3.
Incontri
La
stanza odorava di fumo. Sdraiato sul letto, con la schiena appoggiata al muro,
Harvey si mise in bocca la sua sigaretta e aspirò, mentre io osservavo
imbambolato la bocca che si stringeva intorno a quel cilindro di tabacco, in
ginocchio sul letto, accanto a lui. Avevo le labbra schiuse, come a voler dire
qualcosa, mentre il cuore mi pulsava per l’emozione, come ogni volta che lo
guardavo fumare.
Volevo provare anch'io.
Facevo scorrere i miei occhi dalle labbra
alla sigaretta, ogni volta che la allontanava per fare uscire il fumo, e
pensavo che quella era la volta buona, l'occasione per osare e provare a
chiedergli di fare un tiro, per vedere se davvero rilassava così tanto come mi
diceva.
In quel periodo avevo davvero la necessità
di distendere i nervi: litigavo continuamente con mio padre a causa della mia
omosessualità, che ancora faticavo ad accettare perché mi aveva portato più
danni che benefici. Nessuna sensazione di libertà, né di essere finalmente me
stesso, ma solo una costante oppressione e una marea di problemi. Primo fra
tutti, i miei continui pernottamenti a casa di Harvey, con cui stavo da un
annetto, perché mio padre aveva preso l’abitudine di sbattermi fuori casa dopo
ogni litigio.
Quella volta, però, non ci fu bisogno di
chiedere per un tiro. Harvey buttò fuori il fumo e si voltò verso di me, con il
sorriso tirato da una parte.
«Smettila di guardarmi così. I bambini non
fumano.»
Io mi sentii ferito. Lui aveva solo due
anni più di me e fumava da molto più tempo. Mi sentii come privato del diritto
di prendere le mie decisioni, perché all’epoca di anni ne avevo già diciotto, e
Harvey non poteva certo dirmi cosa potevo o non potevo fare.
«Non sono un bambino. Mi sembra di
avertelo già dimostrato.»
Avevo permesso a Harvey di insegnarmi
l'amore. Ingenuamente, forse. Con lui avevo avuto tutte le mie prime
esperienze, molte delle quali si erano rivelate piuttosto diverse dalle mie
aspettative. Feci scivolare una mano verso il mio bacino, quel poco che bastava
per fargli capire a cosa mi riferivo.
Lui rise.
Il sesso che mi aveva insegnato era rude
ed egoista, ma in quel momento ero troppo piccolo per capirlo e troppo fedele
per scoprire altre realtà all'infuori di lui. Lasciavo che mi soddisfacesse
quel poco che occorreva, che mi prendesse con i suoi modi e i suoi tempi, che
si accendesse una sigaretta dopo aver consumato la (sua) voglia.
Quel pensiero mi strinse il petto, perché
a nulla erano valse le mie proteste.
I bambini devono ubbidire.
Dalla serranda abbassata entravano
spiragli di luce troppo deboli per illuminare quella camera, che era
sprofondata, come ogni volta, in una triste tonalità di grigio. Le pale sopra
la mia testa continuavano a girare lente, smuovendo la polvere e le particelle
di fumo che mi si attaccavano addosso e mi invadevano le narici. Le lenzuola
erano sporche, macchiate di umori e zeppe di bruciature, probabilmente per la
cenere che vi era caduta sopra in un attimo di distrazione; e i vestiti
accatastati in fondo al letto, sopra la sedia e per terra rendevano quella
stanza più simile a un accampamento di fortuna che non alla camera dove si
consumavano ore d’amore.
Finì di fumare la sua sigaretta e la
schiacciò nel portacenere, finché non si fu spenta del tutto; poi prese il pacchetto,
ne sfilò fuori un'altra e se la portò alla bocca.
Osservai mentre la accendeva davanti ai
miei occhi, impaurito ed eccitato. Lui fece il primo tiro e vidi la sigaretta
bruciare. Realizzai subito che stava bruciando dentro i suoi polmoni, e in
mezzo a quella eccitazione si insinuò anche un po’ di paura. La sigaretta passò
dalla sua bocca alla mia e un fremito mi percorse quando ne strinsi
un’estremità tra le labbra. Era piccola e solida, non troppo dura. Insapore,
per il momento – forse sapeva un po’ di tabacco – e già sprigionava quell’odore
che avevo sentito più e più volte.
Stavo per fare qualcosa di trasgressivo,
che avrebbe segnato un punto di non ritorno. Avevo diciotto anni, facevo sesso
e fumavo. Mi sentii invincibile e gli occhi di Harvey puntati su di me, con
quel pizzico di orgoglio, non fecero che aumentare la sensazione di essere
finalmente degno della società – e di lui.
In attesa di istruzioni, mi divertii a
muoverla con la lingua, mentre osservavo il fumo venirmi in faccia.
«Be’? Fumatela. Mica dovrò anche dirti
come fare?»
L’avevo visto fumare un sacco di volte, ma
non avevo la minima idea di come replicare quei movimenti. Alla fine immaginai
che fosse una cannuccia e di dover solo bere dell’acqua.
Sbagliato.
