9. Innocenti Evasioni
Voglio morire.
Spalancai gli occhi, mentre
una goccia di sudore mi scivolò sulla tempia.
Davanti a me c’era solo
oscurità, che assunse contorni visibili alla stessa velocità con cui quelle
parole diventavano un’eco in lontananza.
Sopra la mia testa c’era la
sagoma di un quadro e poco più avanti una credenza, che ero abbastanza convinto
di non aver acquistato negli ultimi giorni.
Gli occhi si abituavano al
buio, il torpore del sonno
abbandonava il mio corpo e intanto scorgevo una televisione, con un mobiletto
pieno di DVD alla sua sinistra, una poltroncina e, dietro questa, una luce
accesa.
C’era una stanza, lì davanti a
me, ma impiegai qualche secondo a capire che la porta aveva il vetro
smerigliato ed era chiusa.
Mi resi conto subito
dopo che quella non era casa mia: ero a casa di Alan,
sul suo divano. Come ero arrivato là?
Raccolsi i frammenti dei
ricordi della sera prima e provai a fare un po’ di ordine. C’era stata la
festa, c’era stato Harvey – mi uscì un sospiro - e c’era stato anche un Alan
un po’ troppo alticcio per poter guidare fino a casa. Non ero ancora un ladro
di automobili, quindi mi ero fermato a dormire a casa sua e avevo parcheggiato
la macchina… dove?
In quel momento non era
importante.
La cosa importante era che,
davanti a me, c’era una luce accesa. Mi rigirai per uscire dal divano, ma non
pensavo che fosse tanto stretto e così – ahi! – mi ritrovai col muso a
terra. Non avevo fatto in tempo a coprirmi con le braccia, ma era
comprensibile, visto lo stato catatonico in cui mi trovavo.
Qualcuno fece scorrere la porta
smerigliata e sospirai ancora: Alan era appoggiato
allo stipite, vestito esattamente come l’avevo
lasciato, con qualche ciocca di capelli sparata in modo disordinato e una tazza
in mano.
«Che combini?»
Tasto la durezza del pavimento, avrei voluto dirgli, ma mi venne in mente un attimo dopo la mia
risposta.
«Volevo alzarmi, ma sono
caduto.»
Sbuffò divertito, poi venne
verso di me e poggiò la tazza sul tavolino contro cui non avevo battuto la testa per
miracolo.
Caffè. Non c’era odore di
zucchero.
Mi tese una mano e mi aiutò a
rialzarmi, poi si portò l’altra alla testa e riafferrò la tazza.
«Ti fa parecchio male?»
bisbigliai, indicando la sua
fronte.
«Diciamo che ho avuto momenti
migliori.»
Dalle finestre entravano
giusto una manciata di tenui raggi dal lampione più vicino, che schiarivano la stanza quel poco che bastava per non
battere gli stinchi sugli spigoli insidiosi e
per vedere la sagoma del viso di Alan che mi faceva cenno di seguirlo in
cucina.
Tutta quella luce fu un
tremendo shock. Gli occhi mi dolsero per qualche istante e li stropicciai, poi
vidi Alan accendere una luce meno intensa e spegnere quella principale. Sembrava quasi che anche la luce
dovesse adattarsi a quel silenzio.
Si sedette a tavola, sul lato
più lungo, e io presi posto al capotavola accanto a lui.
Bevve un altro sorso di caffè,
ma notai che ne aveva buttato giù pochissimo.
«È amaro da morire. Quasi
quasi mi tengo il mal di testa.»
Quel tono sommesso conferiva a
quel momento l’intimità di due amici di vecchia data, di due ragazzi svegli,
nel cuore della notte, a parlare del più e del meno. Sembravamo lontani da
tutti i problemi che avrebbe portato il giorno, sospesi in una sorta di limbo
privo di preoccupazioni.
Mi guardai intorno per cercare un orologio
che non trovai.
«Che ore sono?», chiesi.
«Quasi le quattro. Ti ha
svegliato la luce?»
Scossi il capo.
«No, tranquillo. Stavo
sognando, ma a un certo punto…»
Tu mi dicevi ‘Voglio morire’.
Aggrappato al mio corpo, i
pugni serrati sulla mia maglietta, Alan mi aveva detto poche cose, ma chiare.
«…Sì?»
Non mi venne in mente niente,
ma non potevo pretendere molto con due soli neuroni attivi.
«Lascia
stare, era un brutto sogno.»
Annuì appena e non mi chiese
altro. Sapevo che aveva capito qualcosa, anche se più probabilmente pensava che
riguardasse me; tuttavia aveva il
garbo di non insistere e di capire sempre il sotto-testo di certe situazioni.
Rispettava i miei silenzi e
lasciava che fossero loro a parlare per me. Forse era quello che avrebbe voluto
lui, con tutte quelle persone che sicuramente gli avevano fatto domande su
Oliver e sulla sua vita sentimentale.
Restammo in silenzio, ma
sembrò quasi che ci coccolasse, mentre l’unico sottofondo che si udiva era il
deglutire di Alan e il suo posare la tazza di caffè sul tavolo per
riprendere coraggio.
Quando ebbe finito fece una
piccola smorfia contrariata, poi si alzò per lavare la tazzina, anche se aveva
lasciato un po’ di fondo.
