Il Circolo dell'Albero Magico

di Tracordelia
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PROLOGO


Nella piccola cittadina di Merizia l'inverno lo potevi respirare. I vivaci colori autunnali composti dal rosso e il giallo avevano lasciato il posto al grigio del freddo, i rami degli alberi che decoravano i viali erano ormai seccati e i cittadini non vedevano l'ora che arrivasse la prima nevicata dell'anno. Nelle nottate particolarmente fredde, gli abitanti di Merizia erano soliti recarsi alla Locanda Rossa, il cafè della città. Era una cittadina piccola, non contava molti locali, e la Locanda Rossa era sicuramente il migliore: aveva il camino, la televisione, il biliardo e anche una libreria interna, per quelli che avevano voglia di gustarsi una buona cioccolata leggendo un libro davanti al fuoco. Per chi invece aveva voglia di fare una passeggiata le attrazioni non mancavano di certo, le strade erano piene di venditori di castagne, dolciumi, caramelle e cioccolate. Quest'ultime erano la specialità di Pilar, una donna di cinquant'anni scappata dall'argentina 20 anni prima e arrivata a Merizia per caso, un luogo di passaggio che poi si è trasformato nella sua casa. Coi soldi che aveva guadagnato facendo la ballerina in un locale a Buenos Aires aveva poi aperto una sua cioccolateria, nella piazza, accanto al cinema. Una parte dei suoi prodotti poi li dava a Orazio, che le vendeva per strada ai turisti. A pochi metri dal parco, la pista di pattinaggio sul ghiaccio stava per aprire i suoi battenti. I negozi erano tutte imprese di artigiani e creatori, nessun grande marchio, solo tanta voglia di lavorare. Chi invece sembrava non avesse voglia di lavorare erano gli operai che si trovavano al numero 15 del Viale delle Cascate, erano lì per finire la ristrutturazione della casa corrispondente al numero civico ma il signor Chastern, che li aveva assunti, sembrava poco soddisfatto del loro lavoro e gli intimava di sbrigarsi. Agli occhi degli operai, il signor Chastern era un uomo buffo, era alto, coi riccioli rossi e il naso sporgente, indossava un paio di occhiali tondi e portava sempre abiti a scacchi di colori diversi. Parlava molto, a voce molto acuta, e con pochissimo tatto. Sembrava quasi non gli interessasse di disturbare le persone, anzi quasi gli piaceva, e questo non recava poi tanto fastidio ma anche una sorta di ilarità. Erano pochi a prendere davvero sul serio quell'uomo, molti a trovarlo pazzo e tanti a deriderlo. Nessuno sapeva esattamente chi fosse, da dove venisse. Era sbucato in città sei mesi prima, senza che nessuno lo conoscesse, aveva acquistato quella vecchia casa e assunto gli operai per ristrutturarla. Nel mentre alloggiava al Motel Luna, a pochi metri da lì. Il direttore del motel, un uomo grassoccio e con dei folti baffi neri, a chi glielo chiedeva, diceva che era un tipo strano, abbastanza pretenzioso e che a volte spariva nel nulla e lo si rivedeva solo giorni dopo e nessuno sapeva dove andava. Nessuna sapeva nemmeno perché ci tenesse così tanto che quella casa venisse ultimata prima dei giorni natalizi, come diceva sempre. L'idea era che forse volesse festeggiare lì il natale con la sua famiglia, ma lui di famiglia non ne aveva. O meglio, nessuno l'aveva mai vista. Il che era strano per una casa così grande.
- Voi sbrigatevi, io torno subito. - Sbuffò il signor Chastern, aggiustandosi gli occhiali sul naso e dando le spalle agli operai che non vedevano l'ora sparisse. Sparire, è un modo di dire, non è letterale. Significa andarsene, dileguarsi. Eppure non appena il signor Chastern ebbe girato l'angolo, per un attimo, agli operai sembrò che fosse davvero sparito nel nulla, volatilizzato.


