Rubaiyyàt

di Fiore di Giada
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Il mio venire (alla vita) non ha dato alcun frutto
alla Ruota celeste
né la sua bellezza e dignità si è accresciuta per la mia dipartita.
Da nessuno ancora, le mie orecchie hanno udito che scopo abbia questa mia venuta
e questa mia dipartita.



Rashid è steso sul letto, lo sguardo fisso sul soffitto.
Tra le mani, stringe un ritratto della sua famiglia.
Una terribile strage ha ucciso i suoi genitori, i suoi fratelli e le sue sorelle.
Lacrime stillano dalle sue guance, bianche di pena.
I corpi dei suoi familiari, dilaniati dai proiettili, si sono piantati nella sua mente.
Perché non ero con loro? Perché? – si chiede, angosciato. Il rimorso strazia il suo cuore.
L’assassino li ha uccisi quando erano soli.
Se fosse stato con loro, con le sue abilità, avrebbe potuto difenderli.
A cosa è servita la sua forza?
A cosa è servita la mia esistenza? – mormora. E’ il primogenito ed è stato educato nel corpo e nella mente.
Il suo dovere era proteggere la sua famiglia.
Ha fallito nel suo scopo.
A che cosa serve la sua esistenza?
Non ha compiuto il suo dovere di figlio.
La porta della stanza si apre ed entra Azam.
L’uomo, vedendo lo stato di prostrazione di Rashid, scuote la testa e si siede sul letto.
La sua grande mano, gentile, sfiora la guancia del giovane.
Rashid, colto di sorpresa da quel tocco, si gira e i suoi occhi neri, umidi di lacrime, si fissano in quelli del suo servitore.
Ho sbagliato qualcosa? Mi sento così inutile… – mormora, la voce ridotta ad un sussurro inintelligibile.
Azam, d’istinto, abbraccia Rashid. Quella domanda è per lui straziante.
E lascia che Rashid pianga le sue lacrime sul suo ampio petto.





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