L’immenso
velario del cielo notturno, d’un intenso blu cupo, privo di
stelle, era rischiarato dalla luce della luna piena.
I
raggi dell’astro notturno, delicati, velavano d’argento
l’immensa tenuta dei de Gomera e le foglie delle viti e degli
ulivi, sfiorate dal vento estivo, ondeggiavano, riempiendo l’aria
di deboli sussurri.
Yanez,
in piedi, osservava il paesaggio dalla finestra della sua camera.
Un’altra giornata faticosa era conclusa.
Avrebbe
dovuto riposare, ma, in quelle ore silenziose, desiderava fissare il
cielo e abbandonarsi all’onda delle fantasticherie.
In
quel momento, sospeso tra sogno e realtà, poteva liberarsi
dalle catene di una esistenza infame.
–
Sono
un idiota. – mormorò a sé. Non aveva senso
smarrirsi in fantasie prive di senso.
La
realtà sarebbe tornata a prenderlo.
Aveva
solo undici anni, eppure ben conosceva la ragione della sua
condizione.
Era
un figlio illegittimo e, per questo, era condannato a subire le
vessazioni dei due nobili e stupidi eredi del conte Antonio de
Gomera.
Fernando
e Adriana, nati dal suo legittimo matrimonio, consacrato da Santa
Romana Chiesa, erano degni delle premure e del denaro del padrone.
Nei
loro colori bruni, era riflessa la conferma di una dinastia potente,
che mai si sarebbe estinta.
Con
i suoi capelli biondi e i suoi occhi cerulei, lui era l’incarnazione
del tradimento.
E
quella deviazione dal sacro ordine doveva essere colpita.
Una
risata, colma di amarezza, risuonò sulle sue labbra. Conosceva
l’ordine naturale della cose, eppure non aveva potuto fare a
meno di compiere una stupidaggine.
Inimicarsi
i due figli del padrone!
Osare
insultare le loro sacre persone!
Accennò
ad un debole sorriso, mentre le lacrime bagnavano le sue guance.
Quando era libero dal suo lavoro, si recava al piccolo cimitero del
villaggio.
Tra
quelle lapidi, così anonime, era presente la tomba di sua
madre, morta due anni prima di tisi.
In
quel silenzio, vibrante di racconti dimenticati, conosceva un
frammento di serenità.
Quei
bastardi, però, avevano conosciuto il suo segreto e avevano
deciso di giocargli un tiro crudele.
Lo
avevano seguito e, incuranti della sua pena di orfano, avevano
cominciato a profanare la sua tomba.
Avevano
versato, con crudele giocosità, il vaso con le margherite, da
lui amorevolmente preparato.
Il
tonfo del vaso era penetrato nella sua mente, monotono, crudele,
implacabile.
La
mamma non meritava un simile trattamento!
Il
dolore era svanito e la rabbia era divampata nel suo piccolo e
fragile corpo.
Aveva
afferrato due sassi e li aveva lanciati contro Fernando e Adriana,
colpendoli alla testa.
Voleva
ucciderli e non gli importava nulla delle conseguenze.
Ma
la sua forza di bambino era ben poca cosa rispetto alla loro e
l’avevano facilmente sopraffatto.
Non
si illudeva, lo avrebbero punito per quel suo atto di ribellione
Nella
loro mente perversa, intossicata dal veleno della superiorità
di classe e nascita, in quanto figlio illegittimo, doveva sopportare
qualsiasi loro sopruso e ringraziare la loro generosità,
perché gli consentivano di vivere alla tenuta.
Era
poco più di uno scarafaggio, a cui si donava la vita con somma
liberalità.
Ma
non avrebbe supplicato la loro pietà.
Un
tempo, avrebbe desiderato l’affetto dei suoi fratellastri, ma,
in quel momento, essi erano per lui fonte di disgusto.
Se
avesse avuto la forza, non avrebbe esitato a tagliare loro la gola.
Lo
avevano legato, gli avevano strappato la maglia e la sferza,
implacabile, si era abbattuta sulla sua schiena.
Pur
con fatica, era riuscito a non gridare. A quei colpi crudeli di
scudiscio aveva opposto il duro silenzio, pur di non sottomettersi a
quei due bastardi.
Dovevano
morire di vergogna davanti alla sua dignità.
La
loro stupida classe sociale doveva svanire davanti alla sua forza.
Non
li avrebbe fatti divertire con le sue lacrime.
Ci
era riuscito, nonostante tutto.
Accennò
ad un sorriso. I suoi fratellastri erano stupidi.
Con
i soldi del padre, pensavano di potere comprare qualsiasi cosa, ma
non riuscivano a piegare il suo spirito.
Per
loro, era un piccolo ribelle e meritava di essere punito, anche senza
alcuna colpa.
Lo
odiavano perché osava esprimere il suo diritto ad essere
rispettato, incurante delle punizioni e delle torture.
Era
fiero di se stesso e della sua fermezza.
Quanti
bambini ricchi avrebbero reagito con tanta veemenza ad una simile
ingiustizia?
I
suoi occhi, ad un tratto, si riempirono di lacrime e dolorosi
singhiozzi strinsero il suo petto. Poteva essere soddisfatto, ma
questo non riempiva il suo senso di oppressione.
Il
vuoto dilaniava la sua anima con artigli feroci e si nutriva del suo
tormento.
Gli
mancava sua madre, che, nei pur ristretti limiti delle sue
possibilità, lo aveva riempito d’amore e di premure.
Non
le importava la sua origine e lo considerava un tesoro cullato dal
mare.
Lei,
abile pescatrice, era innamorata dell’acqua e gli aveva
insegnato tanto.
Quando
ancora era forte, non dilaniata dalla tisi, non aveva esitato a
portarlo con sé e a mostrargli le tecniche di pesca.
Fissò
ancora la luna e mormorò una preghiera. Quei momenti, per lui,
erano sempre tristi, ma non aveva perduto la sua amata madre.
Lara
Ferreira viveva in lui, perché entrambi amavano l’immensità
dell’oceano, in tutte le sue sfaccettature.
– Te
lo prometto, mamma… Fuggirò da questo inferno e
diventerò marinaio. Te lo giuro. Grazie a me, vedrai il mare.
– promise, mentre il vento confondeva le sue parole con i
sospiri degli alberi.
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