Il signore dei Khai

di Enchalott
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Come l’acqua e l’olio
 
Azalee accarezzò la siepe di rose che circondava il patio marmoreo. La sua essenza immortale era legata alla natura, adorava ogni fiore ma i boccioli vellutati, dotati di quel profumo unico, erano i suoi preferiti.
Il colore rosso li rendeva dolci e struggenti, era la sfumatura della chioma di colui che possedeva il suo cuore, una tinta calda e sanguigna che feriva lo sguardo e scaldava l’anima. La corteccia lucida ricordava la gradazione bronzea delle sue iridi: un contrasto tra l’innocenza e la pericolosa insidia delle spine.
Lo amava a prescindere dalla sete di guerra, dalle brame di gloria, dal dolore che non si attenuava. L’immortalità era divenuta una punizione nell’istante in cui era scomparso dal pantheon.
Spero che Kalemi lo trovi, spero che Kalemi rinunci, spero… spero…
I glicini sospesi disegnavano ombre delicate sulla pelle nivea, mentre sostava sotto il pergolato dove lui le aveva rubato il primo bacio.
Un sorriso sfacciato, irresistibile. Fiamme di passione nelle iridi di predatore, sulle labbra insolenti, fiamme incise in piuma sulla fronte abbronzata. Parole roventi e sincere, ogni sua scintilla era fuoco.
Azalee tese le mani allo zampillo della cascata, quella che lui aveva usato come scusa per trascinarla lontano e dichiararsi. Acqua come lei, vita opposta alla morte: avrebbe dovuto comprendere la loro incompatibilità.
Il diluvio ininterrotto su Minkar era l’estremo tentativo di fermare la guerra, di convincerlo a desistere, di irritarlo. Ma il gioco, che non sarebbe durato all’infinito, non aveva funzionato. Aveva appreso con orrore dell’eclissi e dei prasma. Se fosse riuscita a donare l’acqua ai Khai, tutto sarebbe cambiato. Ma qualcosa respingeva i suoi poteri, forse un sigillo dovuto alla ribellione di Kushan. Si asciugò gli occhi, indugiando tra i ricordi.
«È stato il tuo sorriso a farmi innamorare.»
Azalee sobbalzò alla voce, troppo concreta per essere una reminiscenza.
Belker indugiò sotto le fronde piangenti, la mano posata sul tronco secolare.
«Ora non hai che lacrime. Ne percepisco l’essenza nella pioggia.»
«Sei venuto per commiserarmi?»
«Per ringraziarti. Il nubifragio mieterà altre vite. Moriranno nel fango, per me non fa differenza.»
«Dunque non dovrebbe importarti se piango o rido.»
Il dio guerriero avanzò alla luce: gli ornamenti metallici dell’abito nero risplendettero al sole, i capelli rossi si incendiarono di bagliori flammei.
«Ne abbiamo già parlato, Azalee. Mi hai rifiutato, lo capisco.»
«No, Bel. Ti ho chiesto di non provocare la guerra.»
«Io sono la guerra. Aborrirla equivale a respingermi e tu la detesti dal profondo. Non ho bisogno di sapere altro.»
«Quando ci siamo incontrati era la pace a regnare, eravamo tu ed io, fra noi nessun clamore marziale, nessun conflitto, nessun odio tra i mortali. Ci siamo amati con intensità ma non ti è stato sufficiente. Ti ho desiderato per come eri.»
«Allora guardami!»
Belker spalancò le braccia, facendo risuonare le frecce nella faretra. I segni arcani sulle braccia simboleggiavano la supremazia in ogni conflitto, bracciali e decorazioni di cuoio rosso erano la sua divisa, l’arco di traverso un monito. Spostò i giri di collane e aprì la casacca sul petto nudo, dove spiccava l’emblema della fenice.
«Guardami!» ripeté con rabbia «Cosa vedi!?»
