EXARION - Parte II: Eco di Sirene

di KaienPhantomhive
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24.

Ultimatum alla Luna

 

Golgotha.

 

“Venti minuti all’arrivo dell’Arma Finale. Sorpassata l’Esosfera. Schieramenti nemici in vista!”

C’era fermento nella Sala della Guerra della base lunare, tappezzata di megaschermi e arazzi nazisti. Sulla piattaforma sopraelevata al centro della sala, torreggiando sugli addetti alle comunicazioni radio e ai fisici della guerra spaziale, Erwin Albrecht attendeva l’istante in cui dichiarare la fine della Terra, a mani giunte dietro la schiena: “Comunicate all’equipaggio di iniziare la decelerazione e controllo inerziale. Prepararsi a-”

‘ACHTUNG’ rossi riempirono la Sala, sotto il suono di una sirena d’allarme.

“Che succede?”

“Codice 99! Violazione d’area di primo tipo!”

“Un intruso?!”

Alcuni degli schermi di controllo spostarono la visuale dal pianeta blu al suolo lunare e lo sgomento si impossessò dei soldati di Golgotha: in mezzo a nuvole di polvere, si stagliava una sagoma umanoide gigante, chiara e lucente contro il nero dello Spazio.

“Una Machine, qui?!” – l’androide Zwei Stein, in piedi tra il suo team di ingegneri, si raddrizzò i baffi sintetici per paura che potessero cadergli davanti a quella scena – “Che usi una Traccia VRIL basata sulla fotoscomposizione?”

“Devono averci identificato dopo che il cratere del Nidhoggr è stato scoperchiato. Eppure, le avevo esposto i miei dubbi sulla posizione del cantiere.” – lo redarguì Albrecht e il cyborg dovette tacere sull’inefficienza delle sue previsioni di casualità; poi si rivolse alla squadra comunicazioni: “Questa seccatura non può ritardare i piani del Reich. Dite allo Schwarz Ritter che se ne occupi lui.”

 

*   *   *

 

Mare Serenitatis.

 

Zeitland Dietrich sedeva sulla brandina di metallo, in compagnia degli altri due soldati con cui aveva condiviso i tre giorni di quasi ininterrotta veglia dall’avamposto sotterraneo sul Lato Chiaro. La loro paziente attesa di novità dal fronte era stata turbata già da un paio di minuti, dopo che poco rassicuranti tremori avevano fatto vibrare il soffitto e oscillare la lampada al neon che forniva loro una magra illuminazione. Stava iniziando a domandarsi di cosa potesse trattarsi, quando il telefono incassato nella parete squillò, facendolo scattare in piedi.

“Qui Dietrich.” – quello che gli venne annunciato dall’altra parte non gli piacque affatto – “Cosa?!”

 

*   *   *

 

Il gigante si rialzò lentamente, tra la polvere che ancora si levava dalla rottura nel terreno sotto il suo ginocchio, come se vi fosse atterrato da una grande altezza. Un’armatura bianca e lucente adorna di corte frange mobili e intarsiata d’oro sugli spallacci, fiancali, schinieri e calzature; un piccolo scudo circolare d’oro era agganciato al braccio sinistro. Nel silenzio spaziale, le sottili iridi rosse si accesero sotto l’elmo e il riflesso di un Sole distante fece brillare l’Oreikhalkos blu incastonato nella mezzaluna di platino sulla sua fronte.

Si guardò intorno in mezzo ai resti distrutti del cantiere del Nidhoggr, in cerca di un’apertura o un condotto che non fosse ostruito dalle macerie, ma la sua esplorazione trovò fine quando una sezione quadrata di terreno non molto distante rientrò nel sottosuolo e una piana elevatrice portò in superfice un’altra Machine inginocchiata e armata di un enorme scudo rosso.

“E così i terrestri ha deciso di spingersi fin qui?” – disse Zeitland, notando la bandiera della Corea del Sud dipinta sulla spalla destra del nemico senza nome – “Il costo di quest’ultimo affronto ricadrà sui vostri figli.”