Il rubinetto dell’acquaio
ruotò verso l’acqua fredda e uno scroscio continuo si schiantò contro l’acciaio. La spugnetta strusciò su
tutta la circonferenza della tazzina, che Alan tuffò sotto l’acqua e finì di
lavare. Quando chiuse il rubinetto, mi accorsi che la lampada ai fornelli,
quella che Alan aveva acceso, emetteva un piccolo e monotono ronzio di
sottofondo.
Sentii calare le palpebre, ma
le riaprii subito, quando Alan tornò al suo posto, accanto a me.
«Se hai sonno, puoi tornare a
dormire.»
«No, ormai non mi riaddormento
più.»
Alan adagiò la testa sul palmo
della mano destra.
«Sonno leggero?»
«Non proprio. È che quando mi
metto a letto, poi comincio a pensare e non mi addormento più.»
Lui sorrise.
«Ti capisco, succede anche a
me.»
Lui sicuramente pensava a
Oliver. Tuttavia mi
piacque immaginare che i suoi pensieri fossero altri, meno scontati, più
sfaccettati. Non ebbi il coraggio di chiederglielo, però.
Il ronzio della lampada mi
sembrò più consistente. Sembrava una zanzara di cui non riesci a sbarazzarti,
con la sola differenza che non pinzava. Se prima mi era sembrata quasi ipnotica, ora era decisamente fastidiosa e mi stava
facendo risvegliare troppo presto.
Alan aveva lo sguardo perso
nel vuoto della tavola. Teneva ancora il capo accoccolato sul palmo,
forse per far sì che il mal di testa non aumentasse. Sbatté le palpebre e tornò
a muovere quegli occhi non troppo vispi, poi
posò lo sguardo su di me.
«Ma tu che ci fai qui?»
Ci aveva pensato solo in quel
momento, wow. O forse anche prima, visto che non si era spaventato quando ero
caduto dal divano. Non lo sapevo ed era un ragionamento troppo complesso per il
momento.
«Qualcuno qui non regge bene
l’alcool e l’ho dovuto riaccompagnare a casa. Ho pensato di fermarmi qui, non
mi andava di prendere la metro.»
Alan soffiò via qualche
residuo di sonno e annuì senza troppa convinzione. Si massaggiò nuovamente la
tempia e vidi sul suo volto una piccola smorfia di dolore.
«Dov’è la macchina?»
Allarme rosso, allarme rosso.
Dov’era la macchina? Che bella domanda.
«Nei paraggi.»
Sbuffò ancora.
«Ma non mi dire. Non ti
ricordi il nome della via? Un riferimento?»
Mi grattai il mento, come per
riflettere, ma era tutto inutile.
«La cerchiamo dopo insieme.
Non dovrebbe essere difficile, no?»
Alan scosse il capo e ne
approfittò per far scorrere la tempia sotto i suoi polpastrelli. Poi abbozzò un
sorriso.
«Sei impossibile, davvero.»
Non insistette oltre. Tirai un
sospiro di sollievo: non se l’era davvero presa e poi la macchina era realmente
nei paraggi. Sarebbe bastato andare in giro con le
chiavi in mano a premere il pulsante di apertura, a mo’ di bastone per l’acqua.
Che poi, non ci avevo mai creduto a quei bastoni.
Allungai una gamba per
stiracchiarla e urtai la sua. La ritrassi immediatamente e udii lui fare lo
stesso.
«Scusa.»
Cadde il silenzio, ma mi
sentivo confortato.
Io e Alan eravamo alla pari di
due sconosciuti, ma mi piaceva quel modo canzonatorio con cui mi prendeva in
giro. Aveva un che di affettuoso e mi domandai da quando le cose fossero diventate così. Forse scoprire di Oliver aveva creato tra noi un legame
speciale, un filo rosso che aveva il potere di tenerci legati, pur non
condividendo niente.
Ma cosa sarebbe successo se
quel filo si fosse spezzato? Se avesse superato Oliver, cos’è che avrebbe
potuto tenerci legati?
«In casa non posso fumare,
vero?»
«Non te la prendere, ma non
voglio che si attacchi ai mobili o al divano.»
Fu una risposta gentile,
diversa da quel suo ‘Scordatelo’ della sera prima. Sembrava quasi che
avessimo smesso di giocare al gatto e al topo e ci stessimo comportando come
due persone normali.
«Posso andare in terrazza?»
Lui si voltò indietro, come
per prendere le misure di fronte a quella richiesta.
«Penso che non ci siano
problemi.»
Mi alzai e sfilai pacchetto e
accendino dalla tasca posteriore dei pantaloni. Ruotai la maniglia cigolante
della finestra e la brezza notturna mi accarezzò il viso. Si sentiva solo il
frinire delle cicale e, in lontananza, uno stormo di luci
mi riempiva gli occhi; ma tutto intorno a noi, nel
giardinetto sottostante e nelle strade laterali, non volava una mosca. Alzando
gli occhi, si riusciva pure a vedere qualche stella. Riabbassai lo sguardo e
infilai la testa verso l’interno.
«Non mi fai compagnia?»
Alan si voltò e fece di sì col
capo, ma sembrava spento. Forse la sbronza della sera prima gli aveva dato il
colpo di grazia.
Gli feci spazio accanto a me e
mi accesi la sigaretta. Sfortunatamente, il vento soffiò proprio in quel
momento e il fumo gli finì tutto in faccia. Lui si limitò alla smorfia che si
fa quando una mosca ti vola vicino al viso, ma non disse altro.
