Una piccola commedia

di Cladzky
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CANTO I - L'autore varca la soglia estrema e se ne pente. 


Noi si leggeva, ma a pagina rada,

D'Aeneas ramingo a Carthago corte

Ch'or giace come a Cato s'aggrada;


Ma del proseguir, la lena, non scorte

Sovente, pandiculo, m'attarda ogne fiata,

Sicché, vo ignorando la Dardana sorte.


Greve, la testa, va a Pisa imitata,

Ma è frutto di Rodi e crolla sul legno

Sul quale, a ogne verso, era invitata.


A niun del Parnaso devo alcun pegno:

Nè a musa o Febo chiedo il narrarmi

Quel che mostrossi Morfeo mi fe' degno:


Immersi nel loco, cui temo ambientarmi

Quando lo core verrammi a fallire,

E odì, ne la nebbia, un fracasso d'armi.


Scivol ne l'etere sanz'io possa agire

E parvermi etterno sia il precipizio

Che duro inculo e bestemmio le mie ire.


M'ecco, alzato dal suol del supplizio,

Nulla io miro che nembo e diserto

Di cenere umana, sanza fin o inizio.


Solo il principio del penar m'avverto

Chel'armi ch'intesi si feron distinte.

Da la foschia sorse un principe, ben erto.


Lo cimiero biondo ha, come le tinte

Ferale è lo sguardo, più del suo manto,

Di Vulcano li bronzi son fresco estinte.


E avante porta uno scudo suo vanto:

Di Romolo e Augusto sbalzata ha l'historia.

Mai Venere chiese Mongibel sì tanto.


"Cosa maldici, novello Capaneo?"

Non tarda, chiede e preme lo brando

"Se numi non temi, temi me, o rèo!"


Assalito, in un mar di nebbia errando,

Alzando li bracci sbigottiti, sorpreso,

Vituperai contro lo padre "pio" nefando.


Quivi s'arresta e il viso gli è leso:

"Or pure, Mezentio, l'epiteto mi storci?"

Tardi cognobbi chi mi ha malinteso.


"Non i tuoi dèi, ma ben altri porci

Io vo sfregiando per Pelide ira.

Miserere mei, malae tenebrae Orci!"


Ma egli non cheta e la spata mi vira,

Giacché dell'Achille gli desto memoria,

E for l'alma mia de labbra mi spira


Che quello, dell'armi, vol darmi la gloria.

Bugiardino avessi de letteratura

Saprei ch'è cicuta addobbata a cicoria


Per menti rubate a l'agricultura.







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