Avvertimenti e tentativi di mediazione, che sarebbero stati in ogni caso superflui, furono saltati a piè pari: Fraener scattò in avanti, materializzando la spada dall’elsa a due mani, ma incontrò il filo di una scimitarra d’argento prodotta dal suo avversario. Si allontanarono l’uno dall’altro, prendendo lo slancio per riavvicinarsi ancora, molte volte, lanciando lingue di energia dalle lame. Facendo forza sulle gambe, Fraener caricò un affondo, parato dallo scudo della Machine bianca, e per inerzia finì per inarcarsi del tutto, staccandosi da terra. Saltò, si capovolse, e atterrò ancora sullo scudo con entrambi i piedi; i tacchi acuminati dell’Unità coreana affondarono nel terreno. Ancora una volta, Fraener si rispinse all’indietro, riatterrò e saltò ancora, preparandosi a un nuovo colpo in caduta libera. Il suo nemico fece appena in tempo a scansarsi, mente la punta della spada andò a conficcarsi nel terreno, con un’onda d’urto tanto irruenta da gonfiarlo e fratturarlo in una caterva di cubi di regolite lunare. Tra i detriti ancora sospesi nella gravità ridotta, l’occhio della Machine nazista era un diamante blu che splendeva di una luce senza pietà. Risalì rapido oltre i blocchi di pietra, librandosi in aria. La Machine sconosciuta aprì i palmi delle mani e cinque fili di luce dorata, come righe di un pentagramma, fuoriuscirono da essi, avvolgendosi intorno a due macigni ancora sospesi e, torcendo il corpo sotto l’immane sforzo, glieli scaraventò contro. Fraener riuscì a deviare il primo con un calcio, ma il secondo lo colse impreparato, schiantandolo a terra con veemenza. Approfittando del ribaltamento degli eventi, la Machine bianca passò all’attacco: tracciò netti tagli di luce nel vuoto che avrebbero dovuto essere intangibili, ma che un ultimo gesto della spada fece allontanare verso il bersaglio; Fraener si coprì con lo scudo, uscendone inciso di solchi incandescenti. Lo abbassò quel tanto sufficiente da accorgersi che il suo nemico aveva ora indirizzato il braccio sinistro verso di lui e il piccolo scudo circolare andava aprendosi in un intrico di piastre e meccanismi, snodandosi e trasformandolo in due bracci flettenti uniti insieme da un filo di luce: un arco. Formò un angolo retto con l’indice e il pollice sinistro, tese indietro la corda con la mano destra e una freccia di VRIL prese forma dal nulla, surriscaldandosi fino a emettere un chiarore lattescente; la scoccò e il dardo attraversò in un soffio la piana bianca.

I riflessi di Zeitland Dietrich, amplificati dalla forza sovrumana dell’Unità, gli permisero di schivare di striscio la freccia, che si perse molto al didietro di lui. Un lampo cruciforme anticipò l’esplosione a cupola che avrebbe scavato l’ennesimo cratere. Fraener si avvitò in aria, oltrepassando il nemico e riatterrando pesantemente a un paio di centinaia di metri. Si voltò indietro e protese il braccio destro, agglomerando una sfera di VRIL rosso al centro della mano, che degenerò in un raggio di energia. Il gigante senza nome, che ora correva verso di lui, si staccò dal suolo e inarcò il corpo con una destrezza ed eleganza che Zeitland non avrebbe creduto possibili, lasciando che il raggio gli scorresse al di sotto, sfregiando la Luna con un solco chilometrico.