Fu investita dall’onda della sua collera, un’aura carica di ferocia, fierezza che odiava piegarsi, soccombere e dormire.
«L’uomo che amo.»
Il dio della Battaglia sgranò gli occhi e per un infinitesimo i fregi sulla pelle schiarirono, le piume sul torace divennero quasi trasparenti. Scosse la testa disilluso. Le braccia scesero lungo i fianchi.
«Volere me e biasimare la guerra è un ossimoro. Abbiamo smesso di fare l’amore tempo fa, Azalee. Non sono necessarie nuove parole.»
«È per il sangue. Il suo odore impregna la tua essenza divina, occulta ogni tua virtù, tutto ciò che è bello sparisce nell’esalazione di un dolore prescritto. Non posso stare tra le tue braccia a prezzo dell’infelicità altrui. Rinuncia, Bel! Non ho mai smesso di amarti, torna da me!»
«E come, in ginocchio? Affranto per quella che è la mia natura? O debole, privo di poteri, strisciando ai piedi di tuo fratello per invocare la sua misericordia? Spezzare il mio Arco, seppellire i miei strali, non possedere nulla!?»
«Avresti me.»
Belker serrò i pugni. Resistette alla tentazione di strapparsi di dosso ogni singolo centimetro di stoffa, di portarla con sé, di farla finita con l’eclissi, i Khai e i sacrifici umani. Ma la ragione per cui aveva intrapreso il cammino lo richiamò all’ordine. Non si sarebbe arreso per sprofondare nella vergogna, facendola ricadere su di lei.
«Non mi ripeterò. Abbiamo criteri di giudizio opposti.»
«Rinuncio a te!» gridò Azalee «Se giurassi, sospenderesti i tuoi propositi? Lasceresti in pace i mortali?»
Una folata di vento scombinò le foglie e fece inchinare i fiori. Il dio della Battaglia la fissò interdetto. Non era vero che non lo comprendeva. Era vicino, pochi mesi, un nonnulla per un Superiore e poi…
Un’energia immane si concentrò nel giardino. Belker sparì in un viluppo di fuoco.
Elkira ed Eenilal si materializzarono tra le siepi.
«È fuggito!» constatò irritato il primo.
«Avresti dovuto trattenerlo, sorella» ammonì il secondo.
«Non potete infliggerle l’angoscia di consegnare colui che ama al mio verdetto» tranciò Kalemi, sfiorando con gentilezza il viso sfiorito di Azalee «Non voglio che sia costretta a parteggiare.»
Le dita delicate della dea si posarono sul suo avambraccio.
«Desidero che tu lo prenda, Kalemi. Fallo per me. Fallo per lui.»
Il principe del pantheon la guardò negli occhi e annuì. Sguainò la spada a doppia lama e la levò al cielo. La roteò in senso antiorario: negli occhi verdi si specchiarono nuvole invisibili, che presero a correre all’indietro, finché lo sguardo non assunse l’aspetto del caos primordiale. Il Tempo sgroppò rispondendo all’ordine, arretrò in infinitesimi, secondi, minuti. Ogni atto si replicò dal momento scelto a quello che era stato il presente. La linea fu ricostruita alla perfezione, Kalemi abbandonò la presa sul flusso eterno e abbassò l’arma, asciugandosi la fronte madida per lo sforzo.
«Belker non è stato richiamato! Assurdo!» borbottò Elkira.
«Significa scartare gli universi mortali» ragionò Eenilal «Si rifugia in un luogo dove non esistono né tempo né luce né buio.»
«Stai descrivendo l’aldilà. Il Custode ne sarebbe a conoscenza, non tollererebbe la sua presenza.»
«Già, però non è escluso che fornisca una soluzione che non stiamo considerando.»
«Andate. La saggezza di Reshkigal è proverbiale» approvò il re degli Immortali.
 

 
Lo schieramento di guardie a protezione degli appartamenti dell’Ojikumaar era più folto di quello riservato al fratello.
