Nota: la versione che trovate qui su EFP è una prima stesura. La storia revisionata e corretta si trova ora su Amazon 💖
1.
Il testimone
Il
biscotto cadde a terra e si ruppe.
Cathy lo aveva osservato scivolarle dalle
mani, toccare il pavimento e sbriciolarsi in tanti, piccoli pezzi.
«Sei una stupida, Cathy!», la rimproverò
Carter, suo fratello.
La bambina si aggrappò alla gonna della
donna accanto a lei e cominciò a tirare.
«Mamma, mamma! Carter mi ha detto che sono
stupida!»
La donna sbuffò e scostò Cathy dalla
gonna, poi si rivolse a me.
«Quant’è?»
La bambina si avvicinò nuovamente alla
gonna della mamma, ma Carter si aggrappò allo zainetto della piccola per
rubarle un grosso pennarello viola che teneva al suo interno – e il primo crack
del biscotto spiaccicato fece il suo ingresso in scena. Cathy gridò per lo
spavento e invocò ancora il nome di sua madre, che aveva in mano il portafoglio
a soffietto, pronta a pagare.
«Dieci dollari e sessanta centesimi.»
Cathy aveva gli occhi rivolti verso il
fratello e la bocca spalancata. Seguii con lo sguardo il piccolo Carter e notai
che stava sfogando la sua vena artistica sulle confezioni di biscotti da
colazione. Le aveva imbrattate con un sole a otto raggi, un paio di cuori e
qualche stella – o almeno era ciò che sembrava. Finita la sua opera d’arte,
passò a occuparsi del calendario, del quale colorò gli zeri che componevano
l’anno duemilauno.
Mi scappò un sorriso e feci finta di
niente, ma Jane doveva aver seguito il mio sguardo, perché scattò verso Carter
e gli strappò il pennarello dalle mani, per poi mollargli uno scappellotto.
«Ma sei impazzito? Adesso ci tocca pagare
tutto!»
Non fece in tempo a dire altro, perché
dietro le sue spalle qualcosa franò irrimediabilmente a terra.
Cathy aveva fatto cadere una pila di
merendine e sembrava piuttosto soddisfatta del suo operato. Se Carter
imbrattava i biscotti, perché lei non poteva giocare con le merendine?
La madre dei due sembrava sull’orlo di una
crisi di nervi e, a furia di correre a destra e a sinistra, alcuni ciuffi scuri
le erano sfuggiti dallo chignon. Prese Carter per un polso e Cathy con l’altra
mano – altro crack di biscotti –, poi mi guardò stralunata, forse sul
punto di commettere un omicidio a suon di merendine.
«Torno tra cinque minuti!»
E così, mentre le due pesti si dimenavano,
varcò la soglia del mini-market, per gentile concessione di un cliente che le
aveva aperto la porta.
Carter e Cathy avevano lasciato come
ricordo un biscotto sbriciolato a terra, una confezione artistica e pacchi di
merendine sparpagliati come soldatini.
Ovviamente, dopo cinque minuti, di Jane
nessuna traccia. Le misi da parte la spesa che aveva già pagato e osservai il
casino dentro il negozio, sconsolato.
Una
volta che furono usciti, tornò la tranquillità. Un nonnetto in coda avanzò
verso la cassa e si udì l’ennesimo crack del povero biscotto scivolato
dalle mani di Cathy. Sperai che non si fosse incastrato nelle fughe del
pavimento, perché avrei staccato dopo cinque minuti e non avevo voglia di
andare alla ricerca delle briciole perdute.
«Fanno due dollari.»
Il nonnetto infilò una mano tremolante in
tasca, estrasse le monete e le poggiò sul bancone.
«Ah, i giovani d’oggi!»
Con quella battuta esibì le finestre della
sua dentatura, e pensai che le due pesti fossero ancora troppo piccole per
rientrare nella categoria dei “giovani” tanto odiati dagli ultra-quarantenni.
«E questa birra costa troppo! Qui non ci
torno più.»
Sorrisi.
Era già la quarta volta che lo diceva.