Aspirai troppo forte e tossii come un
matto, la gola in fiamme. Allontanai immediatamente la sigaretta dalla mia
bocca, mi battei il petto e cercai di scacciare quel fumo che sembrava volesse
soffocarmi. Lui mi guardava e rideva, mentre io mi chiedevo cosa ci fosse di
così divertente, perché sapeva benissimo che era la mia prima volta. Quando il
bruciore alla gola si fu placato, però, non mi diedi per vinto.
Me la portai nuovamente alla bocca e
puntai gli occhi su Harvey, perché volevo che vedesse mentre facevo qualcosa
che lo avrebbe reso fiero di me. Aspirai un po’ più piano e avvertii il fumo
caldo entrarmi nella gola in modo più gentile rispetto al primo tiro. Soffiai
con il naso nel tentativo di far uscire il fumo come faceva lui, ma non mi
riuscì. Il calore della sigaretta mi scese giù, fino ai polmoni: lasciai che mi
accarezzasse il palato e poi soffiai appena, come faceva lui. Quando il fumo
uscì, mi sembrò quasi di aver congedato un ospite; ormai era già volato via,
sospinto dal leggero movimento delle pale sopra la mia testa.
Me la fumai tutta, non senza un po’ di
goffaggine. Arrivai in fondo e, stranamente, mi sentii davvero meglio, ma non
seppi mai se fosse per la presenza di Harvey o per la sigaretta in sé. Quando
la schiacciai anche io nel posacenere, come aveva fatto lui pochi minuti prima,
mi sentii un’altra persona. Mi leccai le labbra e assaporai l’aroma che mi
aveva lasciato la sigaretta, ma non lo trovai così gradevole. Buttai giù la
saliva un bel po’ di volte, come se volessi liberarmi del cattivo sapore di una
medicina troppo amara. Se ne andò poco dopo, insieme alla sensazione di
superiorità.
Come se fosse orgoglioso di me, Harvey mi
baciò sulle labbra e mi sorrise.
«Complimenti, sei diventato grande. Meriti
una ricompensa.»
E io feci l’errore di credergli, perché vivevo
solo per renderlo felice.
Ma grande, con lui, lo ero già diventato
in altri modi.
«Diventerà
un vizio?»
Stavamo passeggiando a Central Park. Era
già aprile inoltrato e si cominciava a star bene.
«Ma no. Lo farai solo quando ne sentirai
il bisogno. Puoi smettere quando vuoi.»
Il problema è che io ne avevo bisogno
sempre. Non per riprendermi dalle litigate con mio padre, ormai frequenti, ma
perché volevo farmi grande agli occhi di Harvey, ogni volta che mi stava vicino
– praticamente sempre.
Il mio intento si rivelò un buco
nell’acqua: mi piantò ai primi di maggio, dicendomi che ero un ragazzino.
E tutto ciò che mi aveva lasciato era uno
stupido vizio.
Mi
accorsi presto di non poterne più fare a meno.
Un tiro oggi, un tiro domani, fino a che
non comprai il mio primo pacchetto.
Marlboro, come le sue.
Ricordavo ancora come mi tremavano le mani
quando uscii fuori dal tabaccaio col mio trofeo in mano, l’eccitazione di avere
un pacchetto tutto mio, di aver fatto una svolta così importante.
Una volta arrivato a casa mi ero rigirato
quel pacchetto tra le mani non so quante volte, prima di aprirlo; e quando lo
scartai e trovai davanti a me quelle dieci sigarette, le fissai per un bel po’
prima di portarmene una alla bocca e fare il primo tiro in casa mia. Col mio
pacchetto.
Quella sigaretta aveva un sapore diverso
da quelle che prendevo a scrocco dai miei amici e da Harvey; aveva il sapore di
una conquista, di un cambiamento, ma anche di un cancro che ti si attacca e di
cui non puoi liberarti, anche se, al contempo, ti fa stare bene quel poco che
basta.
Ormai c’ero dentro, lo avevo capito:
quella sensazione della sigaretta tra le labbra, quell’ossigeno di cui non
potevo più fare a meno, che mi aveva in pugno e non aveva alcuna intenzione di
farmi scappare.
E quel calore in gola, fin dentro ai
polmoni, in ogni angolo del mio corpo!
Mi faceva sentire bene, o almeno avevo
bisogno di pensarlo; e quel pacchetto finì nel giro di poche ore.
Presto
mi ritrovai a comprare pacchetti praticamente tutti i giorni.
Ero ormai diventato schiavo di quel
sapore, di quella sensazione di pace che mi regalava ogni volta e perfino di
quella tosse perenne che non avevo mai avuto prima. Ma pensavo comunque che
fosse il giusto prezzo da pagare per il benessere che mi dava, e non me ne
importava niente della salute, perché quelle sigarette sembravano ridonarmela,
invece di portarmela via.
Molte volte mi ero convinto che avrei
potuto davvero smettere quando volevo, benché non ci fossi mai riuscito: perché
una volta c’era mio padre, una volta l’affitto, una volta mio fratello Jimmy.
Tre anni di ininterrotte preoccupazioni, una dietro l’altra, una sopra
l’altra. E la sigaretta come unica compagnia, che mi capiva e mi rassicurava,
impedendomi di impazzire per la vita che non mi ero scelto, ma che dovevo
vivere per forza di cose.
