Α-Ω

di ChiiCat92
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25/10/2021


Stava arrivando. Lo sentiva nell’aria come una vibrazione sorda, e dentro di sé come fuoco nelle vene che andava e veniva come l’alta marea.

Respirava a malapena, aveva l’impressione che l’aria entrasse e uscisse da una fessura grande come uno spillo, il cuore batteva tanto forte da sembrare una grancassa.

Se ne stava rannicchiato in un angolo della stanza, cuscini e velluto, petali di rose e tende spesse, niente di tutto quello sembrava confortarlo.

La sua era una gabbia dorata, la più bella di tutte le prigioni, ma pur sempre una prigione.

Il suo corpo aveva smesso di appartenergli quando gli avevano detto che era un Omega. Tutto sommato era stato un sollievo, gli avevano tolto il peso di decidere cosa fare della sua vita.

Doveva solo sedersi e aspettare che facessero di lui qualcosa. Uno schiavo, un amante, uno sposo, che importava. La sua esistenza acquistava valore solo grazie all’Alfa che l’aveva comprato all’asta.

Non era altro che merce di scambio.

E andava bene, andava tutto bene. Eppure tremava, se avesse avuto la forza sarebbe andato alla finestra per tentare di scappare da quella disgustosa dimora così esageratamente lussuosa. Ma non poteva, non ci riusciva, perché l’odore del suo Alfa permeava ogni cosa, compreso lui stesso.

Odiava come il suo corpo si faceva morbido e tenero, come carne battuta che cuoce sulla griglia, pronta ad essere divorata.

Questo sarebbe successo: l’Alfa l’avrebbe mangiato, consumato, avrebbe succhiato l’anima dalle sue ossa. Di lui non sarebbe rimasto neanche il ricordo.

Sarebbe stato solo uno tra i tanti Omega passati per quel talamo, usati fino a rompersi, giocattoli per un bambino capriccioso.

Non aveva ancora visto l’Alfa se non nelle foto e nei ritratti pacchiani che adornavano le pareti. Odiava quel suo sguardo di ghiaccio.

Se il mondo fosse stato giusto, sarebbe potuto essere lui l’Omega seduto su quel letto ad aspettare la fine.

Invece uno stupido gioco di geni e fortuna l’avevano messo in cima alla catena di comando.

Strinse le gambe al petto cercando di contenere il tremore del proprio corpo. 

Sapeva cosa sarebbe successo adesso, l’aveva preparato tristemente il mondo che lo circondava. E poi, più di ogni altra cosa, se lo sentiva dentro.

Sentì i passi dell’Alfa percorrere il corridoio, marziali, e si strinse ancor di più in se stesso. Avrebbe voluto sparire, comprimersi fino al suo ultimo atomo.

La porta si aprì, l’odore dell’Alfa era come la rugiada del mattino, un fascio caldo di luce solare che filtra da una finestra semiaperta.

Non avevano ritratto il suo incedere maestoso, il luccicare degli occhi azzurri e la profondità della cicatrice che solcava lo zigomo destro e tagliava in due il labbro.

Incuteva timore e calma al tempo stesso, come un albero antico ancora vivo dopo essere stato colpito da un fulmine.

Di lui sapeva che non aveva eredi, nonostante la spaventosa ricchezza, che non si era legato a nessuno Omega, che suo fratello era un Beta di una certa fama, che gli piaceva consumare vive le sue vittime. No, quelle erano solo voci, nate dal fatto che non avesse ancora un compagno e che non sembrasse cercarlo, dato il via vai di Omega. 

L’Alfa lo guardò come si guarda una cosa preziosa, forse si soffermò sulle cicatrici che aveva al collo e ai polsi, forse lo biasimò per sembrare così piccolo e patetico. Si avvicinò al letto, gli abiti di seta frusciarono intorno al suo corpo. 

L’Omega provò l’istinto di avvicinarsi, lo stesso spaventoso istinto che hanno le falene che si avvicinano troppo alla luce. Lo inghiottì, e rimase pateticamente stretto a se stesso.

« Non voglio farti del male. » la voce era come un rombo di tuono, e sapeva che non gli avrebbe fatto quell’effetto se non fosse stato un Alfa. 

Immaginò un mondo in cui il suo corpo non fosse una cella e i suoi istinti dipendessero solo da lui, senza però riuscirci. 

« Come ti chiami? » 

« Sahma. » mormorò, controvoglia. A una domanda diretta non poteva non rispondere, per quanto lo volesse.

« Posso sedermi? » 

« No. » 

Era costretto a rispondere, ma non a dare la risposta più educata o piacevole. 

L’Alfa non batté ciglio. Aveva lunghi capelli d’argento acconciati in trecce elaborate dietro la nuca, in modo che non gli ricadessero davanti al viso. Sembravano morbidi come la seta di cui era vestito, e l’Omega avrebbe voluto toccarli e stringerli anche se si odiava per questo.

« D’accordo. Rimarrò in piedi. » e lo fece davvero, tanto che Sahma si chiese a che gioco stesse giocando. 