1) REBECCA
Rebecca odiava i complimenti, e anche le attenzioni. Pure fosse stata brava in qualcosa era solita a nasconderlo. Era apparentemente fredda, distaccata, sembrava disinteressata a qualsiasi cosa, ma la sua necessità di nascondere le sue emozioni andava di pari passo con la voglia di scappare da esse, e da quelle degli altri. Tra le tante cose che nascondeva ce n'era una che la spaventava più di tutte, le spaventava l'idea di cose le avrebbero fatto se l'avessero scoperta. Quando sei orfano e vivi girando istituti su istituti, l'immagine che gli altri hanno di te è importante, questo vale sia per ipotetiche famiglie che vengono a vederti sia per i ragazzi con cui si è costretto a convivere. Si dice che lo stesso tipo di sofferenza unisca le persone, ma a volte le incattivisce e basta. Rebecca aveva imparato presto a contare solo su stessa, e le conveniva anche stare lontano dagli altri.
Le conveniva a causa di ciò che lei chiamava abilità speciale. Era come se fosse in grado di controllare le emozioni delle altre persone, di sentirle e anche di condizionarle. Trasmetteva le sue emozioni agli altri, e allo stesso tempo le assorbiva da loro. Sentiva il dolore, la rabbia, la frustrazione di chiunque le fosse intorno. Anche i sentimenti positivi, certo, ma nei posti che frequentava lei ce n'erano di molto pochi. Una volta, intorno ai dieci anni, lesse su un libro una parola che le piacque molto, quella parola era ''empatica'' e lei si convinse di essere l'unica persona empatica dell'istituto. Crescendo poi si accorse che l'empatia la provavano tutti, ma la sua era diversa, e nessuno ne era a conoscenza. Quella mattina stava cercando di provare a domare quella chioma di capelli ricci rovinati che aveva in testa quando l'assistente James le comunicò che la direttrice voleva vederla. Non le piaceva legarli, la sua faccia era troppo paffuta e non si piaceva coi capelli alzati, quindi provò a dare qualche altra spazzolata e poi si diresse verso l'ufficio della direttrice dell'istituto del momento, uno dei peggiori in cui fosse mai capitata.
Ciò che ancora non sapeva, però, era che ciò che stava per dirle le avrebbe per sempre cambiato la vita.

2) MIA
Mia era sempre stata, prima di ogni cosa, una bambina allegra. Non aveva mai pianto per nessuna perdita, non sentiva la mancanza di nulla, perché crescere in mezzo al nulla era ciò a cui era abitutata e lo percepiva come qualcosa di normale. Che poi non era vero che era cresciuta in mezzo al nulla, era cresciuta per strada in mezzo ad alcuni bambini come lei, quella era la loro condizione di vita e quello conosceva, e le piaceva pure. Aveva imparato tante cose, ad accontentarsi di ciò che aveva e di inventare ciò che non aveva. Aveva imparato a rubare per fame e a picchiare per necessità, ed era molto brava in entrambe le cose. Un giorno, però, le cose cambiarono.
Era una mattina molto calda quando Mia e i suoi amici puntarono le tasche di un uomo apparentemente per bene che camminava tranquillo per la città, il piano era quello di sempre: Felipe e Melissa l'avrebbero distratto, magari chiedendo l'ora o qualche informazione, mentre Mia e Jonathan si sarebbero occupati di rubargli il portafogli e qualche altro spicciolo dalle tasche. Le cose non andarono così bene come speravano, l'uomo se ne accorse e iniziò ad urlare, e sfortuna volle che proprio in quel momento stesse passando una volante della polizia dalla quale scesero due poliziotti in borghese. I bambini iniziarono a correre e nella corsa si divisero, Mia venne presa e gli altri non li vide mai più. Aveva 10 anni quando entrò per la prima volta in un istituto e fino a quel momento aveva solo vissuto per strada, questo significava che molte cose comuni ai bambini della sua età, lei, non le conosceva. Non sapeva nè leggere nè scrivere, per esempio, e per questo divenne un facile bersaglio per i bambini più dispettosi. La prendevano in giro per la sua sbadatezza, per il suo modo di parlare e soprattutto per il colore della sua pelle. Mia, tuttavia, non era una bambina facile da sottomettere, perché era molto sicura di sè, sapeva fare a pugni e, come detto, non perdeva mai la sua allegria, anche nelle situazioni più difficili. Inoltre, Mia era puro istinto e passione, che le bruciavano dentro. Non metaforicamente, Mia bruciava davvero.
Quando viveva per strada era solito che scoppiassero incendi o che esplodesse qualcosa, nessuno ci dava peso perché era qualcosa che succedeva sempre. Ma quando entrò in istituto, Mia iniziò a capire di essere in grado di fare delle cose per niente comuni rispetto agli altri bambini. Una volta, per caso, fece scoppiare tutte le bottiglie di latte presenti nel frigo. Un'altra volta incendiò le tende dell'ufficio del direttore. In tutti questi casi, e altri simili, l'elemeno dominante erano le sue emozioni. Succedeva quando era arrabbiata, oppure, al contrario, particolarmente felice, o emozionata, o ansiosa. Ogni volta che provava emozioni forti, qualcosa prendeva fuoco. E lei provava molte emozioni forti, e ne cercava di altre ancora più forti. Quando capì come funzionava il suo potere, iniziò ad allenarsi per controllarlo, e all'età di 15 anni poteva dire di essere diventata abbastanza brava. Non solo riusciva ad evitare la sua diffusione, ma riusciva anche a far esplodere cose quando voleva.
- Mia, eccoti qua. - disse il direttore, una mattina, dopo che Mia era tornata dalle lezioni. - Ho una bella notizia per te. Mia annuì, sorridente ma consapevole che quella che per lui era una bella notizia non lo sarebbe stato altrettanto per lei. O forse sì.