«Scusa. Non l’ho fatto
apposta.»
«Ormai mi ci sto abituando.»
Quel pensiero mi fece
sorridere. Qualcuno si stava abituando a qualcosa di mio. Nessuna delle mie
avventure-durate-meno-di-un-anno mi aveva mai detto una cosa simile; ne fui
quasi lusingato.
«Ah, scusa per ieri sera. Se
sono stato un po’ di tempo con Harvey, intendo.»
«Fa niente. Eravamo lì per un
altro motivo.»
Lo vidi massaggiarsi ancora la
fronte, poi strusciò il palmo sugli occhi. Doveva essere proprio a pezzi.
Ascoltai ancora il canto incessante delle cicale, poi feci un tiro. Mi sentii
risvegliare tutto insieme.
«È un tuo ex?»
Andava sempre dritto al punto,
con le sue domande. Non c’era mai incertezza in quello che diceva, merito forse
della sua professione. Barcollare con le richieste non gli era permesso.
«Harvey? Sì. Siamo stati
insieme quando avevo diciassette anni. Poi dopo un anno mi ha mollato.»
Mi aveva mollato perché ero un
immaturo o forse perché voleva sbarazzarsi di me. L’Harvey che avevo visto la
sera prima, però, era diverso: aveva più l’aspetto di un uomo, e la mente,
perché parlava del suo lavoro come uomo d’affari, dell’appartamento che voleva comprarsi, dei suoi risparmi.
E poi aveva anche allungato un po’ le mani, ma non mi era dispiaciuto del
tutto. Sapevo che tipo era Harvey e sapevo cosa voleva, tra le tante cose. Non
escludevo che tra i suoi desideri ci fosse anche una storia con me. Di fatto,
eravamo due individui completamente diversi rispetto a quelli che avevamo
lasciato. E tra le parole di Harvey, tra i suoi sguardi e i suoi sorrisi
affettuosi, avevo capito che stavolta non era solo sesso.
«Ci sei molto affezionato,
però.»
Mi tornò in mente Alan e il
mio, a suo dire, fare le fusa ad Harvey. Era ciò che mi aveva lasciato più di
stucco, anche più del modo in cui era venuto a riprendermi. Perché, anche se
era improbabile, mi era sembrato quasi stizzito.
«Harvey è stato il mio primo
ragazzo serio. Il mio primo amore, insomma. E il primo per molte altre cose.»
Feci un altro tiro e buttai
fuori qualche ricordo spiacevole. Alcune ‘prime’ cose con Harvey non erano
state questo granché, nemmeno col passare del tempo. Non le avevo rimpiante,
nel momento in cui le avevo perse.
Alan annuì appena. Fissava il
vuoto e ogni tanto si massaggiava la fronte.
«Il tuo primo è stato Oliver?»
Rimasi in attesa, con la
certezza di aver fatto una cavolata, di aver oltrepassato il limite
dell’intimità tra due semplici conoscenti, nonostante il buio, la luce soffusa
e tutto il resto.
Invece mi sorprese.
«Sì», rispose quasi con un
soffio.
Il primo e l’unico, pensai. Ma
era comunque un’immagine molto tenera. Adesso fissava il pavimento di
terracotta e fui abbastanza sicuro di avergli visto un mezzo sorriso, ma non
era facile dirlo con quella penombra. Meglio così, forse: il buio aveva custodito l’intimità
del suo ricordo.
«E hai mai pensato,
ultimamente… Scusa, te l’avranno chiesto tutti.»
Sorrise e mi guardò per un
attimo, mentre io ero impegnato a nascondermi dietro una sigaretta che non
riuscivo a fumare.
«Sì, me l’hanno chiesto tutti,
e sì, ci ho pensato. Ma non è così semplice, Nathan,
e non solo per Oliver.»
Si fermò un attimo. Cercava le
parole, o forse reprimeva solo un’emozione di troppo.
«Oliver mi manca. Volevo
sposarlo, forse lo avevi capito.» Feci un piccolo cenno col capo. «Io non
riesco a pensare all’idea di avere un’altra persona accanto, di condividere con
qualcun altro emozioni che volevo che fossero nostre e di nessun altro. Però so
che succederà. Prima o poi, qualcuno entrerà silenziosamente dentro di me e
prenderà il suo posto, e a me andrà bene così. Forse non sentirò parlare del
veleno di vipera o chissà quale altra malattia e mi emozionerò lo stesso.
Succederà, quando sarà il tempo.»
Fece un’altra pausa. «Ci sono
una serie di cose con cui non so come relazionarmi, e il problema è questo,
Nathan. Ogni tanto mi chiama la madre di Oliver e vuole che io condivida il suo
dolore. Adesso mi viene spontaneo, ma sarà lo stesso quando avrò un’altra
persona accanto? Forse sarò felice, e io come dovrò comportarmi con lei? Dovrò
dirle che qualcuno ha preso il posto di suo figlio? Non ci riesco. E con mia
madre è lo stesso: mi chiama o mi manda messaggi per chiedermi come sto, ma
vuole sapere se ho incontrato qualcuno, perché vuole il meglio per me. Ma sai
una cosa? Quando troverò qualcun altro, perché so che accadrà, non sarà normale
per nessuno. Ci saranno solo una sfilza di domande, un sacco di raccomandazioni
perché penseranno che sarà un tappabuchi per Oliver. Una faccenda normale come
una relazione diventerà un affare di Stato e a me non va. Non mi sento pronto
ad avere i riflettori addosso per un evento così normale. Quando ho detto ai
miei che ero gay, mi sono sentito nello stesso modo: non potevo portare a casa
un ragazzo e dire semplicemente che era il mio compagno? No,
dovevo stamparmi in fronte che mi piacevano i ragazzi e trasformare in qualcosa
di eccezionale quello che per me era un evento normalissimo.»
