
Ha
osato, lo sa: ha alzato la voce sopra quella degli altri commensali, ha
attirato l’attenzione su di sé, si è lasciato sfuggire una provocazione di
troppo; ed è chiaro come la luna, che in quel momento dimentica di illuminare
il vicolo in cui si trova, che l’uomo che più ha teso l’orecchio nella sua
direzione quella sera non ha apprezzato i suoi commenti.
Dal
cielo chiaro della notte Kaeya abbassa lo sguardo sul suo aggressore, e
fallisce miseramente nel soffocare una risata sardonica, acida quanto il vino
che ancora sente in gola. Sono pochi i cittadini di Mondstadt con cui quel
misero, carnevalesco tentativo di mascherarsi funzionerebbe; no, dalla parte
dell’eroe oscuro vi sono l’agilità, l’abilità nel passare inosservato, ma non
certo la segretezza. La maschera bianca gli consente forse di tenere in ombra
gli occhi enormi, tristi, ma non esiste al mondo un’altra persona i cui capelli
siano colorati di quella peculiare sfumatura di rosso – e non esiste al mondo
una persona che la riconosca bene quanto Kaeya.
« Non è un po’ pericoloso che l’eroe di Mondstadt si mostri
così platealmente? », lo interroga, strascichi della risata ancora presenti
nella sua voce. Solleva una mano, che stringe sul pugno attualmente impegnato
nello sforzo di stringere un lembo della sua camicia. «
Proprio all’uomo che ha il compito di inseguirlo, oltretutto? »
Dall’altra
parte non c’è risposta; solo denti stretti in un’espressione di incompleto
disgusto, occhi nascosti dall’ombra di una maschera dagli intarsi dorati. La
stretta sulla sua camicia si fa più intensa, i muscoli tesi sotto le sue dita.
È piacevole, toccarsi in quel modo, dopo tutto quel tempo; è familiare. La
mente di Kaeya viaggia lontano, a ricordi d’infanzia: mani strette l’una
nell’altra durante temporali estivi, palmi sudati uniti nello sforzo
dell’allenamento, in un gesto d’aiuto; il dolore della caduta nell’erba dopo
una parata troppo intensa, la risata di Diluc.
L’unico
sforzo che l’eroe mascherato esercita in quel momento arriva a farlo tremare, e
forse è uno sforzo, forse solo frustrazione. Lo lascia andare con un gesto
repentino, brusco, che costringe Kaeya a sbilanciarsi e a cercare la stabilità
in un paio di passi ancor più vicini all’angolo del vicolo buio. Si sistema il
colletto, il sorriso velenoso ancora sulle sue labbra.
« Devi imparare a tenere la bocca chiusa. », borbotta una
voce dura. « E il portafogli. Sei sbronzo, Capitano. »
È
crudele, che gli parli ad un metro di distanza, la bocca ora nascosta da
un’ombra densa; crudele che gli doni la sua voce e non la sua bocca, che gli
doni l’intensità del proprio giudizio ma non lo sguardo deluso che Kaeya
associa a quei rimproveri. Fa un passo avanti, il suo aggressore un passo
indietro; anche i vestiti neri svaniscono nell’ombra, ora. Ciò che rimane sono
i capelli rossi, ramati, l’ennesimo atto di crudeltà. Neppure un cappuccio
per negarmi questa verità palese; nessuno sforzo di non farmi del male.
« Se lo faccio è anche per te. », dichiara, inclinando il
capo. Stringe i pugni: non sa mai dove tenere le proprie mani, in sua presenza,
se non sono strette attorno ad un boccale o impegnate sul suo corpo. « Considerala un aiuto alla tua immagine pubblica,
d’accordo? Più noialtri appariamo come degli incompetenti ubriaconi, più i
cittadini pregheranno per l’aiuto dell’eroe mascherato. O sbaglio? »
Un’altra
provocazione, altro silenzio contro cui scontrarsi; Kaeya sospira.
« In cambio, puoi scontarmi tre o quattro bottiglie di vino
dal conto-- »
« KAEYA-- »
Le
mani che lo spingono nuovamente indietro hanno la forza di macigni, e bruciano
come lava; per qualche istante Kaeya vede solo fiamme, l’espressione di una
rabbia che conosce bene troppo spesso mascherata come indifferenza. Gli è
sempre piaciuta la sua incapacità di mantenere il controllo nei momenti
peggiori, il modo in cui il fuoco danza tra le sue dita. La prima volta che era
capitato lui gli aveva chiesto scusa, l’aveva dichiarato un incidente dovuto
all’inesperienza e all’entusiasmo; la seconda volta era stato Kaeya a chiedergli di farlo.