Dietrich ansimava, con tutto il corpo a ricordargli quanto faticoso fosse sincronizzarsi con quell’essere. Era troppo stanco, troppo sovraeccitato: se il suo nemico era provato almeno la metà di quanto lo era lui, allora lo nascondeva bene. Lo vide preparare nuovamente l’arco di energia e scoccare una freccia: si preparò mentalmente a riceverla, ma il contatto non avvenne. Al contrario, la freccia svanì a pochi centimetri dalla faccia di Fraener. Ebbe a mala pena il tempo di chiedersi cosa fosse successo, che un varco iridescente si aprì alle spalle della Machine bianca, riversando contro di lui una pioggia di frecce di VRIL. Le punte trapassarono l’armatura di Fraener da parte a parte come aghi su un pezzo di carne morta, l’impeto fu tale da inchiodarlo al suolo. Le frecce si smaterializzarono in polvere di luce, lasciando solo una miriade di fori lungo tutto il corpo dell’Unità, spillanti fiotti di sangue.

Petali rossi si formarono nella gravità ridotta.

Zeitland urlò, sentendo fascicolare ogni muscolo del suo corpo, cosparso di punti rossi dove i recettori del dolore venivano traumatizzati dal sistema di interfaccia dualistico. Lentamente, la Machine intrusa prese la mira per un’ultima volta: stava puntando al torace, alla Camera di Flamel. Poteva già dirsi un miracolo (della peggior specie) che il pilota nazista fosse sopravvissuto all’attacco precedente, quindi adesso avrebbe dovuto assicurarsi di finire il lavoro. Incoccò una terza freccia e fu quasi per rilasciare la corda, quando una schermaglia di spade sopraggiunse come una scarica di proiettili, piantandosi ai suoi piedi. Si voltò alla sua sinistra e scorse un altro gigante, in armatura azzurra interrotta solo da una sutura di ferro scuro all’altezza della spalla sinistra, emergere da un condotto sotterraneo in prossimità del cantiere distrutto.

 

I sensi stavano rapidamente abbandonando Zeitland Dietrich. La vista si appannava e i sistemi di guida di Fraener sembravano fiammelle tremule, indeboliti dalla sua coscienza che andava perdendosi. Hydraggsjl e il suo nemico erano ridotti a ombre colorate, che danzavano confusamente davanti ai suoi occhi.

Sto per essere sconfitto di nuovo? Dopo tutto gli sforzi, non sono ancora degno di pilotare Fraener?

Il suo cervello ripescava ricordi visivi e sensoriali del suo primo scontro, sulle rive del lago Baksheevo: il dolore di un braccio strappato, l’umiliazione di sentirsi inerme, sopraffatto, dalla sua nemica, da una donna. Il sangue trovò la forza per ribollirgli nelle vene, il desiderio di rivalsa si unì e superò quello di sopravvivenza.

No! Io ho una missione!

Le sue pupille combattevano strenuamente per mettere a fuoco il profilo della Terra, oltre l’orizzonte lunare. Allungò una mano, quasi volesse afferrarla, e il proiettore della sua mente inserì diapositive di ricordi da un tempo che non riusciva a definire. Pellicole logore che scorrevano sui piatti di una moviola immaginaria, tra la pioggia d’autunno che cadeva sul suo viso nel grigiore di palazzi di una città di cui non conosceva il nome, il profumo della nebbia che si levava da foreste sconfinate e gli occhi azzurri di una ragazza dai capelli porporini – la pilota della Machine nera – in un assolato campo di granturco e poi sempre lei e la sua schiena nuda in una notte stellata. Immaginò di poter chiudere in un pugno la Terra, di poter chiudere in un pugno quelle immagini, e pensò: Io voglio…tornare su quel pianeta!

 

Fu una forza primordiale quella che gli sbarrò gli occhi e mutò le sue iridi in qualcosa di più animalesco, più alieno. Il gigante rosso si levò a sedere e poi a carponi. Artigliò la terra e si erse a fatica sulle braccia e gambe sanguinanti. Gli schermi della Flamb-er si tinsero di rosso e rune indecifrabili.

“Non perderò ancora contro un altro Meister!”