Il pensiero della mia esistenza spezzò la
calma che ero riuscito a trovare, che trovavo sempre; fui catapultato nel
presente, davanti all’ingresso dell’università, mentre i ragazzi borbottavano,
tra urla e schiamazzi, tra ripetizioni ossessive di materie d’esame e racconti
eccitati della sera prima.
Feci un altro tiro, ma aspirai troppo e
sentii la gola bruciare. Osservavo le persone passare e immaginavo di
fulminarle con lo sguardo, di farle sparire e ammutolirle in un battito di
ciglia. Avessi potuto! Sentii il battito aumentare, l’insofferenza verso il
mondo crescere di attimo in attimo; forse sarei potuto stare anche peggio, se
non fosse stato per il mio telefono: era arrivato un messaggio.
Sbloccai la tastiera e feci per aprirlo,
ma mi accorsi immediatamente che era un numero sconosciuto. E per poco la
sigaretta non mi cadde a terra, quando lessi non solo il contenuto, ma anche
chi me lo aveva inviato.
Ciao Nathan! Ho due biglietti
per un concerto dei Wit Matrix che si
terrà stasera,
ti va di venire con me?
Fammi sapere,
Alan
Credo che la sigaretta finì di bruciare
tra le mie dita, perché rimasi talmente stordito da fissare lo schermo senza
riuscire a dire niente.
In primis perché c’era scritto Alan – quell’Alan?
-, poi perché non riuscivo a capacitarmi che anche a lui interessassero i
ragazzi. Certo, un po’ si intuiva, benché non fosse minimamente appariscente,
ma mai mi sarei aspettato un invito così esplicito e così tempestivo,
soprattutto perché aveva dato l’idea di non sopportarmi proprio.
Continuai a fissare lo schermo senza
riuscire a connettere i pensieri, tanta era l’incredulità. Poi ci riflettei un
attimo e arrivai alla conclusione più logica: era uno scherzo. Qualcuno gli
aveva rubato il cellulare e aveva mandato quello stupido messaggino al posto
suo, giusto per farsi due risate alle sue spalle - e alle mie. Se davvero Alan
non mi sopportava, perché avrebbe dovuto farmi un invito del genere? Mi si
accese una lampadina e pensai d’aver capito tutto: immaginai che Alan fosse uno
di quei tipi orgogliosi, di quelli che fanno i duri per nascondere i propri
sentimenti e che quello fosse un modo timido e furtivo per sondare il terreno.
Quell’immagine mi intenerì così tanto che buttai a terra la sigaretta e mi
affrettai a rispondere, anche se già ero in ritardo col seminario.
In fondo, anche se fosse stato uno
scherzo, non avevo nulla da perdere.
Fissammo
davanti allo stadio alle 20:30, mezz’ora prima dell’inizio del concerto, e io
ancora non ci credevo. Avevo passato tutto il tempo in centrale a stuzzicare
Alan quanto più possibile, perché Ash mi aveva detto che era davvero
intrattabile in quel periodo e che aveva bisogno di una svegliata. Secondo lui
ero la persona adatta e così avevo deciso di tentare; in fondo la cosa si
prospettava divertente e io non avevo niente da fare.
Mi spuntò un sorriso sul volto al solo
pensiero, che però tramontò quando davanti a me si materializzò Steve, che Alan
avrebbe trovato perfino più odioso di me.
«Ciao, stella.»
«Ciao, Steve. Che cosa vuoi?»
«Facciamo da me o da te?»
Sospirai, scocciato. Avrei spento
volentieri il sorrisetto di Steve con un pugno in piena faccia e, in quel
momento, ebbi una mezza idea di come avesse potuto sentirsi Alan parlando con
me.
«Ti ho già detto che non sono più
interessato.»
«Oh, Nathan.» E si avvicinò a me,
pericolosamente. Sapeva che odiavo quando invadeva il mio spazio personale in
quel modo, perché la gente chiacchierava e io non volevo certo essere associato
a quella specie di parassita. «Perché adesso hai cambiato idea?»
Perché sei tremendamente appiccicoso,
avrei voluto dirgli.
Ma, come un lampo di genio, mi venne in
mente un’idea molto, molto migliore. Sfoderai il sorriso più convincente che
potessi fare.
«Perché mi sono fidanzato.»
Lui rimase un po’ a bocca aperta, poi
abbozzò un sorriso a sua volta, incerto se ridere o meno davanti a
quell’affermazione. Alla fine si limitò ad aggrottare la fronte.
«Tu…» Era chiaramente incredulo, perché
apriva la bocca senza che uscisse alcun suono. «Davvero?»
«È così improbabile?»
«No, figurati.» Lo disse con poca
convinzione nella voce, tanto che cominciai a chiedermi se il mio fidanzamento,
per quanto finto, fosse veramente un fatto di eccezionale rilevanza. «È che
pensavo non ti interessasse.»
«È stata solo sfortuna. Ma adesso ho
incontrato quello giusto.»
«Ah sì? Sarei proprio curioso di sapere
com’è il tipo giusto per te.»
Ghignai. Stavo per dare fondo a tutta la
mia fantasia e a tutta la soddisfazione di essermi finalmente sbarazzato di
quell’essere appiccicoso che era Steve.