Come se ne avesse bisogno.
Yozora immaginò che Rhenn non avesse problemi a ingaggiare un combattimento, sebbene non ricoprisse un ruolo militare. Gli schemi di assegnazione delle cariche non le erano chiari: Kaniša era stato un condottiero feroce e dispotico, il primogenito invece non ricopriva il grado di Kharnot, che era stato trasmesso a Mahati.
Il sovrano aveva un fratello minore, che era stato reikan ma non stratega supremo. Secondo tale logica, il principe della corona avrebbe dovuto ereditare ogni potere.
L’altra questione stimolante riguardava la regina: dalla corrispondenza aveva tratto la certezza che si chiamasse Hamari. Perché il Šarkumaar portava un pendente con un altro nome, se la poligamia e il concubinaggio erano proibiti? Kaniša non aveva contratto due matrimoni, i libri dedicati alle sue imprese parlavano di una sola, fastosa cerimonia e risultavano avari di notizie non inerenti alla sua gloria marziale.
Non desiderava apparire indiscreta, ma la curiosità si era accresciuta.
Si vede che non ho altre preoccupazioni.
Lo pensò sentendosi in difetto: a Seera non erano altrettanto spensierati.
Aveva scritto a Hyrma, ma i Khai avevano altre priorità e la sua lettera sarebbe stata considerata un accessorio.
La porta si aprì e Yozora fu ammessa alle stanze di Rasalaje. Mirai rimase sull’attenti in fondo alla camera.
La principessa della corona la accolse con un sorriso, bellissima e regale nella veste color pesca.
«Rimarremo al coperto, fuori il caldo è scoraggiante. Accomodatevi, kalhar
Yozora ringraziò, intimidita dall’ambiente e dalla pletora di dorei pronte a realizzare ogni desiderio della futura sovrana. Si guardò intorno, paragonando le splendide stanze di Mahati a quelle più sfarzose dell’erede al trono, nelle quali predominavano il bianco e l’oro. Sedette tra i cuscini, ammirando il tavolino apparecchiato con stoviglie preziose e piatti prelibati. Il profumo fruttato dell’akacha esalava dalle coppe.
Rasalaje prese posto davanti a lei. Aveva atteso con impazienza l’incontro, spinta da molteplici ragioni, alcune delle quali non erano né un vanto né un’ostentazione di impassibilità khai.
«Ho sentito che avete superato la prima asheat. Siete a vostro agio con Mahati? Suppongo sia diverso dai giovani salki.»
«Lo è in positivo» ammise timida Yozora «La prova ha messo in luce i punti comuni. Ne sono lieta, ma non posso dire di conoscerlo. Spero mi aiutiate voi.»
Rasalaje valutò che, nonostante la parentela, il cognato risultava quasi un estraneo: il carattere introverso e le protratte assenze non avevano creato confidenza. Rhenn non lo invitava mai nei loro appartamenti, forse le occasioni di ritrovo sarebbero aumentate dopo le nozze con la giovane straniera.
Il secondo aspetto che la sorprese fu la felicità espressa da Yozora per aver trovato con lui un’intesa: non aveva pensato alle asheat in termini costruttivi e la sua esperienza non era stata fruttuosa. Quanto al rapporto con l’Ojikumaar, ne ammise la scarsa profondità malgrado gli anni trascorsi insieme.
Un confronto sconfortante a ben vedere.
«Sono lieta che Mahati abbia avuto più successo di suo fratello» rispose amara.
Yozora avvampò. Era logico che Rasalaje sapesse della mezzaluna e fosse irritata.
«Sono mortificata! Non ho parole per scusarmi!»
L’altra comprese l’equivoco e sollevò la mano, conciliante.
«Parlo di me, non dell’imbarazzante esibizione di Rhenn. La nostra prima prova non è stata eclatante e non ha contribuito al nostro avvicinamento. Forse eravamo troppo giovani per comprenderne lo scopo.»