Mi si seccò la gola. Perché le
uniche risposte che mi venivano in mente avevano al massimo cinque parole. O
forse perché quello che volevo realmente dirgli era di mandare a quel paese
chiunque avesse fatto commenti di quel genere, ma non potevo dargli davvero una
risposta come quella. Almeno, non in quella forma. Avrei potuto provare a dire
qualche frase di circostanza, ma sarebbe stato stupido. Mi sentivo come quelli
che, di fronte a un papiro di messaggio, rispondono solo con ‘Ok’. Che
imbarazzo.
«Scusa, ho parlato troppo.»
Non potevo davvero farci quella
figura misera. Era un atteggiamento che avevo sempre
detestato e non potevo cascarci a mia volta.
«Io credo che…», mi leccai le
labbra, «che non dovresti dargli tutto questo peso. Cioè, capisco che sia tua
madre e non puoi…», meditai un attimo per trovare le
parole, «…essere sgarbato con lei, ma secondo me è anche un po’ colpa tua.
Nel senso, se un giorno ti telefona, tu dille che devi andare perché esci con
Tizio. Non dire chi è o chi rappresenta per te, sarà abbastanza ovvio; non dovrai stamparti niente sulla fronte, sarà naturale.
Se poi ti seccano quelle persone che fanno domande anche sull’ovvio, be’, puoi
solo sperare di sbarazzartene il prima possibile.»
Alan sorrise, poi ci pensò un
attimo.
«Temo che mia madre sia una di
quelle persone di cui non potrò sbarazzarmi. Farà un sacco di domande. Invece alla madre di Oliver cosa diresti?»
«Credo che sua madre sia un
po’ nella tua stessa situazione, in un certo senso. Però il tempo passa per
tutti e anche lei, prima o poi, riuscirà a superare questo momento. Magari a ogni
telefonata sarà sempre un po’ meno affranta e forse
riuscirete anche a parlare di cosa comprare al supermercato.»
Ridemmo entrambi. Sul suo
volto rimase un sorriso dolceamaro, meno vacuo di prima.
«Fosse tutto così semplice. Io
mi sento in colpa, Nathan, verso troppe persone
e di certo mia madre non aiuta. Sai, mi è arrivato un suo messaggio, stanotte, ed è per questo
che mi sono svegliato. In quell’istante ho
pensato che ci sono dei momenti in cui vorrei
sparire. Andare in una terra lontana, dove non conosco nessuno, dove non ho
responsabilità verso nessuno. Evadere da questa realtà.»
Feci ancora un tiro e osservai
il fumo volare via, lontano da tutto e da tutti, pronto a disperdersi
nell’infinito dell’universo. Invece di riportarla alla bocca, gliela porsi, con
fare giocoso.
«Ancora ci provi?»
«È la mia Innocente Evasione.
E, in via del tutto speciale per te, è pure gratis. Non era questo che volevi?»
Alan rise e scacciò via la mia
mano, ma poi tornò a guardarmi, come se avesse avuto un ripensamento – alquanto
improbabile.
«Tieniti pure quella roba
puzzolente.»
«Come sei noioso. Un tiro non
ha mai ucciso nessuno.»
Accostai il mio corpo al suo, il mio petto
alla sua spalla, mentre lui seguiva con lo sguardo ogni mio movimento, senza
opporsi.
Alan non mi staccava gli occhi
di dosso. Più la distanza tra la sigaretta e la sua bocca si riduceva, più
pensavo che mi avrebbe scacciato, dicendomi che ero un cretino e che dovevo
smetterla.
Ma lui continuava a puntare i
suoi occhi nei miei, mentre non opponeva alcuna resistenza e lasciava che quasi
appoggiassi il filtro sulle sue labbra.
Per un attimo pensai che
sarebbe successo. Che ad accorciare le distanze non sarebbero stati lui e la
sigaretta, ma io e lui. Per un momento indugiai ancora, proprio come si
tentenna nel dare un
bacio dall’esito incerto, ma non aveva senso, non dopo quello che mi aveva
detto. Eppure la vicinanza tra noi era così
palpabile che sentivo il soffio del suo respiro sul mio collo, il fumo
controvento che oscurava la visione del suo volto, che ancora aveva gli occhi
piantati su di me.
Sarebbe stato stupido. Lui lo capì prima di me, se mai aveva avuto i miei stessi
pensieri. Sarebbe stata solo una cavolata colossale.
Mano a mano che
la distanza si accorciava, lui alternava lo sguardo tra me e la
sigaretta; ma proprio nel momento in cui ero quasi certo che l’avrebbe accolta
tra le sue labbra, lui spintonò via la mia mano e
ridacchiò.
«Scherzetto.»
Mi osservò per studiare la mia
reazione, ma io ero imbambolato: per un attimo mi ero illuso che l’avrebbe
fatto, che avremmo potuto condividere qualcosa, un piccolo segreto, uno sgarro;
invece mi aveva solo preso in giro. Gli tirai una manata sul braccio e lui
trattenne una smorfia di dolore.
