Purché finisca bene

di Shily
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Chi ben comincia è a metà dell'opera

"Sono esausto," commentò Jared, un mio collega di lavoro, e sistemò gli ultimi fogli. "E stasera è anche il compleanno di mia nipote."
In risposta abbozzai un sorriso cortese e infilai la giacca velocemente, desideroso di andare a casa, buttarmi sotto una doccia e non uscirne più.
Di settimane lunghe, interminabili e stancanti ne abbiamo?
Io sì, a bizzeffe.
"Se me l'avessero detto a vent'anni," intervenne un altro, comprensivo, "Non mi sarei mica sposato."
Era uno dei collaboratori importanti dello studio ma io, troppo impegnato a inseguire una laurea e mantenere una parvenza di vita sociale, non gli avevo mai dato troppa importanza: un certo Aaron qualcosa, intorno alla cinquantina e sulla via della perdita di capelli.
A essere onesto e forse anche un po' cattivo, non capivo proprio cosa avesse da lamentarsi nell'essersi riuscito a sposarsi egocentrico e borioso com'era.
Ma, ehi, io l'avevo detto da subito che quello dell'architettura era un mondo competitivo e pieno di testosterone, a volte non ne potevo più neanche io.
Quasi fosse una gara su chi la faceva più lunga. Prima tappa e avevi il lavoro, seconda e i colleghi anziani ti salutavano. Terza avevi una promozione, quarta diventavi l'ombra di te stesso fino all'ultima tappa in cui ti trasformavano in una macchietta di quello che eri.
Diventavi un Aaron qualsiasi, ti lamentavi delle feste in famiglia e ti pentivi di esserti spostato.
Che, per carità, io neanche ero favorevole al matrimonio ma da lì a passare anni della mia vita affianco a una persona per rinnegarla durante il lavoro ne passava di acqua sotto i ponti.
E va be, avevo già capito l'andazzo di quella serata. Mi sentivo polemico fin sotto la sulla delle scarpe.
"Beato te," continuò Jared e mi strinse una spalla. "Hai ancora tutta la vita davanti.
Se solo sapesse tutta l'invettiva che avevo appena fatto contro di lui. Lui, Aaron... Era proprio il sistema che era sbagliato.
Sì, va be. Meglio tornare a casa.
"E nessuna moglie che ti aspetta," continuò Aaron pensando di essere divertente. "Dí la verità, hai una fila di ragazze fino alla porta di casa."
"Già," mormorai, incapace di fingermi complice e cercando di non irrigidirmi sotto i loro occhi attenti.
A volte mi mancava il diciassettenne che ero stato, pronto a far valere le proprie idee contro tutti. A urlare, sbattere piedi e pugni per far sentire la propria voce perché cazzo sì se avevo qualcosa da dire. Ma ero cresciuto, di pensieri ne avevo ancora tanti ma di consapevolezza anche di più: crescere comportava scendere a compromessi e darsi qualche pizzico di tanto in tanto.
La risata di Aaron qualcosa mi arrivò alle orecchie grassa e prepotente e chiusi gli occhi.
Ero stanco di darmi pizzichi, per quella sera avevo finito.
Con un'occhiata veloce al polso controllai l'orario, desideroso di smettere i panni del neo architetto e sbottonarmi il colletto della camicia.
Quasi preferivo le giornate in cantiere rispetto a una lunga e noiosa giornata dietro una scrivania.
Leviamo pure il quasi. Le preferivo nettamente.
"Adams," chiamò una voce dal corridoio, alla quale seguí qualche attimo dopo una testa. "C'è una ragazza di sotto che chiede di te."
"Di me?" chiesi stranito, "Sei sicuro, Johnson? Ma per caso è una ragazza un po' bassa con i capelli corti e mossi?" portai una mano al petto, rappresentativo dell'altezza di mia sorella.
Johnson scosse la testa. "Bionda e con gli occhiali. Mi ha chiesto se lavoravi qui. Dovevo dire di no?"
Annabeth, realizzai sorpreso, ma subito lo sconcerto fu sostituito dalla preoccupazione.
Che qualcuno avesse scoperto cos'era successo? Sarebbe stato il finale perfetto di una settimana di per sé disastrosa.
E visto che nella vita mai nulla accadeva per caso, col tempo avevo capito che le sfighe - quando potevano, cioè sempre - cercavano sempre di accumularsi.
