Uroboro
Comincia sempre con il tocco di piuma di una mano a scacciarti via i capelli dalla
fronte.
La prima goccia che si infrange sul fondo in legno di betulla, l’altra mano al tuo orizzonte.
È solo una tregua scandita da carezze a senso unico, il respiro che precede l’immersione,
perché poi c’è solo il veleno opaco che trasuda e stilla ad accecarti il senso della visione.
Nelle orecchie hai piedi che si allontanano e urla e il sibilo della marea che ti sommerge,
poi è finita, almeno per il momento, Sigyn è di nuovo con te, e il bianco della ciotola riemerge.
Annaspi verso quella luce in superficie, ma mentre lasci che il rombo della terra si estingua[1],
qualcosa brucia all’angolo delle tue labbra schiuse e catturi il sale sulla punta della lingua.
Lo stillicidio scende caldo sulle piaghe del tuo viso, ma provoca ben altro tipo di affanno,
quello per lei, luminosa fedeltà, catturata per sempre dall’orizzonte cupo del tuo inganno[2].
Alzi un dito freddo ad anticipare la lacrima che lei tiene ancora appesa a un ciglio,
ma nel tintinnio delle catene che trascini risuona, crudele, la risata di vostro figlio[3].