3) ELIO
Capita a tutti, in particolar modo quando si è giovani e ci si sente soli, di volere assomigliare a qualcuno che da lontano ci sembra più felice. Cambiare il proprio corpo, la propria testa, il proprio carattere, e adottare quelli di qualcun altro. Era quello che faceva Elio, che voleva solo sentirsi parte di un gruppo, ma il gruppo continuava a respingerlo, non importava quanto lui ci provasse. Elio era un ragazzo magrolino e basso, esuberante, pieno di entusiasmo, esageratamente loquace e logorroico. Era anche molto ansioso e gestiva male le situazioni in cui provava disagio, in quelle occasioni tendeva a parlare ancora più del solito e a cercare insistentemente l'appoggio altrui.
Tutta questa esuberanza non era ben vista dai suoi compagni di istituto, e nemmeno dagli adulti che molto spesso lo riprendevano per le eccessive risate o il rumore. Fu così che il suo entusiasmo iniziò a ridursi, fino a sparire completamente. Ma smettere di ridere, forzarsi di restare in silenzio e omologarsi al resto del gruppo non gli bastò per sentirsi parte di esso. Se prima ricopriva il ruolo del giullare, quello da deridere da lontano, poi si trasformò in un fantasma, completamente invisibile. Prima faceva rumore, poi ci fu solo silenzio. Prima era deriso, poi era ignorato. Si sentiva così, invisibile. E poi arrivò il giorno in cui la sensazione non fu soltanto una sensazione, il giorno in cui non divenne invisibile solo per i suoi compagni, ma anche per il suo stesso specchio. Da un momento all'altro, sparì. Lui si spaventò molto e scoppiò a piangere, piangere via tutta la frustrazione accumulata giorno dopo giorno, e in quel pianto si liberò. E si sentì svuotato, quasi rasserenato, e quando alzò la testa vide i suoi occhi marroni lucidi e le guance rosse lì nello specchio, insieme al resto del corpo. Quell'episodio non fu isolato, ce ne furono di altri simili nei giorni dopo, e ogni volta Elio entrava nel panico e veniva avvolto da una costante sensazione di terrore. Dopo un po', però, non solo il terrore finì, ma Elio pensò che se era destinato ad essere invisibile allora avrebbe potuto usare la situazione a suo vantaggio. Gli ci volle parecchio tempo e molto impegno per capire come attivare quel meccanismo che faceva sparire ogni parte di lui, ma alla fine riuscì a controllare questa sua anomalia e imparò a diventare visibile e invisibile ogni volta che voleva lui. Quando ci si sente soli si fa di tutto per essere accettati da qualcuno, molto spesso ci si accontenta di una minima attenzione, di poche briciole. Ma Elio si sentiva così solo che si accontentò di ancora meno, ecco il vantaggio che gli diede questo potere. Ogni volta che i suoi compagni si riunivano in gruppo per parlare, giocare, e lui non era invitato, si rendeva invisibile e si inseriva tra loro, senza che loro lo sapessero. Non era davvero uno di loro, non giocava con loro, non parlava con loro, spesso li sentiva mentre lo insultavano o deridevano, per loro non esisteva, ma in quel modo aveva la piccola illusione di essere parte di un gruppo, e di quello si accontentava.

