Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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Annibale Bentivoglio aveva ancora la testa che pulsava spiacevolmente a causa di tutto il vino che era stato indotto a bere. Parte della colpa della sua emicrania era di certo dovuta anche ai musici, che erano sembrati non essere in grado di smettere di soffiare nelle trombe e battere sui tamburi nemmeno per un istante.

Forse, anzi, pensava, nervoso, mentre intingeva la punta della penna d'oca nell'inchiostro, a renderlo così indisposto erano state le chiacchiere e le risate continue di Cesare Borja. Il Valentino, da quando un paio di giorni prima aveva dato spettacolo, mettendosi a fare da toreador improvvisato in piazza San Pietro, era come invasato da una furia entusiasta che lo rendeva troppo attivo, se non apertamente molesto.

Alcuni dicevano che fosse proprio un effetto dell'aver ucciso dei tori, simbolo dei Borja, davanti agli occhi compiaciuti del padre e a quelli impressionati e 'pieni d'amore' della sorella. Secondo il bolognese non era affatto così. Trovava molto più credibile che il Duca avesse recuperato per via traverse certe sostanze eccitanti che a volte i mercanti orientali facevano arrivare fino a Roma, dove venivano usate per le feste.

Il motivo per cui ne stesse facendo tanto uso, però, in parte gli sfuggiva. Aveva avuto come la sensazione che l'imminente partenza della sorella Lucrecia potesse avere un ruolo in tutto questo, ma era solo un vago sospetto.

Massaggiandosi gli occhi con la mano libera, Annibale cercò di concentrarsi. Gli pesava scrivere così spesso missive, ma era nell'Urbe al solo scopo di essere gli occhi e le orecchie di suo padre Giovanni, nonché un valido corrispondente per il Duca Ercole, che a Ferrara non aspettava altro che le sue ossequiose parole.

“Per fortuna – borbottò tra sé Annibale, cominciando a vergare un paio di frasi di purissima prammatica – don domani me ne vado da qui per un po'...”

Il pensiero di andare a Monterotondo per prestarsi alle nozze per procura tra suo fratello Ermes e la figlia di Giulio Orsini, Giacoma, non lo metteva certo di buon umore, ma era una buona scusa per staccarsi per un po' dalle nauseabonde feste romane.

Rappresentare Ermes era un compito più che leggero – benché dovesse ancora trattare gli ultimi dettagli del contratto matrimoniale – rispetto al sorbirsi tutta l'ipocrisia della corte del papa.

Dopo quasi mezza pagina, volle scrivere all'Este che, dopo la sua sosta a Monterotondo, avrebbe fatto ritorno direttamente a Bologna, per conferire con il padre e, aggiunse, sperando di non suonare troppo ironico, per dare meno disturbo alla comitiva ferrarese, già assai numerosa.

Fece presente che, comunque, la sua partenza non avrebbe arrecato danno ad alcuno, dato che anche la Borja avrebbe lasciato l'Urbe il giorno seguente. In realtà non sapeva dire se l'avrebbe fatto davvero all'indomani o il giorno dopo ancora, ma gli sembrò una piccolezza indegna dell'attenzione del Duca di Ferrara.

Aggiunse la data, ossia il 4 gennaio, e poi, con uno sbadiglio che quasi gli fece andar storta la mano, firmò. Stanco e ancora provato dall'ebrezza costante in cui si era trovato fin dal suo arrivo a Roma, il bolognese lasciò la missiva aperta ad asciugare sulla scrivania e poi, senza darsi il disturbo di cambiarsi per la notte, si andò a gettare sul letto.

 

Il Capodanno era arrivato ed era passato, in fretta, come la ventata d'aria gelida che aveva appena chiuso di scatto la finestra che Caterina aveva aperto per far cambiare un po' l'aria nella stanza.

Irritata per quel contrattempo, giacché si era appena messa seduta, la donna si rialzò, constatando tra sé come quel clima umido le rendesse le ossa sensibile al minimo movimento. Non si era mai posta il problema di invecchiare, tanto meno a trentanove anni non ancora compiuti, eppure il suo fisico le stava facendo capire che era ormai giunto il tempo di fare i conti con la sua fragilità.