«Te lo meriti.»
Ridacchiò, ma rincarai la
dose: aspirai il più possibile e gli buttai tutto il fumo in faccia, gesto che
non si aspettava. Si portò le mani al viso e poi le sventolò.
«Ma non senti la puzza?»
«Sento solo odore di
stronzetto.»
Si lasciò andare a una
risatina fin troppo forte per quell’ora, ma, non appena tacque, tornammo a
essere avvolti dal canto incessante delle cicale.
Non riuscivo a pensare che un
attimo prima mi era balenata, rapida, l’idea di entrare in intimità con lui.
Aprii le labbra
a cerchio e lasciai che piccoli anelli di fumo
abbandonassero le mie labbra, trascinati via da quella leggera brezza che li fece
confondere con tutto il resto.
«Chi è stato a farti
cominciare?»
«Harvey.»
Un suo gemito non troppo
stupito mi impedì di terminare la frase.
«Ah, Harvey. Tua croce
e delizia.»
In quel momento pensai che
avrei potuto dirgli la stessa cosa. Detestava Harvey, forse era infastidito
perfino dal nome stesso, ma non capivo perché si fosse accanito così tanto
contro di lui.
Era cominciato tutto con
Harvey: all’inizio volevo essere un suo riflesso, seguire
le sue orme, rendermi uguale a lui nella
speranza che non mi abbandonasse mai. Poi lo aveva fatto lo stesso, io avevo
preso la mia strada e lui pure, ma era stato lui ad insegnarmi come reggermi
sulle mie gambe.
E poi c’era stato mio padre…
… Forse non era
stata una grande idea quella di voler somigliare ad Harvey.
«Non ti piace, vero?»
Mio padre mi aveva lasciato
cinque dita sul viso e la promessa che sarei stato un fallito, insieme a un
borsone con tutte le mie cose.
Dove avevo dormito, dove avevo
vagato… non lo ricordavo neanche più.
«Tu, come tutti, hai bisogno
di qualcuno che ti ami. Non di qualcuno che ti illuda di essere importante per lui ficcandoti una sigaretta in
bocca. È una cosa meschina.»
«È stato tanti anni fa. Ormai
è acqua passata.»
Si voltò verso di me, poi posò
lo sguardo verso l’orizzonte, verso le prime luci dell’alba che facevano
capolino dietro i grattacieli. La città si stava preparando al suo risveglio,
con quel gioco di luci e ombre, di veglia e sonno.
«Ci sono anche altri modi per
legarsi alle persone, Nathan.»
Non ero sicuro di aver capito
il significato di quella frase. Sapevo come legarmi a qualcuno, non ero mica un
tredicenne. Eppure mi resi conto che dietro quelle
parole c’era una verità che non riuscivo a cogliere,
ma non volevo spiegazioni.
Parlare di legami mi fece tornare alla
mente Ryan e il suo atteggiamento così distante e freddo nei miei confronti.
Avevamo deciso insieme di partecipare a quel corso estivo sulle materie plastiche,
prima che lui partisse per le vacanze; ma, quando era tornato, avevo trovato
una persona completamente diversa. Aveva iniziato a essere sfuggente, a
ignorarmi e a sbuffare ogni tre per due in mia compagnia.
«A cosa pensi?»
Inutile dire quanto mi avesse ferito.
Cos’era successo durante quella vacanza? E quanto c’entrava con quello che gli
avevo visto fare su quel muretto, che no, non era piangere?
«Sto pensando…», e la mia mente tornò
ancora a quelle sniffate sul muretto, a Ryan che si strusciava il naso, «… a un
amico.»
«Un amico importante?»
I fari di una macchina di passaggio
illuminarono fugacemente il villino di fronte a noi, per poi lasciarci di nuovo
immersi nell’oscurità. Ormai il rumore del motore era lontano.
Non avevo voglia di rivelare ad Alan di
chi stessi parlando, forse proprio perché lo aveva conosciuto e, con ogni
probabilità, si era accorto anche da solo che Ryan aveva qualcosa di strano.
«Mi aiutava spesso a studiare. Da un po’
di tempo, però, è cambiato tutto. Tutta colpa di quelle maledette vacanze.»
Sentii la rabbia montarmi in petto, ma fu
subito smontata da un moto di tristezza, forse perché avevo la consapevolezza
che niente sarebbe più tornato come prima. Ryan aveva ormai una presenza
costante nella sua vita di cui non si sarebbe sbarazzato facilmente, e che lo
stava divorando a piccoli morsi, rendendolo sempre più dissimile dal ragazzo
che avevo conosciuto.
«Mi dispiace, davvero.»
Il suo tono era di sincera apprensione, ma
non riuscivo a guardarlo in faccia. La sua presenza mi confortava, ma, al
contempo, avrei preferito indugiare su quei pensieri in solitudine.
«Vorrei tanto sapere chi è stato a fargli
tutto questo. Non lo scoprirò mai, immagino.»
«Anche se tu lo scoprissi, non penso che
potresti farci molto.»
Quella dichiarazione fu una freccia in
pieno petto. Non solo perché ebbi l’impressione che avesse capito fin troppo
bene ciò che si celava dietro le mie parole, ma anche perché sbriciolò la mia
speranza che la polizia potesse in qualche modo aiutare Ryan.