4) CORDELIA
Cordelia aveva solo due preoccupazioni: le espressioni di matematica e il cibo. Era la prima della classe, la più brava e la più intelligente, quella amata dagli insegnanti e detestata dai suoi compagni. In realtà un po' se lo cercava, non era la persona più amichevole del mondo e provava un certo senso di soddisfazione nel prevalere sugli altri grazie alle sue capacità intellettive. Mentre gli altri ragazzi della casa-famiglia in cui viveva tendevano a passare le ore in cortile per giocare o uscire per divertersi, lei restava in stanza o in sala, seduta per terra coi libri sulle gambe, per imparare tutto ciò che poteva. Non era qualcosa di dovuto, non erano i compiti della settimana, lei semplicemente voleva sapere tutto. Tutto ciò che c'era da sapere, tutto di tutte le materie, tutti i contenuti, tutta la storia, la geoografia, la matematica, tutte le lingue, assolutamente tutto. Voleva essere e sentirsi migliore degli altri, e scelse il suo cervello come arma. Era una bambina prodigio, una bambina in grado non solo di imparare tutto ma anche di fare tutto. La piccola genietta, la chiamavano. Ciò che nessuno sapeva, però, è che la sua vera arma era un'altra: le sue mani. Cordelia aveva delle abilità molto speciali, una sorta di memoria fotografica altamente sviluppata, potrebbe sembrare assurdo ai più ma a lei bastava prendere un libro in mano, sfogliarlo e apprendere tutto il suo contenuto nel giro di pochissimi minuti. Certo, maggiori erano le informazioni e maggiore era il tempo. Ma non si limitava a farlo unicamente con i libri, lei poteva farlo anche con le persone. Le bastava toccare la testa di una persona per assorbire i suoi pensieri, i suoi ricordi, tutto il contenuto della sua testa. Quest'ultima abilità si sviluppò più tardi rispetto all'altra, ne ebbe la prova all'età di 11 anni, ma non era un potere che poteva sfruttare proprio sempre, era ancora qualcosa di abbastanza inesplorato per lei. La sua seconda preoccupazione era il cibo. Aveva avuto fin dall'infanzia un rapporto molto conflittuale con il cibo, molto spesso, da piccola, quando si arrabbiava se ne correva in camera sua e si rifiutava di mangiare, fino a quando qualcuno non andava a prenderla e la portava a tavola con gli altri. Ed era quello il senso di tutto, che qualcuno andasse a prenderla. Vivere in una casa-famiglia significa essere soltando uno dei tanti, un numeretto su un muro, una foto in più sui mobili, nessuno si interessa soltanto a te perché ce ne sono troppi di cui interessarsi. Ma Cordelia voleva che qualcuno si interessasse a lei, voleva essere vista, così quei trucchetti che usava da bambina continuò ad usarli anche da adolescente, solo che una volta cresciuta nessuno andava più a prenderla e finì per non mangiare più sul serio. E lì sì che la gente iniziò a notarla, e questa sensazione le piaceva. Le faceva malissimo, eppure le piaceva. Che grande paradosso, rischiare di diventare quasi invisibile pur di essere vista da qualcuno. Essere vista, lo stesso motivo per cui voleva sapere tutto ed essere la prima della classe. Era l'unica cosa di cui credeva di aver bisogno, a costo anche di perdere il resto.

5) CHRISTOPHER
Il giorno in cui la famiglia affidataria di Christopher lo riportò in orfanotrofio lui capì una cosa molto importante. Quando la signora Julia, in lacrime, lo riconsegnò al direttore con la motivazione che era un bambino troppo strano per stare in famiglia lui capì che la vita in famiglia era troppo strana per uno come lui. Tutte quelle attenzioni non facevano per lui, che era abituato a cavarsela da solo. E l'amore di una madre lui mica l'aveva mai chiesto, mica lo voleva. Era un bambino con un carisma speciale, tutti erano attratti da lui, dai bambini dell'istituto ai genitori che andavano in visita, dai direttori al personale della mensa. Tutti erano interessati a Christopher, ma a lui non interessavano gli altri. Non importava quanti tentativi di farlo stare in famiglia si facessero, sarebbero tutti falliti e così Christopher passava continuamente da una famiglia a un'altra, da un istituto a un altro, e in nessun posto si sentiva a casa. Non sapeva nemmeno se la voleva una casa. Era un bambino con un aspetto angelico ma il suo cuore sembrava fatto di ghiaccio, e nel tempo il ghiaccio divenne davvero il suo migliore amico. Non potrebbe ricordare con esattezza quando si accorse di riuscire a congelare gli oggetti, ma gli piaceva tanto farlo, era l'unica cosa che gli interessava, l'unico momento in cui si sentiva libero e se stesso. Ovviamente lo faceva in segreto, se già lo consideravano strano, in quel caso l'avrebbero direttamente rinchiuso in una clinica e studiato come si fa con gli animali. Non era un bambino cattivo, non faceva del male a nessuno, voleva solo stare solo col suo ghiaccio. Poi successe qualcosa, un incidente, un errore che cambiò la sua vita per sempre, e lui si chiuse sempre di più in se stesso, diventando più freddo del ghiaccio che tanto gli piaceva.




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