«È alto, moro, occhi scuri, molto virile.
È un poliziotto, sai?»
Mi accorsi che avevo descritto il mio
finto fidanzato sulla base di Alan, forse perché la mia mente aveva impresso la
sua immagine nel subconscio per via degli sms. Steve sorrise malizioso.
«Non pensavo ti piacessero certi
giochetti.»
E mimò due polsi uniti da un paio di
manette. Scoppiai a ridere, perché davvero non ce lo vedevo Alan a fare quel
genere di cose – ma chi poteva dirlo?
«Ti sbagli. Alan è molto romantico, non
riesce a starmi lontano per più di cinque minuti.»
«Ah, è così che si chiama?»
Mi morsi la lingua. Ebbi come la
sensazione che di lì a poco mi sarei pentito di aver rivelato il nome del mio
finto fidanzato. Sperai che non avesse conseguenze sul resto.
«È così che si chiama.»
Steve annuì lentamente, poi incrociò le
braccia al petto.
«Quindi ti accompagnerà sicuramente alla
festa di Andrew, no?»
Risposi d’istinto, senza capire il perché
di quella domanda improvvisa.
«Certo che verrà. Perché non dovrebbe?»
Era chiaro che Steve sarebbe venuto alla
festa solo per vedermi, perché ero quasi convinto che non avesse la minima idea
di chi fosse Andrew. Be’, per la verità nemmeno io lo conoscevo poi così bene,
ma mi aveva salvato da un esame che altrimenti sarebbe stato fatale, quindi gli
dovevo almeno la mia partecipazione.
«Già. Perché?»
Steve tornò ad avvicinarsi in quel modo
che odiavo, ma non potevo più indietreggiare, perché ero già spalle al muro, in
quel cunicoletto lontano da occhi indiscreti. Mi cinse la vita con entrambe le
mani, ma lo ignorai, nella speranza che smettesse da solo. Speranza che dovetti
abbandonare subito, a quanto pare.
«Adesso devo andare, però.»
«Sarò proprio curioso di conoscerlo.» Mi
mollò un innocente bacio sulla guancia che mi disgustò ugualmente, nonostante
avessi condiviso con lui molto di più. «Ciao, stella.»
Si incamminò, ma ribattei prima che fosse
troppo lontano per sentirmi.
«E non chiamarmi “stella”.»
«Hai ragione, scusa.» Lo vidi
riavvicinarsi e mi scostai, ma non riuscii ad evitare che le sue labbra si
posassero nuovamente su di me – chiamarlo “bacio” era veramente disgustoso -,
agli angoli della bocca. «Ciao, tesoro.»
Non feci in tempo a ribattere che lui se
ne era già andato.
Forse
ero nei guai. Va bene, ero nei guai fino al collo. Avevo appena tirato in ballo
un semi-sconosciuto per una festa alla quale non sapevo nemmeno se avrebbe
partecipato, dove avrebbe dovuto fingersi il mio fidanzato per una sera,
tenermi per mano e forse baciarmi - ma questo l’avrei certo omesso dal mio
invito, quando glielo avrei fatto.
Non ero sicuro che Alan avrebbe accettato;
in fondo mi aveva appena chiesto di uscire, il che implicava che aveva un
qualche interesse per me. Certo, era strano e sicuramente avrebbe apprezzato
poco questo genere di giochetti infantili, lui che sembrava così maturo, ma
forse non mi avrebbe rifilato un rifiuto categorico. Dovevo farmi coraggio e
ripetermi quelle frasi come un mantra.
Sarei uscito con Alan e avrei cercato di
avvicinarmi a lui, per poi invitarlo a una festa innocente.
Semplice. Chiaro.
… Fallimentare.
Feci un altro tiro alla mia sigaretta del
mezzogiorno, aspirando come non mai, mentre l’agitazione e l’adrenalina
cominciarono a scorrere in tutto il mio corpo.
Ma come mi era saltato in mente di dire
proprio il suo nome? Perché non avevo pensato a qualcun altro?
Si accese un’altra delle mie lampadine,
che sperai portasse un’idea migliore della precedente.
Ero proprio sicuro che non ci fossero
altre persone a cui chiedere? Cominciai a pensare a tutti i ragazzi gay che
conoscevo e che non facessero parte dell’università. Sfortunatamente, non
riuscii nemmeno a riempire una mano.
Mi scrocchiai le dita, feci un giro in
tondo e un respiro profondo. Dovevo stare calmo.
Calmo.
Calmo.
Calmo…
Chiusi gli occhi e provai a riflettere.
Avevo una festa a cui dovevo assolutamente
portare il mio finto fidanzato Alan; non potevo mancare, né, tantomeno, andarci
da solo, altrimenti Steve mi si sarebbe riattaccato addosso come una
sanguisuga. Alan mi aveva chiesto di uscire e pareva interessato a me. Bastava
fare due più due.
Elementare!
Avrebbe accettato, me lo sentivo. Qualche
moina, qualche complimento per affrettare un po’ le cose e sicuramente non
avrebbe rifiutato. Era un piano perfetto, non c’era niente che non andasse.
Perché mi ero agitato tanto?