Mentre riapriva la finestra e vi restava vicina, per intervenire subito, nel caso in cui il vento l'avesse voluta richiudere di nuovo, la Tigre si rammaricò del suo stato, dando la colpa non tanto agli anni trascorsi alla guida di Forlì, incurante degli sforzi, delle intemperie e delle notti passate insonni. No, la colpa la dava solo e unicamente alla prigionia impostale dal figlio del papa.

E, nel suo profondo, una parte di colpa andava anche al suo primo marito, che le aveva imposto sei gravidanze da lei non volute e mai del tutto accettate.

Guardando fuori, verso il cortile interno, restò un attimo incantata dal turbinio particolarissimo che si agitava tra le quattro braccia della villa. Adesso capiva come mai la finestra si era chiusa così, di botto... Era come se dei mulinelli ghiacciati risalissero e poi riscendessero di continuo, sollevando un po' la neve che era già in terra e un po' quella che cadeva rada dal cielo.

Così presa com'era da quel gioco di correnti, quasi non si accorse di Bernardino, da solo, nel mezzo della corte. Quando lo vide, vestito da casa, senza nemmeno un mantello, e con il capo scoperto, la Leonessa fece un'espressione di impazienza e poi, sperando che bastasse, non avendo alcuna voglia di mettersi a gridare e attirare l'attenzione di tutta la villa, fece un fischio sottile, ma molto deciso.

Il ragazzino, accigliandosi, guardò subito verso l'alto e, nel vedere la madre che lo fissava, sporta sul davanzale di una finestra del primo piano, si immobilizzò. Non che stesse facendo nulla... Si annoiava e basta. Avrebbe voluto andare nei boschi, scappare in città, anche solo giocare con Galeazzo, ma quel giorno il fratello maggiore sembrava troppo concentrato sui suoi studi militari, per dargli retta...

Caterina gli fece un cenno imperioso, ma tuttavia non minaccioso, e il Feo comprese che avrebbe fatto meglio a seguire quell'ordine silenzioso. Così, scuotendosi via dai capelli quella poca neve che vi era rimasta impigliata, corse all'interno della villa e salì le scale due gradini per volta. Viveva ormai da abbastanza tempo lì per sapere in quale stana fosse la madre, benché dal cortile le finestre sembrassero tutte uguali e abbastanza numerose da confondere chiunque.

La Sforza aspettava pazientemente, ben sapendo che il figlio era, tra tutti gli abitanti della villa, esclusa la servitù, quello che si orientava meglio. Infatti nell'arco di nemmeno due minuti, il ragazzino entrò nella stanza e si mise in attesa, vicino alla porta.

“Avvicinati...” fece la madre, come sempre contrariata nel vedere come perfino Bernardino aveva a tratti paura di lei.

Il Feo fece un paio passi e poi allacciò le mani dietro la schiena e abbassò lo sguardo, come se fosse certo che a breve sarebbe arrivata una punizione per qualcosa, non importava cosa. Non gli sembrava di aver combinato disastri, ma spesse volte si accorgeva di avere un metro di giudizio che cozzava con quello degli altri, specie degli adulti.

Caterina lo stava guardando con grande attenzione. Aveva il volto arrossato per il freddo, e i capelli inumidito dalla neve. Esclusa forse Bianca, non poteva negare che Bernardino fosse il figlio più bello che avesse.

“Devi stare attento a uscire con questo freddo con addosso solo un camicione e un giubbetto.” lo redarguì lei, mentre i suoi occhi continuavano a indagarne il profilo, a fare confronti con quello di Giacomo e con il proprio, senza trovare mai una vera e propria lettura, come le era sempre accaduto.

“Anche quando vivevamo a Forlì – rispose il ragazzino, con un accento che tradiva proprio quella lunga permanenza infantile in Romagna – uscivo spesso così, quando nevicava, eppure non ve ne curavate eccessivamente...”