Non
appena il vecchio se ne fu andato, mi lasciai cadere sullo sgabello. Gocce mi
scendevano sulla fronte, tra le scapole, sul petto; mi sudava perfino la testa!
Era un caldo insopportabile e quel mini-market era troppo scalcinato per
permettersi un condizionatore. Avrei finito per ridurmi in poltiglia alla pari
del povero biscotto, me lo sentivo. E poi, c’erano i reduci della guerra delle
due pesti da mettere a posto.
Quel pomeriggio non avevo il seminario
all’università e quasi mi dispiaceva: in fondo, era pur sempre un ambiente
climatizzato. Poi il fatto che non mi importasse niente di plastici e progetti
di abitazioni era un dettaglio di poco conto.
Dalla mia destra arrivò un soffio di vento
e me ne beai a occhi chiusi, lasciando che le gocce di sudore si seccassero
sulla mia pelle. Solo quando il vento cessò, mi resi conto che era merito del
ventaglio di Molly.
«Giornataccia, eh?»
Si sedette sullo sgabello accanto a me e
continuò a farmi aria. Poi spostò il ventaglio in mezzo a entrambi, perché
aveva caldo anche lei.
«Da quando è finita la scuola li porta qui
quasi tutti i giorni. Un incubo. E poi mica è finita qui, perché lo sai, no,
stanno nel mio palazzo al piano di sopra ed è impossibile non sentirli. Lei
urla da mattina a sera, e intanto quelle bestioline se la ridono alla grande.»
«Per fortuna che ci sono i vecchietti a svoltarti la
giornata...»
Molly si lasciò scappare una risatina e
poi tornò a sventolarmi.
«Dai, pensi davvero che “basta che respiri”?
Avrà avuto almeno ottant’anni! Anch’io ho la mia dignità.»
«In effetti l’ultimo era sulla cinquantina, se ben
ricordo.»
Sperai che Molly non volesse davvero compilare
un’anagrafe delle mie frequentazioni occasionali - che comunque non erano così
attempate come sosteneva. Si voltò verso di me e mi rivolse un sorriso
abbozzato, poi cominciò a sventolarsi solo per sé.
«Dai, stacca pure, qui ci penso io.»
Io la ringraziai, mi alzai dallo sgabello e cominciai
a raccogliere le mie cose, per poi sprofondare di nuovo nel silenzio del
mini-market. Poco dopo si alzò anche lei e mi sembrò di vedere lo sgabello
molleggiare, e ripensai a quando mi aveva confessato che si ingozzava di
patatine e cheeseburger appena ne aveva l’occasione, ma solo se le patatine
avevano il ketchup e il cheeseburger la sua salsa barbecue. Era diventato un
problema solo negli ultimi anni, quando il fidanzato l’aveva lasciata e lei
aveva deciso di riversare tutto il suo dolore sul cibo, una dipendenza da cui,
ormai, non sapeva più come uscire. Io del resto la capivo bene, perché
dipendevo dal pacchetto di Marlboro che tenevo sempre nella tasca dei
pantaloni, e guai a uscire senza – forse un paio di volte avevo fatto tardi a
lezione per tornare a prenderlo.
Osservai Molly indossare la spilla del
mini-market, mentre io, trionfante, toglievo la mia. Anche per quel giorno
avevo fatto il mio dovere: sopportato bambini isterici, vecchietti smemorati e
clientela per tutti i gusti.
Mi rizzai in piedi e presi tutte le mie
cose, compresa la delega per ritirare il pacco del mio capo. Poi andai verso
l’uscita e – ops! – crack!
Un suono decisamente meno pronunciato dei
precedenti, ma c’era stato.
Avevo calpestato il biscotto per sbaglio e
a qualcuno sarebbe toccato pulirlo… ma ormai il mio turno era finito.
Con un po’ di senso di colpa, salutai
Molly e varcai la soglia del mini-market, per godermi la mia meritata giornata
di tranquillità.
Quella
mattinata di luglio aveva tutti i presupposti per non essere memorabile, ma si
sa – quando tutto sembra filare troppo liscio, ecco che i guai sono dietro
l’angolo, più o meno letteralmente.
