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Sfavorevoli
coincidenze
I.
Non aveva
previsto una passeggiata al commissariato, quel giorno. Parola
d'onore.
Picchiò la punta
della bokken contro l'intonaco del muro di una casa, incitando la
vecchia che lo precedeva a proseguire. Anche a debita distanza, il
suo fetore rischiava di soffocarlo: era fango misto a sudore e strane
spezie, impiastricciati nella crocchia di capelli grigi, nei cenci
che indossava, nel fagotto lercio che si trascinava dietro. Ecco il
quadro dell'ultima, indesiderata fatica di Kenji Himura.
Sì, c'erano
stati tempi migliori.
Giunta ai gradini
grigi della stazione di polizia, la vecchia si volse con fare
mellifluo, sfregando le mani nodose l'una contro l'altra. Kenji
corrugò la fronte, indicandole l'ingresso con uno scatto
della
testa.
Dentro l'edificio
trovarono manovali, una guardia e in fondo al corridoio un comune
poliziotto che tentava di non provocare l'ira di Saito (tentativo
inutile). Nell'incontrare gli occhi del Lupo, Kenji
aggricciò il
naso.
«Bene bene,
guarda cos'abbiamo qui» disse Saito, laconico, dopo un tiro
di
sigaretta.
La megera
s'irrigidì.
«Quella non è
la strega di cui parlavano i giornali?» esclamò il
poliziotto
comune.
«Rubava dalle
case» interloquì un altro. «E seguiva i bambini...»
Saito alzò le
braccia, placando gli animi. «Silenzio. Tu, portala
dentro.»
La guardia
sopraggiunta squadrò la donna, poi le indirizzò
un cenno brusco;
lei si mosse strisciando i piedi. Kenji la guardò
allontanarsi con
non poco sollievo.
«Dove l'hai
trovata?» disse Saito.
«Al tempietto.»
«Si nascondeva
là?»
Kenji scosse la
testa. «No, ci vado spesso. Me ne sarei accorto.»
Saito non
commentò. Si limitò ad aspirare un'altra boccata
di fumo e a
soffiargliela in faccia. Kenji si impose di non tossire.
«Se non hai
altre domande io me ne vado» sbottò.
Da quando aveva
iniziato a "contribuire alla sicurezza del quartiere" e
quindi ad aver incontri frequenti con Saito, capiva bene
perché suo
padre fosse facilmente irritato dall'individuo. Girò sui
tacchi
senza aspettare un congedo.
In quel preciso
istante scoppiò il caos. Si volse giusto in tempo per vedere
la
guardia carceraria di prima cadere sotto proiettili piumati.
Che cos–
Pur muovendosi
d'istinto, non riuscì a liberare la bokken dalla cintura
– cozzò
col gomito contro il bordo di una sedia.
Un dardo lo colpì
al collo.
«Ahi!»
C'erano odore di
incenso e fogli volanti dappertutto. Saito ruggiva ordini.
Kenji fissò la
vecchia ad occhi sgranati: salmodiava a mezza voce e lo
additò,
ghignante.
«Pagherai nel
Viaggio!»
Un poliziotto le
si gettò contro e lei soffiò in una cerbottana
lunga e sottile,
costringendolo a gettarsi di lato. Approfittando della distrazione,
Saito la mise fuori gioco con uno schiaffo.
Il mondo
s'inclinò, facendo schiantare Kenji sulla scrivania
dell'usciere.
II.
Sfondò
l'intelaiatura con un gran fragore, rotolando fra chiodi e schegge.
Quando un bordo sporgente fermò la sua caduta rimase sul
pavimento a
occhi chiusi, intontito; il nuvolone di polvere che aveva sollevato
quasi lo soffocò. Tossì per minuti interminabili,
poi lasciò
ricadere le braccia sul pavimento.
C'era puzza di
muffa.
«Ugh... che
botta.»
Cosa diavolo gli
aveva fatto la vecchia? Cosa c'era sulla freccetta?
Perché era
dovuto capitare a lui, che qual giorno aveva solo voluto recuperare
la sciarpa lasciata al boschetto?
E soprattutto,
perché nessuno lo aiutava ad alzarsi?
Dolorante,
sollevò una palpebra. Al posto della scrivania, dell'atrio
soleggiato della stazione di polizia e della faccia agra di Saito,
vide una finestra. Il cielo nuvoloso sopra la tettoia che la
proteggeva era immenso. Si raddrizzò di scatto.
«Ow.»
La finestra era
sfondata; e lui era ricoperto dei suoi frammenti. Aveva rotto quella.
Aveva sfondato
una finestra invece di una scrivania, finendo fuori, su un tetto. Il
tetto in questione apparteneva a una casa abbandonata e lui era quasi
a filo grondaia, seduto sopra tegole malferme, appena fuori da una
stanzuccia spoglia. Un po' diverso dal commissariato, come posto.
Decisamente più ripido.
L'eco della
caduta lo abbandonò, lasciandolo nel silenzio della sera.
Kenji si
tastò la fronte e si guardò intorno, confuso.
Quello doveva essere
un sogno, il sogno più panoramico che avesse mai fatto.
Sicuramente
aveva un bel bernoccolo, nel mondo della veglia. Magari era
già
stato portato a casa e smaltiva chissà quale impacco o
infuso di zia
Megumi.