La stoccata non era voluta, ma la Leonessa la percepì in modo netto. Sapeva di essere stata una madre assente anche per Bernardino e sentirselo ricordare a quel modo, con la semplicità di un bambino che cerca di scansare una punizione con dei dati di fatto, la ferì più di quanto diede a vedere.

“Ho già perso un figlio, per colpa della febbre.” gli ricordò allora Caterina, più rigida, muovendosi verso di lui, inducendolo, a quel modo, a sollevare lo sguardo verso di lei: “Non ho alcuna intenzione di perderne un altro. Sappi che non lo sopporterei.”

Il Feo, colpito da quell'accenno a Livio – era così raro sentire la madre nominare quel fratello che lui aveva avuto modo di conoscere molto poco – cercò le iridi verdi della Tigre e, quando le incontrò, si sorprese nel vederle velate da un lievissimo accenno di lacrime.

“Assomiglia tanto a tuo zio Tommaso...” sussurrò a quel punto Caterina, seguendo il filo dei suoi pensieri e non del discorso che stava facendo fino a un attimo prima.

In effetti già in passato, quando per la prima volta Tommaso Feo aveva visto il nipote, al funerale di Giacomo, scorgendoli l'uno accanto all'altro aveva capito a chi somigliava davvero suo figlio.

Col tempo e con la lontananza dal fratello del suo secondo marito, quella consapevolezza era andata spegnendosi, ma ora le si ripresentava con forza inattesa.

“La prima volta che ho visto mio zio – sussurrò Bernardino, che conservava un vecchissimo ricordo del fratello del padre, risalente a quando aveva appena cinque anni – ricordo che mi aveva fatto paura.”

“Tuo zio era un uomo come ce ne sono pochi.” lo volle lodare la milanese.

Tanto lei quanto Bernardino sapevano cosa si diceva, circa la fine di Tommaso Feo. Di lui si erano perse le tracce ormai da oltre tre anni... Verosimilmente, quando i francesi avevano invaso l'alessandrino, lui, che si era rintanato da solo al Bosco, ne era rimasto travolto e ucciso.

A quel punto, la parte più calcolatrice e fredda della mente di Caterina la portò a soppesare a voce alta: “Dovrò indagare su che fine abbia fatto la tenuta del Bosco... In assenza di eredi legittimi, potrei trovare il modo di farmela restituire...”

Il Feo non sapeva che il Bosco era stato un dono di nozze fatto proprio da sua madre ai suoi zii, Tommaso e Bianca, tuttavia quell'affermazione lo portò a fare mezzo passo indietro. Sentire come la Tigre parlasse, in un certo senso, di affari e maneggi anche in quel caso, lo irrigidì.

“Mi raccomando – fece allora la donna, mentre la finestra aperta sbatteva di nuovo – se vuoi uscire, copriti meglio.”

Bernardino, capita l'antifona, annuì e si ritirò, lasciando la madre da sola. Ormai era avvezzo al carattere scostante della Leonessa, come lo erano i suoi fratelli. Insieme – eccetto Ottaviano, che non parlava mai di argomenti del genere con loro – si erano ripromessi di non esasperarla, assecondandola, laddove possibile, in rispetto a quello che aveva subito per salvare loro la vita.

Una volta che il figlio ebbe lasciato la stanza, Caterina andò alla finestra e la chiuse una volta per tutte, con un gesto colmo di rabbia. Non le piaceva essere così distante, specie con il figlio del suo grande amore, ma non riusciva a essere diversa.

Ricordava ancora con dolore come Bernardino fosse arrivato ormai cinquenne alla rocca, spaventato e in lutto, in difficoltà dopo una prima infanzia passata libero, in una famiglia normale, senza vivere le tensioni della corte... Era arrivato a Ravaldino spaesato, si era trovato in mezzo a volti che per lui erano sconosciuti o quasi. Perfino con lei non aveva confidenza alcuna, e, quasi, sembrava non la riconoscesse...

E così la Tigre pensò a Giovannino. Poteva davvero rischiare che anche lui si trovasse ad avere tre, quattro, cinque, magari sei o sette anni senza averla vista più di qualche ora, in piena notte, ogni tanto, senza costanza, senza certezze..?