Le strade di Manhattan si erano svuotate
in modo impressionante, lasciando semplici turisti in shorts e canottiera a
guardare vetrine con un gelato in mano, più qualche irriducibile anziano troppo
affezionato a quella caotica città, che in quel periodo, però, era praticamente
deserta. Le poche anime rimaste le trovavi sedute ai tavoli di un bar a
ordinare bibite fresche tra una chiacchiera e l’altra, oppure in perenne sosta
nei centri commerciali davanti ai bocchettoni dell’aria condizionata vestiti da
capo a piedi – sia mai che becchino un improbabile raffreddore fulminante.
E poi c’ero io, pantaloni lunghi e
occhiali da sole, costretto a non concedermi neanche un giorno di vacanza,
perché l’affitto mi stava strozzando e non avevo intenzione di vivere in mezzo
a una strada.
Non un’altra volta, perlomeno.
E così me ne stavo tranquillo con la mia
delega in mano, a passare di ombra in ombra, diretto verso l’ufficio postale,
nella speranza di liberarmi di tutte quelle inutili scartoffie.
Avevo appena svoltato in Lexington Avenue
e mi ero già messo il cuore in pace, consapevole che avrei dovuto aspettare un
tempo non indifferente e che sarei stato subissato di domande da parte di
anziani signori, che non avevano la minima idea di come compilare i moduli. A
volte mi dicevo che avrei potuto mollare quel lavoretto sottopagato al
mini-market e diventare impiegato postale. Ero tagliato!
Già mi immaginavo affabile con i clienti,
che avrebbero desistito dall’infuriarsi ammaliati dal mio sorriso, quando poi
mi tornarono alla mente gli insulti che quotidianamente riceve chi è costretto
a stare al pubblico. Per ogni dieci clienti educati, ce n’era sempre uno con
l’insulto facile, pronto a rovinarti l’umore per l’intera giornata.
Un boato riempì l’aria e immaginai già che
fossero quegli stupidi ragazzini con i loro petardi. Avrei dovuto pazientare
solo un altro mese, per sbarazzarmi delle azioni insensate di adolescenti
troppo annoiati.
Giunsi davanti all’ufficio postale e udii
degli schiamazzi all’interno, che mi fecero scorrere dei brividi freddi lungo
la schiena - certi tipi polemici bloccano le code anche per mezz’ora. Allungai
il braccio verso il maniglione della porta e feci per spingere, ma qualcun
altro mi precedette dall’altra parte.
Fui travolto da uno spintone che mi fece
indietreggiare appena, poi alzai subito gli occhi per vedere chi fosse il
maleducato che andava di fretta. Davanti a me vidi una figura incappucciata e
due occhi verdi che mi fissarono per un istante, per poi distogliere lo sguardo
un attimo dopo. Dietro di lui, sbucò un altro uomo, che spinse il primo verso
un motorino nero parcheggiato lì davanti.
Il cuore prese a battermi all’impazzata e
mi ritrovai frastornato e confuso. Perché quei due uomini erano incappucciati?
E perché avevano tutta quella fretta…?
Una rapina.
C’era appena stata una rapina all’ufficio
postale?
Doveva essere per forza così, non c’era
altra spiegazione, eppure una parte di me non voleva crederci.
Provai a muovere un passo verso l’entrata,
ma non ci riuscii.
Ero pietrificato, incapace di comporre un
pensiero, perché per quanto Harlem fosse un brutto quartiere, non mi era mai
successo di trovarmi testimone di un reato. Rimasi imbambolato lì, davanti alla
vetrata, con il battito che diventava sempre più martellante, le mani che
avevano preso a sudarmi e il ricordo di quei due occhi verdi che mi avevano
osservato solo per un momento.
In quell’istante, un brivido mi ghiacciò
la schiena. Quell’uomo si sarebbe ricordato di me? E se avesse deciso di
tapparmi la bocca?
Quello, però, non era il tempo di farsi
domande. La cosa da fare era una, ma non avevo mai chiamato la polizia. E se mi
fossi sbagliato e mi avessero preso in giro?