Non ne avevo motivo! Proprio no. Nessun
motivo.
Non c’era bisogno di portare qualcun altro
e spacciarlo per Alan, almeno al momento. Le cose sarebbero filate lisce come
l’olio e, se proprio fosse sopraggiunto qualche problema, ci avrei pensato al
momento.
Era tutto a posto. Tutto risolto.
Feci un altro tiro alla sigaretta del
mezzogiorno, ma stavolta ero più rilassato, anche se il cuore mi martellava
ancora. Aspettai un po’ prima di buttare fuori il fumo e lasciai che mi
accarezzasse il palato con quel suo calore rassicurante. Poi alzai gli occhi al
cielo ed espirai.
Stava andando tutto nel verso giusto.
O almeno era ciò che volevo credere.
Percorsi il vialetto che costeggiava l'edificio
universitario, una strada lastricata e silenziosa che dava su un piccolo
cortile sempre deserto e che conduceva all'entrata posteriore dell'edificio,
meno utilizzata rispetto alla principale. L'unico rumore che riempiva l'aria
era quello dei miei passi sui ciottoli e quello di qualche sassolino che, ogni
tanto, rotolava sospinto dalla punta del mio piede.
Stavo per svoltare
l'angolo, ma all'improvviso mi fermai. C'era qualcuno che piangeva. Tirava su
col naso, ma era un pianto discreto, senza singhiozzi.
Allungai il collo per
sbirciare chi ci fosse dietro l'angolo e rimasi sorpreso nello scorgere una
schiena fin troppo conosciuta, con la testa china sul muretto che delimitava il
cortile universitario: era Ryan, probabilmente l’unico amico mai avuto fino a
quel momento.
Tirò su un'altra volta,
spostando il capo da destra a sinistra. Rizzò la testa e inspirò rumorosamente,
poi strusciò una mano sul naso, accompagnando il gesto con altri respiri
vigorosi.
Alternò lo sguardo da una
parte all'altra, poi si voltò per fare altrettanto e io riuscii appena in tempo
a ritrarmi dietro il muro, prima che mi vedesse. Aspettai qualche secondo e poi
tornai a fare capolino, ma lui era già ripartito verso l'entrata posteriore,
gettando occhiate alla sua destra come precauzione.
Quando fu entrato, uscii
dal mio nascondiglio e mi avvicinai al muretto dove era stato Ryan fino a quel
momento. Non era molto diverso dall'ammasso di pietra che osservavo ogni giorno
e, pur sforzandomi di notare qualcosa di strano, dovetti ammettere che lì sopra
non c'era niente di particolare, a parte le solite crepe e tracce di muschio.
Forse Ryan era davvero
andato lì per piangere in solitudine e l'unica sostanza presente su quel
muretto erano le sue lacrime ormai dissolte.
Ero riuscito a osservarlo
solo per un breve momento e mi era sembrato del tutto normale. Certo, magari
aveva gli occhi un po' spalancati, ma lo si poteva davvero definire strano?
Forse era solo suggestione, in fondo lo avevo visto da lontano e non avevo
voglia di saltare a conclusioni affrettate.
Mossi i miei ultimi passi
su quel vialetto, finché non raggiunsi l'entrata. Ryan era già scomparso chissà
dove e io ero in ritardo con la lezione, ma mi ripromisi di parlare con lui,
non appena si fosse presentata l’opportunità.
Da ormai un paio di mesi
eravamo distanti, o meglio: si era allontanato lui. Era successo
all'improvviso, senza una reale causa scatenante.
In passato era capitato
di studiare insieme o scambiarci gli appunti, ma in quel momento la consideravo
un'ipotesi remota, una forzatura per non ammettere che qualcosa era cambiato
nel nostro rapporto, cominciato quando eravamo solo due ragazzini, spesso
scambiati per fratelli per via dello stesso colore degli occhi e dei capelli.
Con ogni probabilità
eravamo semplicemente noi a essere cambiati, anche se, da quando aveva fatto
domanda per quella borsa di studio per l'anno successivo, non era più stato lo
stesso. Ryan era un ragazzo di buona famiglia: non navigavano nell’oro, ma non
erano nemmeno dei morti di fame. I suoi genitori avevano messo da parte qualche
risparmio per finanziare gli studi del figlio e davvero non mi spiegavo
quell’improvviso bisogno di una borsa di studio, che anche io avevo provato a
chiedere, senza successo.
Forse stava davvero
piangendo, su quel muretto. Forse in quelle sue lacrime si nascondeva davvero
qualcosa che non conoscevo e che l'aveva ridotto così.
Entrai rapidamente in
aula con questi pensieri e presi posto nella prima sedia libera, con la speranza
di essere stato il più discreto possibile.
Lasciai che le proprietà
del polietilene mi entrassero in testa e, piano piano, i tormenti su Ryan
lasciarono il posto ad Alan, del quale mi ricordai all’improvviso. Tornai a
formulare ipotesi sul perché di quell’invito e le mie idee furono il pensiero
predominante di tutta la mattinata.
Ripensandoci a mente
fredda, però, avrei dovuto ammettere una cosa: Ryan non aveva esattamente
l'aria di un reduce dal pianto.