Non voleva diventare un'estranea per il suo ultimogenito. Lo aveva desiderato e amato troppo, era stato troppo importante per il suo terzo marito, Giovanni...

Asciugandosi una lacrima che le stava scivolando sulla guancia, la donna si guardò un attimo attorno. Quella era una delle stanze più spoglie della villa. La tappezzeria andava rinfrescata, mancava un camino e non c'era altro se non un tavolinetto con una sedia e un mobile con un angolo rovinato. Si era messa lì al solo scopo di non essere disturbata da nessuno, ma all'improvviso le parve che quella camera fosse l'esatta effigie di come si sentiva lei in quel momento: spoglia.

Con un paio di respiri profondi, si diede una smossa e andò nella sua camera da letto. Prese il necessario per scrivere e poi si sedette alla scrivania. Mise a punto una breve, ma incisiva missiva per Fortunati, con cui chiedeva quello a cui stava pensando da giorni: domandare alle Murate la possibilità di avere una celletta stabile, offrendo in cambio le sue nozioni alchimistiche, e poter vedere, così, più continuativamente suo figlio Giovanni. Quest'ultimo inciso, ovviamente, non lo scrisse, ma lo sottintese.

“Non posso permettermi – sussurrò tra sé, mentre firmava – che anche Giovannino cresca avendo paura di me...”

 

Era la mattina del 6 gennaio. Quel giovedì romano sembrava incastonato nella pietra come un diamante prezioso ancora da estrarre. Dal cielo, bianco come il latto, cadeva una fitta e ostinata neve, una di quelle che di rado si vedevano sulle rive del Tevere.

Lucrecia sapeva che i soldati e il resto del suo seguito stavano già preparando ogni cosa. Anzi, probabilmente, mentre lei faceva colazione a Santa Maria in Portico, la città era già un brulicare di uomini in armatura pronti a serrare i ranghi e partire sulla strada che portava al nord.

Aveva salutato la sera prima sua madre Vannozza, in un incontro estremamente privato e informale, nei suoi appartamenti. Si erano promesse di scriversi, magari di andarsi a trovare a vicenda, quando ce ne fosse stata occasione, ma entrambe sapevano che non sarebbe stato facile far realmente seguito a quelle nobili promesse.

Con un sospiro, la figlia del papa cercò di mangiare ancora qualcosa, ma aveva lo stomaco chiuso.

Quell'addio che si apprestava a dare ai luoghi che, nel bene e nel male, erano stati tutta la sua vita, o quasi, le sembrava molto più definitivo di quanto non le fosse parso anche solo fino alla sera prima.

Sbocconcellò qualche pezzo di pane con uvetta, e poi, guardandosi attorno, soffermandosi sui volti pallidi dei suoi servi, sugli affreschi alle pareti e sulle candele accese, malgrado fosse già giorno, per contrastare la luce carente dell'inverno, ripensò ad Alfonso, il suo secondo marito.

Lì erano stati felici, anche se per poco tempo, e con parecchi intervalli di infelicità. Lì il loro piccolo Rodrigo aveva visto la luce, e lì sarebbe rimasto, senza di lei. Gli aveva già detto addio, felice che, con i suoi due anni compiuti in novembre ancora non potesse capire quello che stava accadendo. Con un po' di fortuna, si era detta lei, mentre lo baciava sulla fronte, piangendo, si sarebbe dimenticato di lei e, fattosi più grande, quando l'avesse finalmente riabbracciata, non avrebbe serbato verso di lei alcun rancore, grazie a quell'assenza di memoria. O, almeno, sperava che potesse accadere così...

Scansando una volta per tutte il piatto, la Borja si alzò da tavola e ordinò che qualcuno l'aiutasse a prepararsi: doveva fare una cosa importante, prima di salutare il padre e mettersi in cammino.

Sapeva che il papa la stava aspettando nella stanza del Pappagallo, ma non le importava di lasciarlo lì qualche tempo di troppo in sua attesa. Dopo tutto, era la sposa: poteva permettersi qualche capriccio, il giorno della sua partenza.

