ATypical

di ArielSixx
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“Si può sapere cos’hai?”, la voce di Wynona mi riporta alla realtà. Che ore sono? Per quanto tempo sono rimasta a fissare il vuoto? La colazione che staziona sul piatto davanti a me è sempre la stessa: uova e latte, per le prime preferisco non chiedere da dove provengano, mentre il secondo è un ottimo composto di polvere e acqua calda. Kyle sta ancora dormendo, grazie agli antibiotici recuperati da Madama Gus la febbre è scesa notevolmente, se tutto va bene dovrebbe riprendersi entro qualche giorno. So che non è una soluzione definitiva, ma basteranno ad alleviare i dolori per un paio di settimane.

“Nulla, perché dovrei avere qualcosa”, dico. Io e Wynona ci conosciamo da almeno tre anni, è stata la prima a mostrarsi amichevole quando siamo arrivati qui e nonostante questo cerco sempre di guardarmi le spalle anche da lei. Non sai mai di chi puoi fidarti fino alla fine. Tre anni sono bastati a farmi capire come funzionano le cose in questo posto, non si può mai abbassare la guardia se si vuole rimanere vivi.

“È che mi sembri strana”, mi dice. Prima era diverso, non dovevamo preoccuparci di nulla e non solo per l’età. Io e Kyle non siamo nati da queste parti, abbiamo avuto il privilegio di godere di agi che molti non hanno mai nemmeno immaginato, sembrava tutto perfetto. Sembrava, appunto. Ma è qui che finiscono gli orfani, dove chi ha perso tutto non può più avere nulla. Quando stai ai piani alti la scalata è un gioco, si fa a gara a chi riesce a ottenere di più; ma in un posto come questo non si può giocare, si fa appena in tempo a raggiungere la fine della giornata sani e salvi. Da qui è difficile arrivare in un altro distretto o in un’altra divisione, sono pochi quelli che ci riescono e ancora di meno quelli che ci provano.

“Strana come? Noti qualcosa di diverso?” dico, guardandola di proposito negli occhi. Quando mi guardo allo specchio non sono più io, ma tutto intorno a me nessuno sembra accorgersene. Possibile che io mi stia immaginando tutto? Possibile che realmente nessuno se ne sia ancora accorto?

“No, non in quel senso. Sei più…uhm… pensierosa ecco! Hai messo il sale nel latte invece dello zucchero”, risponde lei. No, no, no. Non lo vede. Forse sto impazzendo ed è tutto un effetto collaterale dell’operazione. Qualsiasi cosa sia non posso permettermi di perdere la testa.

“Oh, questo” alzo le spalle, picchiettando con le dita sulla boccetta del sale “devo essermi confusa”, ammetto. In effetti non ci avevo davvero fatto caso, tanto da trangugiare tutto il contenuto del bicchiere senza accorgermi di nulla. Forse perché ho troppi pensieri per la testa, forse perché quando stai morendo di fame poco importa cosa metti nello stomaco se ti consente di arrivare al giorno successivo.

Quando sento il suo della prima campana tiro un sospiro di sollievo, altre dodici ore hanno inizio. Lì fuori non ho veramente qualcosa da fare, le ore passano alla ricerca vaga di qualcosa, di solito un paio di spiccioli per un lavoro occasionale. A volte al mercato c’è bisogno di manodopera in più o qualche volontario per smontare le attrezzature delle fabbriche, sono i lavori più redditizi e non vi è molta altra scelta se non ci si vuole ritrovare a seppellire cadaveri. Gli scienziati vanno e vengono almeno ogni due settimane e tutte le volte portano con loro una quantità innumerevole di attrezzature che alla fine abbandonano alla propria sorte quando quello che doveva essere l’esperimento del secolo fallisce miseramente. A quel punto la zona va pulita e sgomberata in attesa del nuovo genio di turno. Sappiamo tutti che nulla di tutto ciò funzionerà, ma noi forniamo lo spazio e loro portano i soldi. Beh, lo spazio gli spetterebbe a prescindere ma far finta che si tratti di uno scambio reciproco è l’ultima cosa che tieni in piedi la divisione. È l’unico motivo per quale ci dimentichiamo che ognuno di noi è una cavia da laboratorio. In giro non si dice, ma tra quelli rimasti solo i più piccoli non si sono mai sottoposti a qualche intervento. A loro ci pensa chi può, fin quando possibile.

Anche oggi è una di quelle giornate in cui le fabbriche sono ancora piene e il mercato è già stato rifornito. La colazione si è portata via uno dei tre dollari avanzati dalle medicine e quelli che restano dovrò conservarli con cura, potrei averne bisogno prima del passare dei successivi quindici giorni. Il tempo qui è una costante instabile, ce n’è sempre troppo poco e non sai mai fin quando potrebbe durare.

“Cercano qualcuno alla vecchia fossa”, mi dice Wynona. Ogni martedì facciamo il giro della divisione insieme, a volte due è meglio di uno.

“Non si respira lì dentro”, le rispondo. Quella è l’ultima spiaggia, ancora peggio di farsi impiantare addosso meccanismi che probabilmente ti friggeranno il cervello. Il tanfo di morte ti si appiccica addosso e non va più via per giorni. Solo i più disperati accettano una cosa del genere, per non finirci dentro in un’altra versione.

“A me non rimane niente” dice, tormentandosi una guancia col palmo della mano. Anche lei ha una sorella più piccola, Mad, che ha solo nove anni e lei come unica costante di sopravvivenza. So cosa significa, andare avanti così è difficile il doppio.

“Ci vuoi andare?”, le chiedo. Penso di sapere già quale sarà la sua risposta. Ci forniscono un posto dove ripararci durante la notte ma riuscire a rimanere in vita è compito nostro, non vi sono abbastanza provviste per fornire a tutti un pasto gratuito. Succede raramente, ogni due venerdì, e non è mai all’altezza delle aspettative.

“Solo se vieni con me”, mi risponde






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