Quando
la lezione finì, mi apprestai a uscire fuori dall'aula il più in fretta
possibile. C'erano parecchie persone in quella stanza, troppe per non
desiderare di mettere il naso fuori da quelle quattro mura per prendere una
boccata d'aria.
Come uscii fuori, però, notai Ryan e Laura
seduti su una panca accostata al muro. Cercai di camminare verso di loro, ma
avevo le gambe bloccate; forse era un segno che avrei dovuto riflettere prima
di dire qualcosa, o forse dovevo solo riordinare le idee.
Osservai Ryan, certo che non mi avesse
ancora visto, ma non notavo niente di strano in lui. Era brillante come al
solito, rideva e scherzava con Laura come se niente fosse. Non era euforico, né
sembrava fuori dal mondo: era semplicemente normale.
Mi avvicinai a piccoli passi a loro e il
viso di Laura si illuminò quando mi vide. Si alzò dalla panca e mi venne
incontro dandomi una pacca sulla spalla.
«Quanto era soporifero da uno a dieci?»
«Venti?»
Laura ridacchiò con fare sguaiato, come
accadeva ogni volta che aprivo bocca. Incrociai lo sguardo di Ryan e mi
sorrise, e lì ne ebbi la conferma: mi ero sognato tutto. Con ogni probabilità
cercavo una scusa per giustificare il nostro allontanamento, un fattore esterno
su cui scaricare il declino della nostra amicizia.
«Dovresti ormai saperlo che Nathan ha
sviluppato una tempra d'acciaio contro la Karrell.»
«Sì, sei straordinario!»
Avevo notato entrambe le cose, come ogni
volta. Ryan che era tornato a chiamarmi 'Nathan', senza abbreviazioni, e Laura
che usava sempre aggettivi esagerati per descrivermi.
Non mi sarebbe dispiaciuta né l'una né
l'altra cosa, se questo non avesse implicato un ovvio cambiamento nel rapporto
che ci univa. Da un po' di tempo, ormai, avevo il sospetto di piacere a Laura e
temevo che presto mi avrebbe chiesto di uscire.
Ryan appoggiò la testa al muro e mugolò.
«Non ho assolutamente voglia di seguire il
seminario, ma devo.»
Gli battei una mano sulla schiena e gli
rivolsi un sorriso. Lui afferrò la borsa e se la mise a tracolla, poi sventolò
la mano.
«A dopo, ragazzi.»
Io e Laura lo salutammo nuovamente e lo
seguimmo con lo sguardo finché non scomparve dalla nostra vista, poi lei si
voltò verso di me.
«Ci prendiamo un caffè?»
Non attese nemmeno una mia risposta e
cominciò subito a incamminarsi.
Per
tutto il pomeriggio continuai a pensare a Ryan e al muretto. Pensai anche che
non ero sicuro di ciò che avevo visto, non potevo trarre conclusioni
affrettate. Ryan era pulito, di questo ero sicuro; e che era cambiato lo
avevamo visto tutti. Durante quelle sue vacanze estive era successo qualcosa o
aveva incontrato qualcuno, o forse aveva semplicemente avuto problemi in
famiglia di cui non voleva parlare.
Mi arrovellai tutto il tempo in cerca di
una risposta che, ovviamente, non trovai.
Il
potere rilassante delle mie congetture sortì il suo effetto finché non tornai a
casa. Mi sentivo armato di determinazione e forza di volontà, tanto che
riguardai gli appunti presi durante la giornata.
Ma ogni volta che leggevo di architettura
rinascimentale o del polietilene, pensavo
a una scusa per convincere Alan ad accompagnarmi. O alla scusa con cui Alan
avrebbe rifiutato l’invito. La verità è che non ero assolutamente certo che
avrebbe accettato; d’altronde, chi glielo faceva fare?
Praticamente non ci conoscevamo, mi aveva
chiesto di uscire, sì, ma non era detto che sarebbe andato tutto bene. Avevo
notato le sue occhiatine, i suoi sguardi incantati, ma forse non era
abbastanza. Forse ero stato avventato nella mia chiacchierata con Steve e
improvvisamente sentii il mondo cadermi addosso. Ero stato uno stupido oppure
no? Era davvero una situazione così disperata o l’esasperazione per Steve stava
ingigantendo ogni cosa?
Mi alzai e mi diressi verso la dispensa,
in cerca di qualcosa da sgranocchiare. Perché avevo solo stupidi crackers senza
sale? E tutti sbriciolati, poi! I biscotti da colazione erano finiti. Le
caramelle gommose non mi andavano. L’ultima sigaretta l’avevo fumata nemmeno
mezz’ora prima, e non mi sembrava il caso di dar fondo al pacchetto –
dopotutto, ero ancora uno studente squattrinato.
Avevo le mani sudate, una gran voglia di
urlare e di sparire per sempre.
Perché ero tanto agitato?
Forse perché avevo l’occasione di
sbarazzarmi di Steve in modo indolore? Perché tutto sembrava andare per il
verso giusto? O forse perché era il primo vero appuntamento dopo secoli?
Mi buttai a peso morto sul divano e fissai
il soffitto.