Infilai una mano in tasca e toccai il mio
cellulare, che mi sgusciò dalle dita, tanto erano sudate; razzolai ancora,
frugai, fino a che lo tirai fuori senza nemmeno accorgermene. Sbloccai il
telefono e portai le dita sul tastierino numerico.
911.
Era tanto semplice. Eppure la sola idea di
premere quelle cifre mi metteva un’ansia addosso terrificante, perché rendeva
tutto estremamente vero. Quella diventava una rapina, quei tipi
incappucciati erano davvero ladri e qualcuno, lì dentro, poteva essersi ferito.
L’ultimo pensiero ebbe il potere di
ridestare la mia coscienza e premetti le cifre con una strana e ritrovata
rapidità.
Il segnale di libero si interruppe prima
del previsto e mi colse impreparato.
«New York, 911, qual è il luogo
dell’emergenza?»
Che cosa avrei dovuto dire? Balbettai le
prime informazioni che mi vennero in mente.
«Sono in Lexington Avenue, davanti
all’ufficio postale e…»
Delle grida dall’interno mi fecero
spaventare all’improvviso; corsi via senza che me ne accorgessi e mi
accovacciai dietro una macchina lì davanti. La voce dall’altra parte mi
incalzò.
«Che succede?»
«C’è stata una rapina, dovete venire!»
La voce mi tremava come mai era accaduto
prima. Chiusi la telefonata e solo in quel momento mi resi conto che altre
persone, intorno a me, si erano accorte di ciò che stava accadendo e molte di
loro avevano i cellulari in mano.
Tirai un sospiro di sollievo: non ero
stato così ridicolo.
Mi misi su e provai a buttare un’occhiata
verso l’ufficio postale, quando mi resi conto che i due malviventi erano usciti
da un pezzo ed erano rimontati in sella, veloci come erano scesi, per poi
fuggire con una sgassata e una nuvola di fumo nero dietro di loro.
Spariti.
Dopo
pochi minuti, fece il suo arrivo un gruppo di volanti, seguito da un paio di
ambulanze. I poliziotti scesero dalla macchina e cominciarono a delimitare il
perimetro dell’area interessata, facendo allontanare i curiosi e raggruppando i
testimoni, mentre i medici dell’ambulanza vollero accertarsi che non ci fossero
feriti.
Il contributo che potevo dare alla polizia
era davvero minimo, ma pensai che ogni informazione potesse essere importante;
così adocchiai gli agenti più vicini a me e mi mossi verso di loro. Erano in
coppia, due uomini, piuttosto giovani. Uno aveva l’aria depressa, gli occhi
spenti e sembrava seguire il protocollo senza sbavature; non gli vidi uscire
nemmeno un sorriso. L’altro sembrava cordiale e cercava di mettere a proprio
agio l’addetta delle poste, visibilmente sconvolta, rassicurandola con delle
carezze sulla schiena e qualche parola di conforto. O almeno era ciò che
immaginavo, dai miei metri di distanza.
Io li osservavo e speravo che bastasse il
mio sguardo per far capire che ehi, sono un testimone, ma i due
continuavano a guardarsi intorno e non mi degnavano di attenzioni. Feci qualche
passo verso di loro, benché, in qualche modo, mi avesse sempre spaventato aver
a che fare con un reato: e se avessero trovato il modo di incastrarmi e di
mandarmi in galera, pur essendo innocente? Era un pensiero che mi terrorizzava,
ma, come lo sguardo mi cascò sull’addetta, capii che in parte glielo dovevo. Continuai
a camminare verso di loro, finché non fui abbastanza vicino da sentire cosa si
dicevano.
Quando mi trovai faccia a faccia con i due
agenti, rimasi stupito, perché mi accorsi che, a occhio e croce, non avevano
nemmeno venticinque anni.
Quei due sbarbatelli erano davvero
poliziotti?
Non che avessi pregiudizi sulla loro
giovane età, sia chiaro, ma era davvero strano affidare la mia sicurezza a
qualcuno che aveva giusto qualche anno più di me.
