Lotus

di _Scarecrow_
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Rinasco di petali sgualciti.

Ogni giorno stiro con pazienza le membra di un passato impossibile. Ne osservo la trama fitta di venature cercando di riconoscerne il pattern. Ogni risvolto mi ricorda ciò che sono.
Tessevi col mio gambo il tuo vestito spirituale, sfibrandomi e ammantandoti della grazia divina di un padre che ti aveva rinnegato molte vite fa. Ciò che mi elevava tu lo tagliavi e lo usavi per te, mentre io inconsapevole ti donavo nuove vesti per difenderti dal freddo che avevo dentro.  Pace e ordine erano tutto ciò che chiedevo mentre tentavo disperatamente di assecondare le tue mani che mi schiudevano, portandomi via guarigione e dignità.
Pace, ordine e allineamento. Sogni impossibili di un essere già sconfitto.

Ho perso la mia battaglia nel far prevalere la precisione. Ho inventato regole che non riuscivo a seguire nella speranza di frenare in te l’istinto alla distruzione. Ero io a disgregarmi mentre tu guadagnavi potere, immune al mio canto di cigno, amarezza rassegnata di un domani in cui mi vedevo sola e senza speranza. Col distacco nutrivo la tua ossessione, di cui mi inebriavo tentando di chiamarlo amore quando in realtà era soltanto disprezzo e disperazione, infinita arroganza nel pensare di curarmi con un’iniezione infetta. Ho tremato quando sei tornato, mostrandomi ciò che credevi che volessi. Hai fatto qualsiasi cosa per me, urlandomi in faccia la mia incapacità di apprezzarlo. Hai vissuto tutto ciò che ero stata e a quel punto è diventato reale. Hai guardato il tuo riflesso e ciò che hai visto ti ha tormentato tanto da smembrarti. Hai attraversato il mio dolore, incapace di arrenderti all’incondizionato. Hai preferito dimenticare, trascinando via da te il cadavere di ciò che sai di essere.
Non ricordi?

Profumavo di dolcezza e sogni infranti la prima volta che hai appoggiato gli occhi sui miei, annebbiandoli. Non sapevo fosse odore di cimitero quello che sentivo. Non mi accorgevo di marcire in ogni secondo che passavo a contatto con te, mela già corrotta. Peccato.  
Adesso profumo di foglie e muschio mentre cancello le mie tracce dal bosco in cui mi avevi costretta a perdermi, mentre supplicavo perché le tue briciole mi indicassero la strada. Mi hai fatta girare talmente tanto su me stessa che ho vomitato brandelli di anima. Distratta dal mio affogare non mi rendevo conto che la mano che mi tendevi era un miraggio che mi ero creata attraverso i movimenti confusi della mia realtà improvvisata, così distante dalla ragione.
Sono diventata rossa, poi blu. Le punte delle mie dita erano viola per il freddo e la mancanza di ossigeno.  Finalmente sono riuscita a fermarmi su un punto illuminato di rosa mentre l’acqua intorno a me continuava il suo moto incessante, mostrandomi il fondo. Era più chiaro della mia superficie, così ferita da gorgogliare sangue. Era limpido, come i miei occhi ogni volta che domandavo perché e distoglievo lo sguardo, incapace di affrontare la risposta, preferendo mille menzogne e una carezza che ogni volta diventava uno schiaffo. Chiusa su me stessa accoglievo il mio cuore in quei petali che non eri riuscito a strappare e rigirarti in mano come una macabra marionetta di pelle umana. Al sicuro nel mio scrigno mi donavo riparo e ti allontanavo un passo in più dalla mia essenza. Non c’eri. Non puoi ricordarlo.
 
La mia capacità di non permettere al mondo di sporcarmi mi ha salvata. Non hai potuto toccarmi ma hai fatto in modo di assaporare ogni mia sconfitta, ogni minima parte della mia esistenza rotta. Hai raccolto il mio polline cercando di impedire che prosperassi, ingoiandolo mentre sbavavi ineluttabile. Ma io rinasco, risvegliata da quell’autunno che ho deciso di trasformare in primavera. Mi hai portato via la corona, non il cuore. Ha mangiato tutto di me in una beatitudine fittizia che sapeva delle mie lacrime. Ho pianto tanto sul tuo petto mentre mi accoltellavi il costato, consolandomi attraverso nuovo dolore. Ma tu non ricordi.

Ero la tua memoria esterna. Ero la custode di ciò che esisteva di buono nella nostra vita, mentre tu vivevi la tua senza rimpianti. Ero io a contenere i mali del mondo, Pandora di tutti i tuoi doni. Ero io a guardare le stelle mentre tu mi riempivi le scarpe di cemento. Ero io. Sono sempre stata io a ricordare, mentre tu sceglievi di vivere la leggerezza del vuoto, concentrato sulle funzioni primarie. Ho aperto il vaso e ho lasciato finalmente fluire i pensieri. E tu? Tu sei uno spettro mentre ti guardi con occhi vuoti, riflesso delle acque in cui ti specchi, incapace di alzare la testa. Non ti sei reso conto che, da bravo vampiro, non vedevi il tuo riflesso ma il mio. Non sapevi che il fiore che stavi guardando non era un narciso ma un loto, ben radicato nelle acque fonde della sua disperazione, impossibili per te da sondare. Io, Nemesi, ascolterò il tuo eco suonare nella mia testa l’urlo straziante di un vuoto impossibile da colmare mentre mi allontano, concentrando cuore e respiro sul lento rumore della schiusa, lasciandoti struggere per te stesso mentre la mia voce sussurrerà nei tuoi incubi. Non la ricorderai.

Hai colto il mio frutto, mangiando tutto ciò che ero. Per questo, mentre io ricordo, tu dimentichi.




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