Era solo uno stupido appuntamento, dove
oltretutto non c’era nemmeno coinvolgimento sentimentale. Mi sarebbe bastato
giocarmi le mie carte con lucidità e freddezza, tutto qua. Certo, un po’ ero
curioso di sapere cosa frullava nella testa di Alan, scoprire cosa lo aveva
colpito di me, ma non era la priorità.
Guardai l’orologio e mi accorsi che
mancavano meno di due ore all’appuntamento.
Era il momento di scegliere cosa mettere.
Dovevo
entrare nelle grazie di Alan, perciò optai per un outfit che non desse troppo
nell’occhio, ma che facesse capire che per me era un’occasione importante. Mi
diedi un’ultima pettinata davanti allo specchio, mi sistemai di nuovo la
maglietta e mi assicurai che la fibbia della cintura fosse perfettamente al
centro. Controllai un’ultima volta che i capelli fossero in ordine e poi, dopo
un respiro profondo, mi decisi a uscire.
La
metropolitana viaggiava rapida, immersa in quell’innaturale silenzio. Accanto a
me c’era un’anziana signora, di cui riuscii a sbirciare solo un vestito a fiori
e un cappellino sulla stessa falsariga; davanti a me c’era invece un
adolescente, che evitava accuratamente di guardarmi, troppo perso nella sua
partita a Snake.
Non mi stupì il suo atteggiamento. Nella
metro gli sguardi non si incrociavano mai e, quando accadeva, era imbarazzante;
ecco perché tentavo di leggere la pubblicità sopra la testa del ragazzo col
cellulare, cercando di decifrarne il testo con il misero bagliore diffuso da
quelle luci un po’ troppo vecchie. La linea di Harlem non era certo curata come
quella che passava da zone più centrali: i vagoni erano stati presi d’assalto
dai writers e avevamo i sedili più scadenti di tutta la città, per non
parlare del barbone che ne stava occupando ben tre, sopra i quali si era
disteso con la sua bottiglia di vodka in mano, mentre biascicava frasi
sconnesse in una lingua incomprensibile.
Scrollai le spalle. C’erano guai ben
peggiori della puzza di alcool sulla metro, tutto sommato.
Finalmente fu annunciata la mia fermata –
unica voce che spezzava quel silenzio di anime assenti –, e fui ben contento di
abbandonare quella realtà squallida che riusciva a riassumersi in un vagone di
metro.
Uscii fuori e mi ritrovai in una piazza stranamente
chiassosa, mentre in lontananza vedevo già le luci dello stadio a illuminare la
notte. Da dove sbucavano tutte quelle persone?
Il traffico era fermo e non si contavano i
colpi di clacson per delle precedenze non rispettate, mentre le insegne luminose
di bar e ristoranti lampeggiavano rapide, dando veramente l’idea che quella
città non andasse mai a dormire – e difatti non lo faceva, nemmeno in
periferia.
Mossi qualche passo verso la bolgia che mi
impediva di vedere a un palmo dal naso e, tra uno spintone e l’altro, arrivai
sulle strisce pedonali, che mi avrebbero portato dal lato dello stadio. Scattò
il verde e mossi il primo passo.
«Nathan?»
Mi bloccai e fui travolto dalla folla, che
mi spintonò finché non si esaurì. Le macchine ripresero a sfrecciare davanti ai
miei occhi, ma ero troppo impegnato a pensare. Avevo già sentito quella voce,
certo. La conoscevo, sapevo a chi apparteneva. Come avrei potuto scordarlo?
Come avrei potuto scordare…
«…Harvey?»
Mi voltai.
Era lì, in piedi, davanti a me.
Il mio primo amore.
Lui
mi sorrideva. Non era molto diverso dal ventenne che ricordavo, tranne per il
fatto che adesso sembrava più maturo. Pensai che era sicuramente merito di quel
pizzetto, quello che non gli avevo mai visto portare.
Non lo vedevo da una vita, da quel
giorno. Dal giorno in cui mi aveva lasciato, anche se non avevo mai creduto
alle sue motivazioni.
Quel sorriso mi riportò all’epoca dei miei
diciott’anni, quando mi ero sentito un ragazzino spaurito e lui era stato la
mia guida, colui che mi aveva preso per mano e mi aveva fatto conoscere
l’amore, in ogni sua forma.
Gli avevo dato tutto me stesso, perché lui
sembrava capirmi con uno sguardo, perché sapeva cosa avevo passato, cosa mi
aveva scosso negli anni della mia adolescenza. Ero stato fermamente convinto
che nessun altro, a parte lui, avesse il dono di leggermi dentro in quel modo;
in fondo non mi ero sbagliato così tanto, perché di ragazzi, dopo di lui, non
ne avevo avuti più. Qualche scopata, sì: ma nessun altro mi aveva consacrato
all’amore come Harvey.
«È una vita che non ci vediamo.»
Mi sfiorò una guancia, col suo tocco caldo
e quelle dita smagrite e, per un attimo, fremetti impercettibilmente. Mi sembrò
di essere tornato indietro nel tempo, a quel periodo dove bastava un suo
sguardo per sentire una fitta allo stomaco e le guance avvampate.
Continuavo a essere rapito dal suo
sguardo, mentre lui mi sorrideva ancora, per niente stupito dalla mia reazione.