La placca rossa sulla mascella inferiore di Fraener si schiuse, forzandone la morsa e scoprendo una sfilza di zanne acuminate che facevano da letto a una lingua biforcuta. Il Drago dei Nibelunghi gettò la testa all’indietro, ingrossò la gola e ruggì di un ruggito non di questo mondo. Così forte, così antico, da rendersi udibile anche in assenza d’aria, richiamando l’attenzione degIi altri due piloti. Incurvò il torso, estroflettendo le code bioniche dalla spina dorsale, e le piantò nel terreno. Un cerchio alchemico rosso si allargò sotto i piedi delle Machine, la crosta lunare esplose, e le code di Fraener fuoriuscirono triplicate. Hydraggsjl rotolò su un fianco, per evitare di essere travolto, e l’Unità bianca si schivò e mozzò code metalliche finché una più rapida delle altre non gli strappò la spada di mano.

 

“Il tasso di sincronizzazione con la Machine è triplicato! Oscillazioni quantiche nella struttura dell’Oreikhalkos!” – esclamarono gli ingegneri del Reich nella Sala della Guerra, dall’altro capo del pianeta. Diagrammi di distorsione spazio-temporale segnavano deboli influenze provenire dalla sWARd Machine.

“Che sta succedendo, Herr Doktor?” – chiese Albrecht.

I simulatori emotivi di Zwei Stein non erano abbastanza progrediti da poter riprodurre un’espressione facciale che potesse esprimere a pieno il misto di estasi, stupore e paura che quella nuova mutazione gli causava, e finirono per incastrargli i muscoli sintetici in una smorfia accartocciata: “Il livello di Libido è salito oltre il tasso di stabilità! Sta riscrivendo il codice binario del Limitatore di Oreikhalkos, per portarlo a un nuovo stadio evolutivo! Zweite Phase! Dunque, Fraener non era il Deva del fuoco? Questa Traccia…che sia…?”

 

Fraener correva, gli artigli sfoderati e le fauci spalancate schiumanti saliva: se qualche parvenza di umanità era mai stata infusa in quell’essere, ora era stata spazzata via. Un altro grido, fuso a quello del suo pilota, fece accadere l’impossibile: uno spostamento d’aria che non c’era, una curvatura nel tessuto stesso dello Spazio, una bolla di nulla che dal centro del suo corpo si espanse tutt’intorno, senza confini, fino al punto che dire se fosse limitata al campo di battaglia o all’interno Universo sarebbe stato impossibile. Polvere e detriti si fermarono prima di cadere al suolo, Hydraggsjl e l’Unità della Corea restarono congelati nell’attimo in cui vennero colti, i contorni delle loro figure sfocati. Il mondo si fermò in un’istantanea rubata.

Solo Fraener, preda di una frenesia che non ammetteva raziocinio, raggiunse il suo nemico, afferrandolo per la gola e sollevandolo da terra. La bolla di Tempo si riassorbì all’interno del suo palmo e ogni cosa ripartì: i detriti ricaddero a terra, il cuore di Màrino Alto tornò a battere e il peso della Machine afferrata per il collo si fece sentire lungo il braccio di Fraener prima e di Dietrich poi. Uno ghigno trionfante si dipinse sulla bocca del Cavaliere Nero, alla vista del rivestimento della trachea nemica che scricchiolava sotto le sue dita. Nella mano sinistra preparò un nuovo globulo di VRIL scarlatto – una tonalità di nero aveva iniziato a tingerlo – pronto a vaporizzarlo. Ma quando fu sul punto di mirare alla testa, la Machine bianca si slacciò: fibre e atomi si scomposero in pentagrammi di luce dorata e tutto il corpo, dalla testa ai piedi, si smaterializzò davanti agli occhi suoi e degli increduli soldati alla base. Con velocità appena inferiore a quella dei fotoni di cui sembravano essere composti, i fili di luce si retrassero in direzione della Terra, scomparendo alla vista.

 

Il furore abbandonò gli occhi di Zeitland e l’umanità gli rifluì in corpo. Anche Fraener si abbandonò a terra, sorreggendosi tremante su una delle spade abbandonate da Hydraggsjil.

“Ce l’ho fatta.” – questo fu l’unico pensiero ad attraversare la mente esausta dell’Oberstleutenant Dietrich, prima di perdere del tutto coscienza – “Posso ancora sperare…di tornare…sulla T-”

Fu il buio.