Con precauzionale
– pur se dubbiosa – attenzione al precipizio, si
tirò verso il
davanzale, entrò nella stanzetta e si appoggiò
alla parete di
legno. Dopodiché incrociò le braccia e chiuse gli
occhi, sperando
che addormentarsi nel sogno lo facesse svegliare.
III.
Vaghe impressioni
di vento. Ombre di stormi.
Nel buio, caldo e
silenzioso, una scia color miele. La sensazione solida del legno, un
formicolio...
Il sole sul viso.
Quel tocco
pungente lo svegliò, inesorabile. Si fece schermo con una
manica;
tanta luce poteva significare solo due cose: o si trovava ancora al
commissariato nell'ora prima del tramonto, oppure era a casa, di
mattina, e Inoi aveva di nuovo aperto lo shoji che dalla sua camera
dava sul giardino. Sperava per lei di no.
Pian piano
riacquistò sapienza corporea e corrugò la fronte:
era accasciato
contro una parete.
Ma che...
Era mattino, va
bene. E lui si trovava ancora sul tetto del sogno. Quel
maledettissimo tetto.
Nel percepire il
bruciore di un graffio, fin troppo nitido, sospirò. Doveva
essere
uno di quei sogni pesanti, uno di quelli che non riuscivi ad
abbandonare finché non erano diventati stupidi incubi.
Le camere della
casa erano silenziose, intessute di polvere e tristezza; sembrava non
ci entrasse anima viva da molto tempo. Su ogni piano mobili mangiati
dai tarli giacevano fra stoviglie, rotoli di pitture sbiadite
–
fragili come ali di farfalla – e l'occasionale cumulo
d'intonaco,
polverizzato dall'umidità insieme alle cortine di
bambù che avevano
oscurato le finestre. Gli intrecci sfatti del tatami frusciavano
sotto i suoi sandali.
Una scala
scricchiolante dopo l'altra, raggiunse il pian terreno. Lì i
segni
dell'abbandono erano più marcati e intrusioni clandestine
avevano
lasciato ogni sorta di rifiuto: bottiglie, carta, hakama stracciati,
le piastrelle di un focolare improvvisato... in un angolo, persino il
fodero di una spada. Chissà quanti volti s'erano avvicendati
nel
recare degrado.
Chissà
cos'avrebbero pensato coloro che avevano costruito e amato quella
casa, se avessero potuto vederla ora.
Avvolto da una
calma onirica, Kenji uscì nel giardino, ormai restituito
alle
erbacce e agli animali. Il sole fu coperto dalle nuvole.
Dal tetto aveva
potuto scorgere poco della strada; adesso, uscito dal muro di cinta,
capiva di trovarsi in un vecchio quartiere nobile, così
cadente da
essere deserto. Possedeva tratti familiari, ma era sicuro di non
averlo mai sognato prima. Peccato. A volte, nei sogni ricorrenti,
riusciva a guidare gli eventi nella direzione che preferiva. Era
divertente.
Con un ultimo
sguardo alla villa, imboccò la via diretto verso nord.
Sassi,
muriccioli, bambini che giocavano. Nel quartiere popolare vicino i
cortili avevano fili di panni stessi e donne a chiacchierare sugli
usci. C'era qualcosa, nell'aria... erano gli abiti e certi negozi e
il modo in cui il suo corpo riceveva ogni impressione. Era il
pizzicore dei graffi. L'abbaio assordante di un cane.
Rallentò,
incerto. Forse doveva prendere l'iniziativa, entrare in una casa ed
esplorarla senza sapere a chi appartenesse. Di solito funzionava.
Ma in quel sogno
le cose non erano facili come negli altri. Qui ogni passo era lento,
misurato, e non bastava pensare a un altro luogo per trovarcisi. In
realtà aveva oltrepassato pochi bivi. Sarebbe stato in grado
di
percorrere la strada a ritroso senza problemi.
Il sole andava e
veniva. Due asini di passaggio a un incrocio, carichi di legna,
alzarono nuvole di polvere che lo fecero tossire.
L'acqua della
fontanella in fondo alla strada era fresca come l'ombra di un
pergolato.
Il bambino che
gli finì addosso sbucando da un viottolo finì per
gettarlo a terra.
E Kenji, mentre lui si scusava, s'accorse di non averne avuto la
premonizione come doveva succedere nei sogni. Era successo e basta.
Non era un
sogno. Non poteva esserlo.
Ormai era
difficile fingere di non essere sveglio, perché la
realtà fisica
della piazza rifiutava qualsiasi illusione. Troppa gente, troppo
rumore. Kenji si passò una mano sugli occhi, stanco, ma ora
decisamente all'erta.
Riconosceva la
città. Oh, c'era stato tante volte... e il problema non era
neanche
il modo in cui ci era arrivato.
Fissò il
giornale, in pratica un foglio, piegato su un banchetto. La
proprietaria discuteva con foga degli avvenimenti.
Avvenimenti del
1865.
Che stava
succedendo? Che scherzo era?
1865.
E' un
complotto. Dev'esserci di mezzo Saito...
Con la massima
calma, ordinandosi di non pensare troppo a quel che vedeva,
girò su
se stesso e si mosse nella direzione in cui sapeva che avrebbe
trovato l'Aoiya.