Non riuscivo veramente a credere che lui fosse lì, davanti a me; non pensavo
che il mio passato avrebbe potuto fare il suo ingresso così, squarciando il
presente con un sorriso.
«Già, sono passati…», contai mentalmente.
«… Tre anni?»
Lui rise e notai solo in quel momento che
la voce gli si era abbassata un po’.
«Un’eternità. Mi dispiace non averti più
sentito, sai?»
Io annuii, troppo ammutolito per dire
qualcosa. Lui si avvicinò, in una distanza che reputai piuttosto intima. Non mi
dispiacque.
«Dove stavi andando?»
In quell’istante mi ricordai di Alan,
dell’appuntamento e della festa, che avevo momentaneamente rimosso. Il rumore
strombazzante dei clacson tornò a rimbombarmi nelle orecchie, così come gli
schiamazzi di quella città un po’ troppo sveglia. Controllai l’orologio: ero
ancora in orario.
«Ho un appuntamento allo stadio.»
Mi pentii quasi di avergli detto la verità
e non seppi dire il perché. Lui sembrò dispiaciuto e il mio cuore perse un
battito. Ancora, non seppi dire il perché. Erano tre anni che non pensavo a
lui, anche se sapevo che lui, in qualche modo, aveva continuato a vivere dentro
di me. In ogni ragazzo che incontravo c’era il suo ricordo con cui dover fare i
conti, e mai nessuno era riuscito a domare i miei sentimenti come ci era
riuscito lui, a cui era bastato un semplice sguardo per farmi dimenticare il
mondo là fuori.
Guardandolo meglio, lo trovai dimagrito.
Ebbi come l’impressione che avesse le guance incavate e notai una cicatrice
sotto l’occhio destro, ma i riflessi di luce accentuavano le ombre che,
normalmente, non erano certo così scure e incisive.
«Che peccato, io vado nell’altra
direzione. Tra l’altro, dovrei proprio andare.» Mi guardò con spirito di
rassegnazione, perché sembrava che davvero non potesse stare un minuto di più.
«Mi ha fatto piacere rivederti, Nathan. E sono felice che tu stia uscendo con
qualcuno, davvero. Ah», estrasse velocemente il cellulare, «mi lasceresti il
tuo numero? Così ci sentiamo nei prossimi giorni, se vuoi.»
Era davvero felice di sapere che uscivo con qualcuno?
«Sì, certo. Volentieri.»
Avevo malcelato tutta la mia emozione
dietro quella richiesta. Forse la mia voce era uscita un po’ stridula, forse
avevo parlato con un filo di eccitazione; non ebbi tempo di rendermene conto.
Gli dettai il mio numero e lui lo salvò sulla rubrica. Il cuore che non ne
voleva sapere di calmarsi. Continuava a battere forte, rapido, provocandomi
continue fluttuazioni nello stomaco che tentavo di fermare, perché non avevano
senso; non mi capacitavo di quelle sensazioni, non dopo tutto quel tempo.
«Ci sentiamo, allora. A presto.»
«A presto!»
Risposi con insolito entusiasmo e un
brivido scosse il mio corpo dall’alto al basso, mentre i miei occhi seguivano
la sua figura alta e slanciata che si allontanava salutandomi.
Finalmente
deglutii di nuovo e mi accorsi che avevo la gola completamente secca.
Credo che feci passare almeno altri due o
tre scatti di semaforo prima di tornare alla realtà. Continuavo a rivivere il
suo sorriso, la sua voce più roca di quanto ricordassi, il tocco delle sue dita
sulla mia guancia. Aveva sicuramente sballato ogni mio equilibrio, conquistato
con tanta fatica in quei tre anni di pellegrinaggio fuori da casa. Ormai ero
convinto di avere la mia stabilità in qualche modo, sia pratica che emotiva; mi
divertivo a flirtare con i ragazzi, a fare il prezioso e tutto sommato mi
andava bene. Mi impegnava poco, non mi faceva soffrire e avevo un ritorno, in
qualche modo – certe avventure non si dimenticano davvero.
Eppure, Harvey non toccava nessuna di
queste corde. Non era stata l’avventura di una notte, non ci avevo flirtato per
divertirmi. Era stato il mio primo amore. Quello che ancora in qualche modo
portavo nel cuore, anche se in modo diverso e più maturo rispetto a prima. Il
sentimento era finito da un pezzo, ma non mi sarebbe dispiaciuto passare con
lui un pomeriggio davanti a una tazza di caffè. Sperai che mi chiamasse presto.
Attraversai la strada e mi avviai verso lo
stadio, mentre nella mia mente si fece largo nuovamente la voce minuta della
mia coscienza, che zittii subito. Perché quell’incontro mi aveva scosso, sì, ma
non avevo più diciott’anni. Non ero più il ragazzino che ero allora – e,
soprattutto, non ero più un ragazzino. Non mi reputavo nemmeno un uomo, per la
verità, ma quell’esperienza mi aveva segnato e insegnato. Harvey ormai apparteneva
al passato.
Non avevo davvero bisogno che la coscienza
mi facesse la paternale, no.
E mentre cercavo di scrollarmi quei
pensieri di dosso, adocchiai Alan in piedi davanti allo stadio: mi stava
aspettando.