«Oh, siete stati promessi da bambini?»
«Io avevo una settantina d’anni, lui un centinaio.»
«Perdonatemi, non ho compreso come raffrontare l’età biologica dei Khai a quella della mia gente. A quanto corrispondono?»
«Non sapete quanto è vecchio il vostro fidanzato!?» sorrise Rasalaje.
Yozora si coprì la bocca con la mano e fece altrettanto. Non c’era scherno in quelle parole. Si sentì sollevata e la tensione sfumò.
La principessa della corona si fece portare carta e inchiostro e le mostrò il calcolo corretto, avvalorando la sensazione di disponibilità al dialogo.
«I duecentocinquant’anni di Rhenn corrispondono ai venticinque salki, mentre i duecento di Mahati sono circa ventidue. Considerate però che i secoli restano secoli in fatto di vita, maturità e assennatezza. La differenza tra i coetanei dei nostri popoli a livello d’esperienza personale è imparagonabile.»
«Eravate ragazzini secondo i vostri canoni.»
«Fisicamente mio marito aveva “quindici” anni e io “dodici” quando è stato combinato il matrimonio. Ci siamo sposati pochi decenni dopo. Rhenn si adira quando qualcuno intavola l’argomento giovane età.»
«Mi è difficile pensarlo adolescente e inesperto.»
«Cancellate l’idea, non è mai stato così. Mi duole ammettere che quando ci siamo incontrati mi sono sentita in soggezione. Appartengo a un clan di rango, ho ricevuto un’educazione adeguata e mi hanno istruita sul ruolo che avrei assunto. Però non mi hanno preparata a Rhenn.»
«Vi ha trattata con scortesia?» si incuriosì Yozora.
Non era difficile figurarsi in erba l’atteggiamento sarcastico, arrogante e gelido che il principe conservava da adulto. Allo stesso tempo le sovvennero altri lati del suo carattere, ai quali era arduo attribuire un epiteto.
Gentile. Protettivo. Malgrado la tempra prevaricante e irriguardosa.
«È stato irreprensibile, ma non ha mostrato partecipazione e se n’è andato appena ha potuto. Non sono riuscita a destare in lui alcun interesse. I Khai sono asettici, Rhenn è oltre. Ero desiderosa di interagire, lui ha solo obbedito al re. Un brutto colpo, considerato il tempo speso per imparare a compiacerlo. È stato scoprirsi acqua destinata all’olio. Sentirsi un fallimento, una vergogna per la mia famiglia.»
Yozora ascoltò la confidenza domandandosi se fosse abitudine dei demoni parlare con sincerità a un’estranea o se Rasalaje le avesse concesso un privilegio.
«Non dite così, altezza! Con Mahati è andata decisamente peggio, il pensiero meno disfattista è stato che mi rispedisse a Seera in un sacco. Acqua e olio al massimo grado!»
Rasalaje rise all’impacciato resoconto e provò un moto di simpatia per la cognata.
«Come biasimarlo» seguitò Yozora alludendo alla propria inadeguatezza «Ardisco pensare che il rapporto stia migliorando, ma il mio giudizio non è collaudato poiché il Kharnot è il primo per me. È stato così anche per voi?»
La futura regina incamerò la richiesta senza apparente turbamento. La relazione con il marito, priva di legami oltre a quelli del dovere, tornò a pesarle. Si accoppiavano come richiesto e basta. L’unica crescita era stata quella dell’insofferenza di lui.
Per me invece…
«Diciamo che, superato l’impatto, ho riguadagnato un pizzico di fiducia. Avrei dovuto ragionare come voi, pensarmi inesperta e non incapace, tuttavia non è il metro dei Khai. Ero convinta che la teoria fosse sufficiente, constatare il contrario mi ha scossa. Rhenn è stato l’unico, inoltre i pettegolezzi successivi al fidanzamento non mi hanno agevolata.»