"No, tranquillo. È un amica," ringraziai e mi avvicinai alla porta. "Buona serata a tutti."
Feci giusto in tempo a sentire una battuta sulle belle ragazze che ti aspettavano a fine giornata e mi precipitai per le scale.
Abbassai la maniglia, quasi mi buttai il portone addosso e inspira l'aria fredda di fine gennaio.
Annabeth era lì che mi aspettava, aveva riconosciuto la mia moto e vi si era appoggiata nell'attesa. Alla sua vista, in barba ai miei consolidati ventisei anni, sentii venir meno tutta la sicurezza di cui mi ero sempre vantato. Mi avvicinai a lei con indecisione mentre immagini della notte trascorsa insieme mi scorrevano davanti, vorticandomi davanti agli occhi.
"James," si alzò dal sellino e mi venne incontro, nascondendo le mani nelle tasche della giacca. "Spero non ti abbia dato fastidio che mi sia seduta."
"Non preoccuparti," la rassicurai e abbozzai, indeciso su come salutarla. "È successo qualcosa?"
"No, tranquillo. Anzi, scusami l'improvvisata, ma l'altro giorno ti ho sentire dire che oggi lavoravi in studio e così ero sicura di trovarti.."
Accidenti, che memoria! Io a stento ricordavo cosa mangiavo la mattina per colazione... A proposito, cereali senza latte perché Leanne l'aveva finito, giusto?
Annabeth dovette interpretare male il mio silenzio e fece una smorfia  "Con questo non voglio assolutamente dire che ti seguo, spio o altre cose da psicopatica."
"Menomale," mi finsi sollevato. "Sarebbe stato da spiegare una stalker."
"Intendi ammettere che sei andato a letto con una psyco o che la suddetta è la migliore amica di tua sorella?"
Tuochè. Sorrisi e Annabeth mi imitò, attirando la mia attenzione sulle simpatiche fossette ai lati delle guance.
Annabeth si avvicinò e mi porse una busta.
"Hai lasciato questa da me e ho pensato di restituirla lontano da domande indiscrete."
Abbassai lo sguardo verso la bustina che mi porgeva e allungai la mano.  "Grazie, non ci avevo proprio fatto caso.
Potevi chiamare, sarei venuto io."
"Non è stato un problema," si passò i capelli da un lato, cominciando a passarci le mani. "Ho staccato da poco dal lavoro e ne ho approfittato."
"Se è così allora..." abbozzai un sorriso. "Hai già come tornare a casa o posso accompagnarti per sdebitarmi?"
"Non preoccuparti, non serve. Faccio una passeggiata."
"Sei sicura?" feci un passo verso di lei e mi guardai intorno, le strade erano quasi deserte. "Sono quasi le otto e si gela."
Subito dopo tornai indietro di due, dubbioso su come comportarmi dopo quello che era successo. E dopo che avevo scoperto tutti le deliziose lentiggini che aveva sul corpo, ricordai dolorosamente.
"È tardi," mi fece notare, "E tu devi fare quasi un'ora di viaggio."
Alzai gli occhi al cielo perché, sinceramente, io i finti complimenti li avevo sempre trovati inutili. Con lei poi, che ci conoscevamo da dieci anni e ci eravamo persino visti nudi, mi sembrava alquanto eccessivo oltre che fuori luogo.
Scossi la testa e tirai fuori le chiavi. "Non dirlo neanche, non ci metto niente ad arrivare a casa tua e lo sai. Quindi non farmi insistete e sali su."
Passai una gamba dall'altra parte della moto e vi salii sopra, facendola scendere dal cavalletto. Vidi Annabeth mordersi il labbro inferiore e guardarmi incerta, prima di avvicinarsi e issarsi sul sellino.
Nel frattempo mi immaginai la scena di me che scendevo dalla moto, le afferravo il viso e la baciavo come sognavo da giorni.
Perché, se dovevo essere sincero, Annabeth baciava da orgasmo.
Misi in moto e percepii le sue dita che mi sfioravano lo stomaco, delicate ma allo stesso tempo sicure.
Un po' com'era Annabeth stessa e come avevo imparato a capire in quegli anni, solo che di tempo ce n'era voluto anche troppo: vedendola la prima volta, così piccola e indifesa, avevo pensato che si sarebbe potuta spezzare con un soffio di vento, poi invece apriva la bocca, o semplicemente ti guardava, e ti ribaltava dal profondo. Una sola parola e riusciva a smuoverti dentro, cambiandoti anche le convinzioni più radicate.