 

*   *   *

 

Golgotha.

 

La Siren Al’ya si accasciò sul pavimento di marmo della camera privata del Mond Kaiser, trapassata da una fitta allo sterno che le tolse il respiro.

“È accaduto.” – boccheggiò – “Il Deva Fraener…”

Il Kaiser, privo della sua maschera, le si avvicinò e scoprì i denti: “Lo hai avvertito, non è così? Il vero potere di una Divinità!”

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Bastò uno squillo perché il Capitano McCoy afferrasse il telefono incassato sul tavolo del ponte di comando dell’Eleanor Rigby.

“Si?” – ascoltò ciò che il tizio dall’altra parte della cornetta aveva da dirle e finì con l’accigliarsi più di quanto già non fosse – “Ho capito. Grazie comunque.”

Riagganciò.

“Novità?” – chiese Rajesh.

“Il piano dei Coreani è fallito. La Nang si è ritirata.”

“Capitano, il nemico è a meno di tre chilometri da noi!” – l’avvisò la caposquadra dell’ISS, visibilmente in ansia – “Che cosa facciamo?”

Non era necessaria telepatia o capacità divinatorie, per attendersi ragionevolmente che i pensieri di Andrea McCoy e dell’Oberst-Gruppenführer Albrecht potessero essere i medesimi, quando dichiararono: “Cominciare l’attacco.”

 

*   *   *

 

Stratosfera terrestre.

 

Lenti rosse si aprirono su tutti i satelliti anti-meteorite in orbita, sparando laser in linea retta verso l’abominio meccanico del Reich, incidendo tatuaggi di guerra incandescenti sulla sua corazza mentre continuava ad avanzare. La prima decina di satelliti aprì i container laterali, espellendo una pioggia di missili in tutte le direzioni, ma torrette mitragliatrici manovrate dall’interno si sollevarono dalla parte circolare del corpo del Nidhoggr, abbattendone metà prima che potessero toccarlo. Quelli che riuscirono ad andare assegno non arrecarono danni visibili.

 

Annette Martin e il suo equipaggio osservavano impotenti dall’ISS la marcia inarrestabile: “Le armi non sortiscono alcun effetto! L’obiettivo non accenna a rallentare!”

“Continuate a insistere.” – era l’unica soluzione proposta dalla Terra – “Dobbiamo guadagnare tempo per gli EOBM.”

 

I satelliti della Space X scaricavano granate deframmentanti a ruota libera: esplosivi che avrebbero dovuto ridurre in briciole interi meteoriti non erano più efficaci di una manciata di bombe a mano contro una montagna. I quattro artiglieri del Nidhoggr risposero al fuoco con proiettili all’uranio impoverito, riuscendo a far fuori metà dei satelliti.

 

“La prima linea di difesa è stata sfondata!” – esclamarono sul ponte dell’Eleanor.

“Passare ai droni a ricerca automatica!”

 

Due moduli a silo ai lati della Stazione Spaziale Internazionale spalancarono i boccaporti e uno sciame di trenta droni bianchi quadrimotore, grandi come elicotteri militari, si disperse tutto intorno e superò la muraglia di satelliti ancora attivi. Cinque caddero in volo quasi immediatamente, ma i superstiti raggiunsero l’obiettivo, ronzando e sfrecciando a gruppi di dieci in anelli e catene suggeriti dall’intelligenza artificiale che li comandava come un’unica mente. Chiunque li avesse progettati doveva aver ritenuto che i mitragliatori dei quali erano provvisti sarebbero stati sufficienti a polverizzare i residui di meteorite deframmentati, ma le migliaia di strati di corazza del Nidhoggr erano un’eventualità non considerata e con contro cui ora i droni andavano scontrandosi piuttosto letteralmente, come moscerini su un parabrezza che continuava, imperterrito, ad avanzare senza sosta. A nulla servì nemmeno che i satelliti restanti si schierassero a scudo della Stazione Spaziale, su cui l’ombra colossale ormai incombeva, prima di finire travolti.