Il tenebroso mi tese la mano e si presentò
come Alan Scottfield. Sembrava che darmi la mano e presentarsi fosse un’odiosa
formalità della quale liberarsi il prima possibile, tant’è che mi guardò negli
occhi giusto per educazione, poi tornò a dedicarsi al suo taccuino,
apparentemente più interessante. Come avevo immaginato, invece, l’altro era
decisamente più amichevole e si presentò come Ashton Stoner.
«E lei è…?»
«Nathan Hayworth.»
Con mio sommo rammarico, fu Scottfield a
farmi qualche domanda, dopo che
gli ebbi lasciato le mie generalità.
«Lei era qui? Ha visto qualcosa?»
Alzò gli occhi giusto per pronunciare
quella frase, poi non mi degnò di uno sguardo, nemmeno mentre me ne stavo in
silenzio. Avrei voluto rispondergli per le rime e prendermi un po’ gioco di
lui, ma non era né il luogo né il momento. L’unica cosa di cui ero certo era
che il suo atteggiamento mi irritava, poco ma sicuro. Un minimo di empatia!
«Stavo andando verso l’ufficio postale per
ritirare un pacco, ma, quando ho tentato di aprire la porta, uno dei due
rapinatori mi è venuto addosso. Poi sono scappati subito dopo con la refurtiva
in mano ed è stato in quel momento che vi ho chiamato.»
L’agente finì di scrivere ciò che avevo
detto, dopodiché scrutò quelle parole, come in cerca di un indizio. Io mi
sentivo ancora agitato, sembrava che mi stesse esaminando, mi ricordava i tempi
della scuola. Mi avrebbe dato anche un voto, alla fine?
«Non ricorda nient’altro? Non ha sentito
dei rumori?»
Scossi il capo. Probabilmente ricordavo
qualcosa, sì, ma in quel momento avevo la testa completamente annebbiata,
proprio come uno studente di fronte alle domande bastarde del professore
cattivo.
Poi una lampadina mi si accese.
Non era stato un petardo…!
«Uno sparo. Ho sentito uno sparo.»
«Ne è sicuro?»
«Be’, c’è stato un forte boato. Pensavo inizialmente
che fosse un petardo, ma date le circostanze...»
L’agente Scottfield continuò a
scribacchiare le mie parole sul taccuino.
«E sui rapinatori saprebbe dirmi
qualcosa?»
«Erano piuttosto alti, diciamo…» Alzai la
mano usandola come metro, finché non la fermai più o meno alla punta dei
capelli dell’agente Scottfield. «… così, ecco. Quanto sarà? Un metro e
ottanta?»
Lui si scostò dalla mia mano e io,
istintivamente, sbuffai. Sembrava infastidito dal mondo, stanco di farne parte.
Il male di vivere, proprio. La prima impressione che ebbi di lui fu di un uomo
piuttosto rigido, tutto d’un pezzo. Ironicamente, pensai che, se già a
quell’età era così, chissà che dolori gli avrebbe portato la vecchiaia. Senza
rendermene conto, mi scappò una risatina.
«C’è qualche problema?»
«No, no, mi scusi.»
Lo dissi con un tono lievemente ironico,
che chiaramente non colse, sempre più preso dal suo taccuino. Mi voltai verso
il suo collega e notai che stava trattenendo una risata.
Allora non ero l’unico a trovarlo odioso!
Cercai e ricercai un modo per prendermi un
minuscolo attimo di soddisfazione, finché il sorrisetto malizioso sulle mie
labbra non annunciò la mia vittoria.
«In effetti mi sono ricordato di una
cosa.»
Presi quindi a fissarlo. Come previsto,
alzò gli occhi e li riabbassò subito, ma io non demordevo e continuavo a
scrutarlo, senza staccare lo sguardo da lui, che doveva essersene accorto:
infatti tornò a guardarmi per un brevissimo momento, come se avesse voluto
mettermi in imbarazzo per avermi beccato a fare qualcosa di socialmente
sconveniente.
Le persone non vanno fissate, lo sanno
tutti. A meno che tu non ti ci voglia divertire un po’.
«Il mezzo con cui sono scappati è un
motorino nero e aveva una targa particolare. Era sfumata: sopra azzurra, sotto
bianca. Ma non saprei dire a quale Stato appartiene, non me ne intendo. Però
non era una targa del nostro Stato, ecco.»