Sprofondai nei miei pensieri più profondi,
alla ricerca di un modo per affrontare Ryan e aiutarlo. Ripensai a quello che
avevo visto, al suo sguardo, ai suoi occhi.
E lì il mio cuore si fermò.
I suoi occhi.
Verdi come i miei, ma più chiari e
glaciali, avevo detto.
Quello sguardo, quell’esitazione.
Il cuore cominciò a scoppiare.
Mi tornarono alla mente le parole di
Clara, sul fatto che Ryan era così strano, così assente… E poi, la spalla
slogata: possibile che fosse accaduto qualcosa durante la rapina?
Accanto a me c’era un poliziotto e io
avevo pure rilasciato una dichiarazione. Avrei sempre potuto dire che mi ero
sbagliato, ma come potevo sapere a che punto erano le indagini? Ritrattare la
mia dichiarazione avrebbe potuto avere degli effetti collaterali troppo
imprevedibili e pericolosi.
E poi, c’era anche Alan alla festa. Era
buio, sì, ma poteva sempre aver visto il colore dei suoi occhi.
Cazzo, Ryan.
Aveva degli occhi così particolari, troppo
particolari perché non fossero i suoi.
Mi ritrovai nel panico, così provai a
pensare.
Capii subito che io non c’entravo niente.
Avevo solo avuto la sfortuna di imbattermi in lui, quel pomeriggio, ma niente
di più. Io lo avevo urtato e ci eravamo guardati negli occhi.
Niente di più, niente di meno.
Però…
«Che aiuto ti serve con lo studio?»
Dopo una manciata di minuti tornai a
guardarlo. Fissava l’orizzonte buio davanti a sé, lanciandomi occhiate
trasversali, mentre io lo fissavo. Forse aveva pensato che il mio silenzio
derivasse dalla mia preoccupazione per lo studio. Mangiai la foglia.
«Ho bisogno di qualcuno che mi faccia
entrare in testa le materie plastiche.»
Lui emise un gemito pensieroso.
«È importante questa materia?»
Risposi, non senza un po’ di imbarazzo.
«Mi serve per la borsa di studio. Se
ottengo un buon punteggio, ho più possibilità di farmela assegnare.»
Alan mugolò ancora. Mi domandai che cosa
gli stesse passando per la testa in quel momento.
«La tua famiglia non ha messo da parte i
soldi per il college?»
«No, sono per mio fratello.»
La verità era che sì, li avevano messi da
parte per me, come tutte le famiglie. Poi, un bel giorno, mio padre aveva
deciso che non ero degno di farmi finanziare gli studi con quei risparmi e che
sarebbero stati riservati a Jimmy.
«Giusto, hai un fratellino.»
«E quando te lo avrei detto?»
Lui ridacchiò.
«Non lo hai fatto. Ma, in quanto
testimone, abbiamo raccolto qualche informazione su di te.»
Quella frase mi inquietò non poco.
Esattamente, quante e quali informazioni erano in loro possesso? Non avevo
chissà quale segreto, ma mi sentii nudo. Alan si sentì in dovere di
rassicurarmi.
«Si tratta solo di generalità. Famiglia,
lavoro, studi… Queste cose qui.»
Tirai un sospiro di sollievo e
ridacchiammo entrambi.
A quanto pareva, ero solo un semplice
testimone. Alan non mi avrebbe mai rivelato tanto di più, ma ero certo che non
fosse propenso a mentire.
Il mio sorriso si spense per primo. La mia
famiglia era un disastro, il lavoro era
pessimo e gli studi non potevano andare peggio di così. Ci sarebbe mai stata
almeno una cosa positiva nella mia vita?
«Tutto bene?»
Avrei mai fatto pace con mio padre? Sarei
mai riuscito a trovare un lavoro degno di questo nome? E lo studio… Avevo
davvero la possibilità di laurearmi?
Quante cose mi apparivano incerte, in quel
momento.
«Ti vorrei fare una domanda.»
«Dimmi.»
Mi voltai a guardarlo e lui mi fissò di
rimando.
«Secondo te, arriva sempre la calma dopo
la tempesta?»
Il suo sguardo si piantò su di me,
stupito. Poi spostò gli occhi verso la strada e il villino di fronte a noi,
dopodiché tornò a guardarmi con un sorriso.
«Sì. Secondo me arriva sempre», rispose,
con uno sguardo carezzevole che sembrò sfiorarmi il viso. «A volte, quando meno
te lo aspetti. Però arriva.»
Il suo sorriso scomparve e si guardò un
attimo i piedi.
Mi sentii coccolato da una rinnovata
speranza: se lo diceva lui, doveva sicuramente essere vero.
Guardammo insieme l’alba e lasciammo che i primi raggi del sole accarezzassero i nostri volti, mentre la brezza
diventava più calda e l’aria afosa a poco a poco.
Non appena il Sole si mostrò
in tutta la sua interezza, rientrammo in casa.
Avevo ancora il mozzicone
spento tra le dita.
Non appena varcai la soglia, sentivo che quel momento volava via
sempre più lontano, e quando chiusi la finestra ne ebbi la conferma. La cucina
non nascondeva più alcun segreto e la nostra chiacchierata aveva l’eco di un
sogno ormai svanito.