Rivolgendosi solo a dame che riteneva seriamente fedeli, spiegò il suo bisogno di rivedere il suo primo figlio, Giovanni, quello che tutti soprannominavano, chi in tono canzonatorio, chi con un'aura di mistero, l'Infante Romano.

Senza darle noia con paternali, né provando a convincerla dell'inopportunità di quel desiderio, arrivato proprio la mattina della sua partenza, coloro ai quali si era rivolta l'accompagnarono subito dalle suore, affinché potesse riabbracciare il suo primogenito, forse per l'ultima volta.

Lasciata all'ingresso del convento da due discreti servi, che avevano fatto anche in modo di condurla fino a lì senza che nessuno si accorgesse di lei, Lucrecia entrò da sola. Passò quasi un'ora e la donna uscì, con gli occhi arrossati e la voce spezzata che le permise di dire solo un incerto 'andiamo'.

 

Nella stanza del Pappagallo. Alessandro VI attendeva, pensieroso. Fino a quel momento non si era mai confrontato davvero con se stesso: l'idea di lasciar partire Lucrecia, la sua perla, la sua unica gioia, per Ferrara, era qualcosa che lo faceva soffrire immensamente. Quando l'aveva data in sposa a Giovanni Sforza, di Pesaro, era stato tutto diverso... Lei era una ragazzina, più facile, per lui, da comandare in caso di bisogno, Pesaro era più facile da raggiungere, nel caso l'avesse voluto, e Giovanni Sforza non era certo Alfonso Este...

Con un sospiro il papa ammise con se stesso che c'era anche un altro motivo, per la sua tristezza inconsolabile. Era vero tutto quello che si era detto fino a quel momento, ma il problema maggiore era che lui stava invecchiando e, con l'andare degli anni, si era fatto molto più sensibile a certi distacchi. Era un dramma, a volte, essere un uomo tanto sentimentale e dal cuore tenero..!

Quando Lucrecia arrivò finalmente al suo cospetto, Rodrigo, con il cuore che scoppiava di commozione e dubbi, le indicò il cuscino posto sul gradino appena sotto al suo trono. La Borja, evitando gli occhi del padre, avanzò, svelta, in modo quasi meccanico, e andò a inginocchiarsi laddove lui indicava.

“Lucrecia...” cominciò a dire il pontefice e poi, prima che potesse evitarlo, una lacrima scese sulla sua guancia e da lì fino al mento, mentre le sue labbra tremavano.

La figlia, che fino a quel momento aveva trattenuto il pianto – pianto indotto dal dolore di lasciare i suoi figli, più che da quello di lasciare il padre – approfittò di quel cedimento di Rodrigo per sciogliersi. L'uomo, convinto che quelle lacrime fossero una risposta alle sue, non si diede freni e si abbandonò a singulti e gemiti, farfugliando confuse parole in valenciano, che andavano a mescolarsi con l'italiano e perfino con il latino.

A entrambi ci vollero parecchi minuti, prima di riuscire a ricomporsi. Orgogliosi come il toro che spiccava sullo stemma della loro famiglia, entrambi si asciugarono il volto e, pur con il naso gonfio e gli occhi che pungevano, iniziarono a scambiarsi le ultime raccomandazioni e confidenze, com'era d'uso in casi del genere.

Per tutto il tempo, però, Lucrecia ascoltò il padre con un solo orecchio e gli parlò a mezza bocca, distratta, assente e già proiettata, suo malgrado, a Ferrara. Era come se, pur non essendo ancora partita fisicamente, quei palazzi dorati di Roma, la cantilena che ricordava la Spagna di suo padre, il profumo dell'aria, sempre pregno di incenso mescolato agli odori di una grande città, le fossero ormai del tutto estranei. Provava, anzi, verso di loro, una sorta di viscerale repulsione che non riusciva a ignorare del tutto.

La patria di San Pietro, in quei ventun anni l'aveva annusata, masticata, inghiottita e ora la stava risputando, lasciandola alla mercé del mondo. Come avrebbe potuto vedere di buon occhio un simile mostro.