Questa
volta però è preparato: afferra i suoi polsi, non appena lo stordimento del
colpo ricevuto glielo consente, e fa leva su di essi per spingerglisi addosso.
L’intera parte superiore del suo corpo propende verso il suo sfidante che,
impreparato, indietreggia affinché Kaeya non possa colpirlo con una testa; è un
istante, ma è fondamentale per consentirgli di sbilanciarlo e farlo crollare a
terra. Trucchi del genere dovrebbe conoscerli, dopo tutto quel tempo, ma sembra
che il suo vecchio conoscente abbia ancora in sé quel lato innocente che lo ha
sempre svantaggiato durante le loro sfide infantili; quel lato di lui che ha
sempre creduto troppo nei principi massimi della cavalleria è ancora vivo.
La
caduta è rovinosa, scomposta. Kaeya fa di tutto per mantenere la presa su
entrambi i polsi, ma fallisce: un pugno guantato si scontra con la sua guancia,
lo solleva dal corpo che credeva di aver intrappolato e lo fa ruzzolare di
lato. Prima che possa alzarsi, o anche solo voltarsi per controllare la sua
posizione, il suo aggressore dai capelli rossi gli monta sopra. La risata di
Kaeya muore in un verso strozzato nell’istante in cui percepisce una lama
contro il collo.
« Non lo faresti. », ride.
« Non sai veramente quando è il caso di stare zitto. »
Riprende
fiato, e ad ogni respiro la sua gola sembra chiamare a sé la lama gelida.
Sarebbe bello, pensa, morire per mano sua.
« No, non ho mai imparato. », sibila; si alza di scatto, una
scommessa con la morte che subito rivela la sua vittoria: la lama scorre sulla
sua pelle, ma non vi affonda. Il pugnale cade di lato e le sue labbra sono
quelle di Diluc, le sue mani sono tra i suoi capelli. Lo sente protestare,
gemiti soffocati; morde il suo labbro inferiore e Kaeya stringe gli occhi per
il dolore pungente, ma persiste feroce nella propria rivalsa. Sente il sapore
metallico del sangue invadergli la bocca. Per un momento gli sembra che il
corpo che lo sovrasta ceda, che la lingua contro cui muove la sua si muova in
accordo con lui; ma quell’istante finisce, e dita calde affondano nei suoi
capelli scuri solo per poterlo strappare via da sé. Annaspa, ricercando il
fiato, mentre l’altro lo lascia andare e si alza su gambe che tremano. Un
raggio di luce naturale lo illumina, per qualche istante, e Kaeya osserva un
paio di occhi innaturalmente rossi e fissi nel vuoto rivivere anni di
sentimenti privi di una definizione. L’uomo che non conosce più gli si sottrae
di nuovo, china la testa e sputa a terra. Pulisce con una mano guantata le
labbra tinte di rosso.
« Bastardo. », borbotta. Kaeya scoppia a ridere: si
abbandona a terra, si tiene la pancia.
« Di tutti gli insulti…! », singhiozza; si porta una mano al
viso, per coprirsi gli occhi. Così facendo può illudersi, in più di una
maniera: può fingere di non aver riconosciuto quegli occhi, quelle labbra; può
fingere di non sapere che il rifiuto violento che ha ricevuto non fosse dovuto
al sapore del sangue nella sua bocca, ma a quello del vino. Può fingere che
vada tutto a bene, che gli sia concesso di svegliarsi un’altra volta col viso affondato
in quella massa di capelli rossi ed essere felice.
Non
gli va di alzarsi, di tornare al mondo reale. Lui è ancora lì, lo sa: lo sta
guardando, domandandosi se Kaeya gli stia solo dando ciò che vuole o se sia
genuinamente impazzito. La risposta non la conosce neppure lui.
« Va, dai. », lo provoca, senza abbassare la mano. « Si sta comodi, sulla pietra. Non hai dei… carri da salvare
o dei tetti da scalare o qualsiasi cosa sia quella che fai ogni notte? »
Vuole
credere che se non abbasserà la mano lui si chinerà su di lui e sospirerà, scuotendo
la testa; riderà con lui, non di lui, e gli porgerà una mano per aiutarlo a
rialzarsi. Una mano salda, accogliente, ancora calda delle fiamme generate dall’eccitazione.
A
fare di sottofondo alla sua fantasia però ci sono solo passi freddi e rigidi,
sempre più frettolosi e sempre più distanti. Kaeya abbassa la mano e scopre
sopra di sé un cielo privo di nuvole, tinto di un blu scuro. I suoi unici
compagni, almeno per quella sera, non sono né il profumo del vino né la musica
generata vento – ma un retrogusto di sangue amaro come il fiele, ed un silenzio
che raggela le vene.
Me, inhaling: joke’s
on you the jonas brothers can’t break up they’re B R O T H E R S