Capii che era il
tempo di fare una doccia. Chiesi ad Alan una maglietta di ricambio, con la
promessa di riportargliela lavata e stirata il prima possibile – compito
ingrato che avrei mollato a una lavanderia, ma non era necessario che lo
sapesse.
Osservai la sua sagoma sparire
dentro la camera e non riuscivo a credere che fosse la stessa persona che, la
sera prima, si era aggrappata a me continuando a ripetere “Voglio morire”.
Non avevo mai visto nessuno piangere così tante lacrime, con così tanta
disperazione. Sembrava inconsolabile, mentre biascicava il nome di Oliver,
intervallato dal naso che tirava su e dalle lacrime che scorrevano fino al
mento, per poi confondersi coi chicchi di asfalto.
Solo dopo molte mie
rassicurazioni aveva accennato a fermarsi. Non voleva nemmeno che lo riportassi
a casa.
Alan razzolò un poco
all’interno dell’armadio, poi estrasse una maglina bianca, semplice. Si rizzò
sulle gambe e me la mostrò per sapere se mi andava bene. Io annuii: mi serviva
giusto per andare a casa.
Non ebbi il coraggio di
entrare in quella che era stata camera sua e di Oliver: mi sembrava di violare
un intimo ricordo, quindi aspettai che me la portasse lui.
Mi infilai in doccia poco dopo
e lavai quanto possibile. Avrei sopperito allo spazzolino con una mentina;
quanto al resto, avrei rimediato una volta a casa.
Quando fu il momento di
infilarmi la maglietta, sentii lo stomaco tirare. La
presi tra le mani e la osservai: il colletto era
bianco latte e non sfilacciato, segno che sì, era una maglietta da casa, ma tenuta
con una certa cura – non come le mie che erano vere e proprie magliette da battaglia. Tutte le cuciture erano al loro posto e la
stampa davanti era solo appena screpolata.
Nel momento in
cui la indossai, una scia di profumatore d’armadio alla lavanda si posò su di
me e lasciai che mi entrasse nelle narici, come se una parte di lui si fosse
fusa con me.
A ogni respiro, la lavanda
smetteva di essere un profumo e diventava un odore; mi penetrò dentro finché
non ne fui assuefatto, finché non diventò l’aria che respiravo.
Quando mi guardai allo
specchio, mi sentivo leggermente diverso rispetto a prima: in quel momento, dentro di me, c’era anche una
parte di Alan.
Nell’istante in cui uscii dal bagno, mi resi conto che quasi mi
imbarazzava farmi vedere con la sua maglietta addosso. Forse era una parte di
lui che fino a quel momento era stata solo dentro Oliver, e il peso di
quell’intimità era considerevole. Mi sentivo come un guardone che sbircia due
amanti dal buco della serratura.
Mi fiondai in soggiorno e
recuperai il telefono, nella speranza di passare inosservato, e ci riuscii il
tempo necessario per sbirciare il messaggio che mi era arrivato.
Avevo visto quel numero solo
un’altra volta, ma avevo già capito di chi era.
Ciao, impegni per mercoledì?
Se vuoi porto due pizze e
le mangiamo insieme.
Fammi sapere
xxx Harvey
Rimasi
a bocca aperta. Harvey aveva flirtato con me tutta la sera e mi aveva fatto
capire che non vedeva l’ora di stare un po’ da soli. Continuavo a trovare
incredibile che dopo tre anni di silenzio sembrava quasi che non ci fossimo mai
allontanati, ma - non sapevo come - avevamo ritrovato la stessa intesa di un
tempo e anche lo stesso desiderio di intimità.
Avevo
la sensazione che le cose stessero andando un pochino al loro posto. Perché lo sapevo, lo sapevo che da qualche parte, in
qualche modo, non era solo lui che aveva continuato a vivere dentro di
me, ma anche io dentro di lui. E stava scegliendo me, di nuovo, in mezzo a una
miriade di altri ragazzi che avrebbe potuto avere, proprio come mi aveva scelto
tre anni prima.
…
Quanto tempo mancava a mercoledì?
«Tutto bene?»
Mi voltai all’improvviso e mi accorsi che, in realtà, quel
messaggio mi aveva suscitato un entusiasmo che non riuscivo a contenere.
«Tutto benissimo. Ah, grazie per la maglietta. Te la riporto
appena posso.»
«Fai pure con calma, non ho fretta.»
Tornai a guardare quel messaggio e sentii il cuore battermi a
mille. Ripensai a quegli anni spesi a cercare avventure nella speranza che si
trasformassero in qualcosa di più, ma non era mai successo e solo in quel
momento capivo perché. Semplicemente la vita si stava divertendo a percorrere
lunghi giri prima di farmi trovare la storia d’amore che meritavo; e Harvey era sempre stato lì, sotto ai miei occhi, ma
serviva il momento giusto prima che potessi goderne davvero. E quel momento era arrivato.
«È successo qualcosa di bello?»
Alan era in piedi a braccia
conserte, in attesa di una risposta. Mi avvicinai a lui e gli sventolai il
telefono davanti agli occhi.
«Mi ha scritto Harvey. È la
volta buona, me lo sento.»
«Per…?»
«Vuole una storia con me. Me
l’ha fatto capire piuttosto bene ieri sera e questo messaggio mi sembra la
conferma che cercavo.»
Le labbra tirate di Alan non
divennero mai un sorriso.
«Auguri, allora. Fammi sapere
quando vi sposate.»