«Perché?» si irritò Yozora «Siete perfetta! E l’Ojikumaar, per quanto intrattabile, è inappuntabile in riferimento ai vostri precetti.»
La principessa esaminò il termine “intrattabile” calzato sul marito e si disse che la straniera possedeva una notevole abilità interpretativa.
«Siete vissuta a corte, kalhar, Mardan non fa eccezione. Io ho ignorato le malignità, mentre Rhenn è andato su tutte le furie. Ha rischiato lo scandalo, sua maestà Kaniša in persona è intervenuto a soffocarlo.»
«È umano, anch’io avrei perso la pazienza.»
«Umano? Siamo Khai, l’onore guida le nostre azioni. Rhenn ha lasciato che la collera prevalesse, un fallo inammissibile agli occhi dei più.»
Yozora arricchì di dettagli il rigore del ruolo dell’Ojikumaar, calcandolo di oneri. Aveva obbedito al padre, effettuato rinunce - come quella al combattimento - e gli era stato chiesto di ricusare la fierezza che lo contraddistingueva. Per come lo conosceva, un passo inaccettabile. La stima nei suoi riguardi increbbe.
Rasalaje riprese la parola, riportando i fatti appresi dal diretto interessato.
 
«Siete soddisfatto del fidanzamento, principe Rhenn?»
La figlia maggiore del generale Ouran lo aveva interpellato sarcastica, stretta nel sensuale abito blu, le mani puntellate ai fianchi: forte della propria bellezza e del sangue ereditato dal clan più influente dopo quello reale. Anche la sorella minore, meno sfrontata ma altrettanto inquisitoria, gli aveva lanciato un’occhiata beffarda. Entrambe più grandi di qualche decennio, presuntuose e indelicate.
«Eftikye» aveva risposto lui.
«Come siete formale! Certo vostro padre deve ritenervi immaturo e poco atto al comando, se ha scelto di darvi nostra cugina!»
«Rasalaje è una mocciosa insignificante!» aveva fatto eco la seconda, sporgendosi provocatoria «Io mi opporrei a un tale insulto!»
«A meno che» aveva congetturato la prima, portando alla guancia il dito affusolato «Non sia necessaria una bambolina insipida, che non si lagna del proprio uomo.»
«In caso contrario vi avrebbero dato una di noi.»
«Siete già promesse» aveva ribattuto il principe con un’alzata di spalle «Per me non farebbe differenza.»
«Davvero? Come siete ingenuo, gli accordi si possono cambiare! Le femmine khai sono passionali, pretendono determinate attenzioni, se capite cosa intendo.»
Rhenn aveva colto la malizia dell’affermazione e si era impedito di esplodere, ma la collera latente non aveva scoraggiato la petulante rampolla.
«Coniugandovi con Rasalaje, vi comprometterete. Che vergogna! Tutti dubiteranno della vostra mascolinità. »
«Oppure sua maestà Kaniša dissimula la vostra scarsa virilità con un matrimonio poco… uhm, impegnativo!»
L’Ojikumaar aveva frenato l’impeto di squarciarle la gola con un colpo d’artigli. Aveva raffreddato il sangue, squadrando entrambe con disprezzo. Poi aveva afferrato la più vicina e l’aveva trascinata in uno dei salotti adiacenti, seguito dallo strillare dell’altra.
«Chiudete la bocca e osservate con attenzione» aveva ringhiato feroce «Ho bisogno di testimoni attendibili.»
Aveva gettato la ragazza sul tappeto e le aveva stracciato i vestiti, ignorando il suo vano opporsi, che tuttavia si era trasformato in focosa partecipazione quando Rhenn aveva iniziato a fare sul serio. L’aveva presa senza esitazioni difronte alla sorella, con una sicurezza insospettabile a fronte della prima volta.