La speranza abbandonò gli animi dell’equipaggio dell’ISS, spingendo alcuni di loro a gettarsi verso le capsule di salvataggio e riducendo gli altri in lacrime. Annette Martin poté solo restare paralizzata, inerme, davanti alla finestra oltre la quale nemmeno le stelle erano più visibili, oscurate da una Svastica incisa nel metallo.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Gli indicatori dei droni e satelliti sulla mappa dell’Eleanor Rigby si spegnevano una dopo l’altro, sostituiti da X rosse.

“Caduta anche la seconda linea! L’ISS è rimasta scoperta!”

“Obiettivo in rotta di collisione!

“ISS, abortire missione!” – fu la sua parte irrazionale a spingere Andrea McCoy a gridare l’ennesimo ordine, ignorando quella razionale che sapeva già quanto fosse fiato sprecato – “Abbandonate la Sta-!”

“Non si ferma! Il nemico non rallenta!” – il grido disperato di Annette Martin gelò il sangue nelle vene di tutti, le sue urla distorte dalle interferenze radio – “Oh Dieu! Oh mon Dieu, il vient sur nous! Aide! A-aaaaaaaah![1]

Urla e strepiti del resto dell’equipaggio, rumori metallici e di vetri infranti si sovrapposero a quelle della donna, prima di essere troncati da un crepitio di staticità. Una muta X rossa prese il posto dell’ISS sullo schermo principale, sotto gli occhi sgomenti di tutti.

“Perso il contatto con la Stazione! L’obiettivo è quasi nella Mesosfera!”

L’istinto di sopravvivenza del Capitano McCoy riuscì ancora ad impedirle di perdere il senno, stringendo salde le redini del comando: “Quanto manca agli EOBM?!”

“Venti secondi all’impatto della Prima Ondata!”

 

*   *   *

 

Spazio.

 

La canna del cannone gravitonico, poi la piccola testa e infine il torso scheletrico e ricurvo del Nidhoggr emersero tra rottami in fiamme e brandelli di corpi umani, avanzando tra gli stracci di fumo e scintille che morivano in fretta nel vuoto spaziale. Davanti ad esso, contro la sfera blu notte della Terra, i primi cinquantuno Missili Balistici Extra-Orbitali delle Nazioni Unite erano in arrivo, seguiti da interminabili scie di fumo denso, formando un semicerchio intorno al loro bersaglio.

Il Leviatano lunare sollevò la testa e, in mezzo agli altri quattro sensori ottici, una quinta lente rossa si accese al centro della faccia. Un laser si allungò nel buio e, come un compasso mortale, tracciò un rapido anello intorno a sé. I missili rallentarono fin quasi a fermarsi. Cinquantuno sorde esplosioni sferiche presero il loro posto.

Poche decine di chilometri più indietro, altre trentatré testate nucleari si profilavano sulla linea di curvatura della Terra: non sarebbero arrivate prima di altri cinque minuti abbondanti.

La lente sulla fronte del Nidhoggr rilucette ancora una volta e il raggio si estese a perdita d’occhio, spazzando l’orizzonte da Ovest ad Est. Sfere di fuoco biancheggiarono in lontananza.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

“Terza e quarta linea di difesa sfondate! Tutti i Missili sono stati neutralizzati!”

“Le armi più potenti del pianeta…spazzate via così?” – sudore scorse lungo il collo Rajesh Khurana e le dita si fecero fredde. Nemmeno Ekaterina poté nascondere ulteriormente il sacro timore che le strisciava in corpo: “Ci troviamo davanti a un demonio che ha la forma di una Machine.”

I commenti si affollavano sul ponte di comando e rimbombavano nel cervello sovraccarico di stress del Capitano McCoy e che iniziava a rendersi conto che nient’altro sulla faccia della Terra avrebbe mai potuto chiudere in loro favore quella battaglia. A parte forse…

“Ormai possiamo affidarci soltanto a loro.”

 

[1] Dal Francese; lett. “Oh Dio! Oh mio Dio, ci viene addosso! Aiuto!”





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