E più guardava il papa, più le sembrava che fosse l'immagine perfetta di quel demonio che era Roma e il Vaticano. Le sue guance cadenti, i suoi occhi appesantiti, le sue labbra tumide che inseguivano il suo fiato pesante...

Era passata oltre un'ora quando, come se quella mossa fosse stata accuratamente preparata, Alessandro VI mandò a chiamare Cesare.

Il Valetino arrivò subito. Probabilmente stava aspettando dietro la porta da un po' di tempo. Era vestito come un principe e i suoi occhi fiammeggiavano come due torce nella notte. Non guardò nemmeno il padre, concentrandosi solo ed esclusivamente sulla sorella.

Quasi a voler ricordare proprio a Lucrecia il suo ruolo nel loro mondo, l'importanza della sua provenienza, sia il Duca di Valentinois, sia il Santo Padre parlarono solo in valenciano. Anche quella lingua, però, alla Borja sembrava il delirio di una creatura infernale...

Quando uno dei cubicolari del papa si affacciò sulla porta per dire loro che i ferraresi cominciavano a farsi impazienti, Rodrigo lasciò il suo scranno e, dicendo ancora qualche parola di paterna disperazione per il distacco con la figlia, promettendole di andarla a trovare a Ferrara entro la fine dell'anno, abbracciò con forza Lucrecia e la baciò in fronte, sulle guance e sulle labbra.

Reprimendo un brivido, che andava a sommarsi alla leggera nausea che aveva sviluppato nell'ultima mezz'ora, la giovane lasciò che Rodrigo si congedasse come meglio credeva e poi mosse un passo, quasi a invogliare tutti a seguire il consiglio del cubicolare e affrettare le procedure di partenza.

Invece Cesare la bloccò, afferrandola per entrambe le spalle, con una forza che la spaventò. Come aveva fatto il papa, si apprestò a salutarla, ma invertendo l'ordine dei gesti paterni. Dapprima la baciò in fronte, poi sulle guance e infine sulle labbra, insistendo molto più di quanto la donna si sarebbe aspettata, specie in presenza del padre.

Fatto ciò, il Valentino la strinse a sé, ma lo fece non con il confuso desiderio mostrato da Rodrigo, ma con un impeto violento, quasi minaccioso.

“Ricordati – le sibilò, nell'italiano con la cadenza romanesca che fin da piccoli avevano imparato a usare grazie alla madre e alle bambinaie – che sarai sempre una Borja. Lucrecia Borja.”

“Mi spiace – ribatté lei, cercando, invece, di frenare il suo accento, ma esprimendosi in perfetto italiano, come avrebbe fatto, si giurò, alla corte di suo marito – ma io sono Lucrecia degli Este, adesso.”

Il movimento secco e risentito che fecero entrambi per scansarsi a vicenda attirò lo sguardo curioso del pontefice, che, però, ancora troppo preso dal proprio sconforto, non indagò sul motivo di quell'improvvisa ritrosia da parte di entrambi.

Fratello e sorella, a quel punto, si fissarono in silenzio. Fu un lampo. Entrambi sentirono una fitta allo stomaco, qualcosa di così potente da lasciarli quasi senza fiato. La sensazione che quello avrebbe potuto essere davvero un addio li portò a ricordare l'infanzia, Subiaco, i pomeriggi di sole e giochi, passati all'aperto a ridere e correre, le sere d'inverno, si pioggia e noia passate a chiacchierare davanti a un camino acceso, interrogandosi su cosa sarebbero diventati da grandi...

Mossi da una forza invisibile, si abbracciarono di nuovo, ma questa volta con la purezza e l'ingenuità dei due bambini cresciuti in campagna sotto l'ala affettuosa di Vannozza, senza malizie, senza rancori.

Addolorata dall'aver trovato solo in quel momento il calore del fratello, Lucrecia fu la prima ad allontanarsi e, fredda come anche Cesare a volte sapeva essere, disse: “Ora è tempo che vada. Non posso fare aspettare oltre il mio seguito. Il tempo per i saluti è finito.”

 





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