«E non dimenticate di confermare quanto sono equo!» aveva aggiunto, agguantando la seconda e riservandole lo stesso trattamento.
La guardia reale li aveva trovati addormentati tra i cuscini, nudi e sfiniti.
Il padre delle ragazze era andato su tutte le furie e aveva chiesto soddisfazione. Per via delle promesse già ufficializzate, l’episodio non era scusabile come un gioco licenzioso. Era un oltraggio.
Rhenn le aveva scostate con gelida indifferenza e si era diretto semisvestito alla sala del trono, preparandosi ad affrontare il re.
Kaniša aveva ascoltato lo sdegnato resoconto di Ouran, poi aveva intimato al primogenito di fornire la sua versione.
«Mi avete insegnato ad accettare le sfide, padre.»
Non aveva citato l’esigenza di difendere la propria reputazione e il nome della casa reale, non aveva fornito dettagli assolutori, non aveva incolpato le altre.
Il sovrano dei Khai era virato tra l’irritazione per l’impudenza del figlio e la fierezza di averlo generato privo di paura, rinunciando a somministrargli un castigo esemplare.
Ma Ouran non aveva digerito l’accusa implicita: aveva minacciato di privare il trono del consistente apporto dei suoi guerrieri, se il re non avesse adottato provvedimenti. Avrebbe trascinato l’erede in uno scandalo che i Khai non avrebbero perdonato.
Rhenn sapeva che Kaniša non lo avrebbe consentito: l’unità del regno era tutto. Perciò non si era stupito e non aveva reagito quando si era fatto portare la frusta e l’aveva colpito senza trattenersi. Non aveva emesso un lamento, si era sorretto a una colonna ed era rimasto in piedi. Lo stesso Ouran aveva fermato la mano del sovrano dopo dieci brutali scudisciate.
«Ora premuratevi di indagare su quanto il principe della corona ha avuto il buongusto di omettere» aveva sibilato Kaniša, gettando l’arma sul pavimento insanguinato.
 
Yozora mascherò il turbamento. Sin da ragazzino Rhenn aveva cercato di affermare se stesso confrontandosi con un mondo spietato in cui era tenuto a risultare il più forte, il più temibile, il più feroce. A non sbagliare mai. Molti dei suoi atteggiamenti trovarono ragione, se non giustificazione. Si chiese se per Mahati, in quanto Šarkumaar, fosse stato più arduo conquistare il rispetto dei Khai. Cosa provasse nell’essere secondo in ogni aspetto dell’esistenza. Forse Kaniša aveva separato le strade dei figli per evitare che si intralciassero.
Lo sguardo cadde su un quadro che prima non aveva notato.
«Vi piace?» domandò Rasalaje «Rhenn lo detesta, gli ho promesso che lo sostituirò con un nostro ritratto appena saremo in tre.»
La principessa salki contemplò il dipinto raffigurante la famiglia reale. Riconobbe nell’uomo attraente e marziale un giovane Kaniša: gli occhi erano gelidi e impersonali come se posare fosse un fastidioso onere, giunto a sottrarre tempo prezioso alla guerra. Alla sua destra una donna bellissima in abito pervinca accennava un sorriso: carnagione chiara, portamento nobile, lucidi capelli di rame e occhi d’ametista identici a quelli di Rhenn, che identificò nel ragazzino che le posava accanto.
«La regina Hamari» mormorò Rasalaje.
Yozora frenò l’impulso di tempestarla di domande e ne scelse una innocua.
«Perché Mahati non è presente?»
Rasalaje si irrigidì.
«Non era ancora nato.»
«Oh. Dovrò imparare ad attribuire correttamente le età prima o poi.»
La Khai abbassò le palpebre imbarazzata e Yozora comprese che era stata una risposta di convenienza. Esisteva un’ombra sul clan reale, messa a tacere come tutti gli episodi sconvenienti che lo riguardavano.




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