Non era lì per scoparlo fino a farlo piangere? Non erano fatti per questo gli Omega? 

Sahma cercò di sostenere lo sguardo dell’Alfa, senza riuscirci, i suoi occhi continuavano a scivolare intorno al suo volto come se non potesse fisicamente guardarlo per più di una manciata di secondi. 

Aveva paura, come non ne aveva mai avuta in tutta la sua vita. 

« Quanti anni hai? » 

« Ha importanza? » rispose lui, tagliente. Stava diventando più semplice parlargli, forse sarebbe persino riuscito a mentirgli o a non rispondergli proprio, sarebbe stata una vittoria. 

L’Alfa non si scompose, era difficile leggere la sua espressione, il fremito delle labbra rovinate dalla cicatrice, gli occhi inespressivi eppure come pieni di scintille. 

« No, non ce l’ha in effetti. » 

Sahma strinse i denti. Gli faceva schifo, tutti gli Alfa gli facevano schifo, si prendevano quello che volevano quando volevano solo per via del loro status quo, potevano approfittarsi di chiunque, dovunque, comunque. Se avesse mentito e gli avesse detto che aveva quattordici anni non sarebbe cambiato niente: lui era un Omega e avrebbe dovuto soddisfare i suoi desideri, per quanto luridi fossero. 

« Sono Ardàik. » si presentò l’Alfa, poggiandosi una mano sul petto, come se Sahma fosse un bambino, o peggio, un cane reso ottuso dalla paura e incapace di capire anche le parole più basilari. 

« Lo so. » sputò in risposta, forse un po’ troppo acidamente. Gli occhi di ghiaccio sembrarono restringersi, diventando come affilati come lame. 

Sahma abbassò lo sguardo, stringendo i denti. Anche se era il suo Omega, e anche se gli Alfa dipendevano da loro per riprodursi, non voleva dire che fosse indispensabile. Gli sarebbe bastato schioccare le dita e lui sarebbe sparito nel nulla. 

Aveva già sulle labbra una parola di scuse, ma l’Alfa lo interruppe. 

« Sai perché sei qui? » 

Sahma tremò al solo pensiero. Non riuscì a rispondere se non con un lento annuire. 

« E tu vuoi che succeda? » 

« No. » di nuovo una risposta sincera, e di nuovo una risposta che lui di certo non avrebbe gradito.

Poteva andare in un modo solo adesso: Ardàik l’avrebbe preso con violenza, zittendo quella sua bocca irrispettosa nel peggior modo possibile. 

Avvertì il peso del suo corpo che faceva cedere il materasso quando l’Alfa vi si sedette. Sahma non alzò la testa né gli occhi. Né fece nulla per impedire ad Ardàik di fare quello che voleva di lui.

Che avrebbe potuto fare d’altronde? 

Gli dava alla testa, i suoi sensi si accavallavano l’uno sull’altro tanto che ad un certo punto gli parve di avere in bocca il sapore della sua voce, sulla pelle il tocco del suo odore.

Odiò ogni momento, ogni battito del suo cuore, e soprattutto odiò se stesso, per il modo in cui il suo corpo funzionava come gli aveva imposto di fare il DNA.

Accolse l’Alfa dentro di sé senza emettere un gemito, mentre lacrime calde gli solcavano il volto. Provò ad aggrapparsi alle sue spalle, a graffiarlo, a fargli capire quanto gli facesse schifo, ma tutto venne oscurato dalla sensazione di piacere che gli faceva tremare le viscere. 

Credette di stare per morire nel momento in cui divenne più intenso, orridamente più intenso e insopportabile di qualsiasi altra cosa avesse mai provato prima. Riuscì a non gridare, anche se avvertì il sangue inondargli la bocca per la forza del morso, Ardàik si avventava sul suo corpo, inebriato dal modo semplice in cui combaciava con il proprio, come fossero da sempre stati due metà della stessa moneta. 

Tutto finì troppo in fretta, o troppo lentamente, la percezione del tempo non era una priorità per la mente di Sahma. 

Ardàik non lo aiutò a rivestirsi, non lo guardò neanche. Dopo aver gioito del suo corpo si alzò e si risistemò, un buon Alfa distinto. Gli diede giusto un’occhiata mentre ancora ansimava languido, gli occhi gonfi di lacrime. 

Avrebbe potuto chiedergli se stava bene, ma Sahma non poteva mentirgli. 

Quindi gli volse le spalle, e lasciò la stanza.

Sarebbe tornato, gli Alfa tornavano sempre.

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The Corner 

So che tecnicamente questo genere di storie sono molto più spinte, ma sono in un periodo della vita in cui non riesco a scrivere porno esplicito: questo è il massimo che mi riesce. Spero comunque di aver reso godibile la lettura. Questo è anche il mio primissimo tentativo di approccio con l'Omegaverse, quindi non sapevo bene come muovermi in un territorio inesplorato.
Sicuramente questi due nuovi personaggi torneranno, mi è piaciuto crearli e ho ancora qualcosina in serbo per loro.

Chii




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