Con le parole ci giocava, le faceva sue senza difficoltà, però era con gli occhi che ti dava il colpo deciso. Ti annichiliva, uno sguardo ed eri ai suoi piedi. Un po' come quando, anni prima, aveva sgridato Noah e me per essere eccessivamente apprensivi con Leanne senza il minimo imbarazzo.
E ci tenevo a precisare che, a farmi parlare, non era la nuova veste in cui l'avevo vista qualche sera prima. O per meglio dire, la non veste.
Semplicemente Annabeth era così: ti calamitava con una semplicità disarmante. Entrava in una stanza e non potevi fare a meno di voltarti perché emanava sicurezza, carisma. E forse il naso aveva una gobetta non necessaria - oltre che invisibile - e gli occhiali le coprivano tre quarti del viso, ma lei entrava e tu eri attirato.
Virai verso destra con il manubrio e individuai alla fine della strada il palazzo in cui abitava la ragazza. Il suo respiro mi solleticava la nuca, provocandomi la pelle d'oca fin giù alle scapole, e la vicinanza del suo corpo mi destabilizzava più di quanto ero disposto ad ammettere.
Erano queste le conseguenze di quasi nove mesi di astinenza?
Non la vedevo da due giorni, precisamente da quando quel segreto ci aveva uniti, e nonostante i rimorsi e la consapevolezza che fosse stato un grande errore non ero più riuscito a togliermela dalla testa.
Ogni attimo di quella sera era vivido nei miei ricordi - e a volte anche nei pantaloni, con non poco imbarazzo da parte mia - e sembrava non volermi dare tregua.
"Grazie, James," fece Annabeth e arrestai la moto per farla scendere. "Mi hai evitato un quarto d'ora di camminata."
"Dovere," mi strinsi nelle spalle e la salutai, rimanendo a guardare la sua schiena che si allontanava.
Con un sospiro mi sistemai meglio sul sellino, progettando una lunga doccia fredda e aggiustando la busta posizionata tra le mie gambe. Aprii le due estremità con le dita, stringendo gli occhi alla vista del suo contenuto.
Tirai fuori il pezzo di stoffa, riconoscendo una sciarpa verde bottiglia, e aggrottai le sopracciglia.
Ci vollero almeno due minuti affinché ricollegassi tutto e ogni puntino andasse al proprio posto. Con l'espressione di chi nella vita non ha mai capito nulla, mi alzai dalla moto di tutta fretta e le misi il cavalletto.
Io non aveva una sciarpa quella sera.
Ignorando il buonsenso che mi  gridava a gran voce di tornare indietro, fingere che la sciarpa fosse mia e dimenticare tutta quella storia, mi precipitai al portone del palazzo. Portai le mani a coppa intorno agli occhi, cercando di vedere attraverso il vetro del portone e sbattei il naso per la foga. Suonai il citofono e, contemporaneamente, bussai con un pugno.
Da qualche parte doveva pur rispondermi.
Qualche secondo dopo Annabeth era di fronte a me, con il portone ancora semi aperto e gli occhi spalancati. Mi guardava sorpresa ed era in procinto di dirmi che qualcosa, ma io fui più veloce.
Le misi una mano dietro la nuca e, spingendola contro la porta, la baciai lasciando che le mie narici venissero avvolte da quel bizzarro odore di fragola che portava con sé.
La risposta fu immediata e schiuse le labbra, aggrappandosi alle mie spalle e intrecciando le nostre lingue.
E mentre l'altra sera avevo potuto addossare la colpa alle troppe birre, questa volta non avevo alcuna traccia di alcol in corpo.
Era sobrio e consapevole di ciò che stavo facendo ma nonostante ciò la spinsi l'indietro, seguendola e facendo aderire i nostri corpi.
"La sciarpa non è mia," mi staccai dalle sue labbra e respirai, cercando di riprendere fiato e calmare il battito accelerato. "Non l'avevo quella sera.."
"Ah," Annabeth boccheggiò e si passò una mano tra i capelli. "Mi spiace... Devo essermi sbagliato, l'altra sera è venuto questo amico della mia coinquilina per  prendere un libro e..."
"Possibile, sì..." la interruppi e mi passai una mano tra i capelli. "Che dici... vuoi invitarmi a salire?"