Lo spintonai con fare scherzoso,
ma lui indietreggiò solo di un paio di passi.
«Spiritoso. E sappi che ti
terrò informato, come desideri», gli risposi con una linguaccia, poi lo superai
per raccogliere le mie cose.
Lui non disse niente, ma non
ebbi nemmeno il tempo di accorgermene.
Uscimmo poco dopo. Mi disse che aveva
da fare delle commissioni e decisi di fare un pezzo
di strada insieme a lui. Era una bella domenica mattina di un agosto non troppo
torrido e la brezza notturna che aveva allietato quel sogno si ripresentò in
veste diurna, più calda.
Ne approfittammo per cercare la macchina,
che per fortuna era veramente nei paraggi come avevo detto. Era bastato fare un
giro di ricognizione delle vie intorno a casa sua, considerando anche la
distanza a piedi che avevo percorso, per trovarla in meno di cinque minuti,
davanti al chiosco di un’edicola.
La cappa non aveva ancora circondato
Manhattan, ma ci spostammo comunque sul marciapiede all’ombra, dato che la
maglietta di Alan stava già creando l’effetto serra sul mio corpo, a causa
anche dell’agitazione che avevo provato per la paura di aver perso la sua auto
chissà dove.
«Grazie, Alan. Per essere venuto alla
festa e per la maglietta.»
«Figurati, puoi tenerla se vuoi. Non serve
che me la riporti.»
Per strada non c’era praticamente nessuno.
I tendoni dei negozi cominciavano ad alzarsi, ma le persone erano ancora
rifugiate nelle loro case, a gustare la colazione. Alan era voluto uscire
presto per godere della brezza mattutina e io ne avrei approfittato per tornare
a casa a riordinare un po’, in vista dell’appuntamento.
Una macchina solitaria ci sfrecciò
accanto, facendo un casino incredibile e beccandosi le infamate del giornalaio
di fronte a noi. Chissà che stress vivere la strada in ogni momento della
giornata… Almeno il chiosco gli faceva ombra.
Anche Alan guardava il chiosco. Per la
verità, il suo sguardo era stato rapito da un giornaletto scandalistico - Rumors
- che aveva in copertina una foto formato gigante con scritto: “Il leader
dei Wit Matrix frequenta qualcuno?”. Quel nome mi era familiare e non mi ci
volle molto a ricordare che era la cover band che dovevamo andare a sentire al
nostro primo incontro.
Nella foto non si vedeva quasi niente (e
mi domandai come diavolo potessero costruire un gossip su un’immagine così
insignificante): il tizio della band era di spalle e dell’altro tipo si vedeva giusto
una mano, tatuata; non era visibile neanche il viso.
Che scoop, davvero.
In una frazione di secondo, però, Alan fu
subito davanti al giornale. Lo tirò via dalla sua postazione e avvicinò il naso
alla foto in copertina.
«Non credevo ti interessasse questa roba.»
Lui scrutava ancora la foto e ogni tanto
alzava gli occhi al cielo da destra a sinistra, come per cercare un ricordo.
«Sorpresa.»
Se lo mise sottobraccio, sganciò il
dollaro per pagare e tornò a scrutarlo.
Avevo improvvisamente smesso di esistere.
Sembrava parecchio preso dalla foto e feci capolino dalla sua spalla per vedere
cosa ci fosse di così interessante.
«Cosa c’è di strano in questa foto?»
Mi rispose senza staccare gli occhi dal
giornale.
«Segreto professionale.»
«Non mi sembra molto professionale far
capire a un non addetto ai lavori che in questa foto c’è un dettaglio utile a
un’indagine.»
Finalmente mollò quel giornale e mi guardò
con uno sbuffo. Forse avevo disturbato la neonata coppia Alan-giornale. Feci
spallucce.
«Vabbè, ti lascio alle tue indagini.
Grazie di tutto, ci sentiamo presto.»
Lui sorrise appena. All’improvviso sembrò
risvegliarsi dalla trance in cui era sprofondato da quando aveva visto quella
foto.
«Ciao, Nathan. Tanti auguri per tutto.»
Sventolai la mano e lo salutai camminando
all’indietro. Pensavo che sarebbe salito in auto, invece se ne restò lì
impalato a salutarmi a sua volta.
Io mi voltai verso la mia strada e, dopo
qualche centinaio di metri, mi lasciai inghiottire dalle scale della metro,
ascoltando il ticchettio sopra la mia testa che mi separava sempre meno da
Harvey.
Forse
anche io avrei cominciato a trovare la mia felicità, alla faccia di chi diceva
che ero un fallito.
Angolo
autrice
Salve a tutti!
A
quanto pare Nathan sta facendo qualche scoperta interessante. Come deciderà di
gestire la cosa con la polizia?
E
intanto con Alan le cose proseguono ^__^ Trovo che anche qui, come nel capitolo
6, ci sia un bel momento intimo tra loro, reso più magico sicuramente dal buio
della notte. Si incontreranno ancora? Oppure sarà il turno di Harvey di
prendersi la scena? Scoprirete tutto nei prossimi capitoli :P
Al
solito ringrazio tantissimo chi legge, ho tenuto questa storia nel cassetto per
così tanto tempo che mi emoziona sempre un po’ condividerla con voi. E come
sempre vi faccio i complimenti per la tenacia con cui vi sciroppate questi capitoli
lunghissimi <3
A
presto,
holls