Intanto, lo fissavo ancora. Lui aveva
preso a guardarmi con più frequenza, come per intimarmi che dovevo smetterla,
ma vedevo come l’imbarazzo cresceva in lui e sentivo un sadico senso di rivalsa
farsi strada dentro di me.
Alla fine vinsi io. Chiuse quel maledetto
taccuino e frugò nel taschino della camicia.
«Va bene, grazie. Questo è il mio
biglietto da visita,» me lo porse in tutta fretta, «se le viene in mente
qualcosa mi chiami o venga in centrale. Arrivederci.»
Quel saluto fu poco più che sussurrato e
cominciò ad allontanarsi.
Non sorridere troppo, eh!
Finalmente se n’era andato, ma cantai
vittoria troppo presto. Infatti l’agente Scottfield tornò indietro e io, per un
attimo, non capii.
«Che cosa ha detto?»
«Ho detto qualcosa?»
Mi resi conto solo dopo una frazione di
secondo che, forse, avevo pensato a voce alta. Mi voltai verso il collega,
nella speranza che mi tirasse fuori da quella situazione, ma notai con
disappunto che osservava ora me, ora lui, con un sorrisetto sotto i baffi che
faticava a nascondere. L’agente Scottfield continuava a tenere i suoi occhi su
di me e mi guardava con la stessa fissità con cui l’avevo preso in giro poco
prima, con l’unica differenza che il suo sguardo mi metteva soggezione, quasi
paura. Mi sentivo un bambino beccato dai genitori a combinare qualche
marachella.
«Mi scusi», affermai, questa volta con
tono sincero.
L’agente Scottfield fece nuovamente
dietro-front e se ne andò, mentre Ashton mi diede qualche pacca sulla spalla.
«Va tutto bene, non preoccuparti. Ha un
periodo un po’ così. O almeno spero.»
«Più che altro me lo auguro per te.»
Mi morsi la lingua immediatamente. Perché
continuavo a essere così inopportuno?
Lanciai un’ultima occhiata all’agente
Scottfield, così irritante che mi faceva venire voglia di inventare una
testimonianza solo per stuzzicarlo ancora un po’.
La parola “testimonianza” mi fece tornare
in mente quel paio di occhi verdi con cui mi ero scontrato poco prima; potevano
essere un dettaglio importante per l’indagine e fui quasi tentato di richiamare
indietro l’agente. Poi però ripensai alla figuraccia che avevo fatto e quella
voglia tornò rapidamente da dove era venuta.
«Qui qualcuno ha la lingua un po’ lunga,
vedo.» Sembrava divertito nel dirlo e la cosa mi sollevò. «Vabbè, se ti viene
in mente qualcosa, sai dove trovarci.»
Spero di non trovare quel musone,
pensai.
E per fortuna rimase un pensiero.
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Note: Salve a tutti! Vorrei spendere due parole sulla pubblicazione di questo primo capitolo, giusto per farvi inquadrare la vicenda - mia, non quella dei personaggi XD
Ho iniziato a scrivere questa storia nel 2014, e poi per varie vicissitudini non ho mai trovato la spinta per finirla. Mi mancano letteralmente solo due capitoli da scrivere, ma mi sono accorta che ho difficoltà a buttar giù quelle ultime due righe senza il supporto dei lettori, fattore che è stato emozionante ed essenziale nella stesura del sequel di questa storia (sì, questo è il prequel di Naughty Blu).
Per cui si tratta principalmente di un esperimento "psicologico", perché dopo aver cercato duemila beta (e aver ricevuto altrettanti abbandoni, spesso anche per colpa mia, sigh), voglio vedere se stavolta prendo la spinta giusta per mettere la parola "Fine" a questa opera.
Avrete quindi capito che ci sarà la possibilità di leggere tutto fino alla fine - non vi lascerò a piedi, promesso - per cui spero che vogliate cominciare questo viaggio insieme a me, nella speranza che i sensi di colpa nei vostri confronti mi spingano a finire! XD
A presto e grazie per essere passat*,
holls