"Tu... Ti va di salire?" chiese allora lei, seguendo il ritmo di quella strana e improvvisata conversazione.
"Con molto piacere," mi chiusi lentamente il portone alle spalle e la seguii fino al l'ascensore.
Sentivo il respiro accelerato di Annabeth vicino a me, mentre si sporgeva a premere il pulsante. Seguii la linea delle sue spalle coperte dal pesante cappotto, le onde leggere dei capelli e chiusi gli occhi.
Inavvertitamente cominciai a regolare il respiro seguendo il suo ritmo e, un'istante dopo, il vecchio ascensore del palazzo partì e le nostre mani si toccarono.
Trasalii.
Stavo salendo a casa sua? Sí.
Avremmo fatto sesso di nuovo? C'erano buone speranze.
Era un errore? Sotto ogni aspetto.
Ma, come mi ero reso conto nel momento in cui ero entrato nell'abitacolo, era proprio quello che volevo. Avevo passato due giorni a ripensare interamente e ininterrottamente a tutto ciò che avevamo fatto. A un certo punto, poi, non avevo trovato più nessun ricordo che non avessi già ispezionato in precedenza ed era stato inevitabile cominciare a pensare a tutto ciò che avremmo potuto fare ancora.
E se era sbagliato anche solo pensarla e ricordare quella notte io proprio non lo sapevo, ma era stata una cosa oltre la mia volontà. Un desiderio quasi istintivo, naturale e animale che si era incastrato tra i gemiti di Annabeth, sotto il calore della sua pelle.
Poi era stato un istante, quella sera, tra il momento in cui mi aveva salutato e quello in cui avevo visto la sciarpa, avevo capito che non me ne importava proprio nulla. Eravamo entrambi grandi, maturi e consapevoli delle nostre decisioni, inoltre lei non era più la ragazzina che per ogni festa comandata correva a casa nostra nelle vesti della migliore amica di mia sorella.
A essere sinceri, più la guardavo mentre l'ascensore scorreva lentamente ogni piano e meno riconoscevo in lei la bambina che era stata.
Annabeth era diventata consapevole di sé stessa, come mi aveva ampiamente dimostrato qualche sera prima. E sebbene faticassi ad associarla alla ragazzina con i codini e le troppe lentiggini, era diventata una donna dalla quale ero tremendamente attratto.
E il sesso con lei era stato pazzesco, quindi perché non ripetere?
Giacché ero sempre stato famoso per essere colui che prima agiva e solo poi rifletteva, ritenevo fosse giunto il momento di abbracciare quella mia tendenza con più consapevolezza. Annabeth chiaramente era parte di quel processo.
"È il settimo piano," mormorò lei e mi lanciò un'occhiata. "Ancora un po' e ci siamo. Dicono sempre di volerlo cambiare con uno più veloce e moderno ma alla fine non lo fanno mai."
"Lo so," replicai con voce bassa e mi posizionai alle sue spalle. "Nel caso io conosco un ottimo architetto che potrebbe aiutarvi nella restaurazione."
Trattenne il respiro. "Lo farò presente al condominio."
Le sfiorai i capelli con la punta del naso, proseguendo lungo la linea dell'orecchio e raggiungendo infine il collo nudo e bianco. La sentì inspirare e si lasciò andare contro il mio petto, abbandonandosi nelle mie mani.
Senza timori si era fidata a me, appoggiandosi al mio corpo senza lasciare spazio all'estrazione.
Annabeth, avevo scoperto, era terribilmente istintiva. Ed era un gran bene visto che ero sempre stato convinto che il sesso si componesse in gran parte di istinto e fiducia.
In sé stessi e nell'altro. Nel coraggio di lasciarsi andare e farsi guidare, nell'ammettere cosa si vuole e cosa no. 

 
🍓
 


Ve lo aspettavate?
Annabeth era come pensavate?
Istintiva, passionale, di quelle che si buttano a capofitto nelle cose per pensarci solo nel dopo.
Molto più simile a James di quanto avremmo mai immaginato.
Arrivando a noi:
Che ne pensate di questo James? A tratti sempre immaturo, a tratti no perché segnato da... Da cosa?
Idee cosa possa essere il 'fattaccio' a cui si faceva riferimento nel primo capitolo?
Ma soprattutto... Abbiamo finalmente scoperto questa fragola cosa significa.




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