NOTE:
una nota rapidissima prima di lasciarvi alla lettura.
Come si può intuire anche dal titolo, questo capitolo è una versione ampliata e
“contestualizzata” di un’altra shot che ho scritto, appunto “Confine sfumato”. È
possibile che l’abbiate già letta, ma vi suggerisco di leggere comunque il
capitolo in quanto aggiunge diverse cose. Passo e chiudo, era solo per spiegare
la ragione di un eventuale déjà-vu J
11. Confine sfumato
Non
stavo più nella pelle.
Erano le sei del pomeriggio dell’undici
agosto duemilauno e il tempo sembrava non passare mai.
Avevo fatto una puntata al centro
commerciale per fare un po’ di spesa e avevo raccattato qualche cibo precotto
dall’aspetto gradevole. L’augurio era che il cibo fosse il nostro ultimo
pensiero, ma dovevo far fronte a ogni evenienza. Così mi ero ritrovato a
sistemare nel congelatore una sfoglia ripiena di prosciutto e formaggio, che,
dalla presentazione, sembrava proprio appetitosa; avevo poi schiaffato nella
dispensa un barattolo di fagiolini pronti, da aprire nel caso in cui le
patatine fossero sembrate troppo poco salutari. Avevo preso il pacchetto
grande, perfetto da condividere in una romantica serata sul divano, dopo
qualche goccia di sudore di troppo e una doccia rinfrescante.
Rimasi imbambolato col sacchetto di
patatine in mano, poi scossi la testa e finii di sistemarlo in dispensa.
Harvey mi aveva frastornato.
Com’è che riusciva a sconvolgermi così
ogni volta?
Non potevo fare a meno di pensare al tono
caldo e sensuale con cui mi aveva sussurrato, alla festa, che non ero cambiato
rispetto a come mi ricordava, o al tocco delle sue dita sulla mia pelle, che
ancora amava e che aveva bisogno di accarezzare.
Avevamo parlato del più e del meno,
ricordato figuracce in qualche bar, come quando avevo picchiettato la spalla di
qualcuno che non era lui, e rievocato qualche serata troppo bollente per
parlarne in agosto, ma che mi aveva riportato alla mente le telefonate notturne
dove lo chiamavo in lacrime, e lui mi ascoltava per tutto il tempo, tacendo
quando era opportuno e confortandomi quando cominciavo a singhiozzare troppo.
La sera che mio padre mi tirò quello
schiaffo mi ritrovai sbattuto fuori casa, senza un posto in cui andare. Era
freddo ed ero poco vestito, o forse avevo i brividi per la consapevolezza che
non sarei più tornato a casa; chiamai Harvey e mi domandò cosa fosse successo,
come se avesse capito fin da subito che qualcosa non andava. Mi portò da lui e
accudì quel cucciolo spaurito che ero, mi offrì una coperta, un letto e tante
serate insieme all’insegna di una pizza.
Harvey non era un tipo di molte parole.
Non aveva mai detto di amarmi e forse, in quel momento, capivo perché. C’era
stato comunque dell’affetto da parte sua, che nascondeva nel suo scompigliarmi
i capelli, cresciuti un po’ troppo perché avevo altro a cui pensare. Ma quel
contatto che cercava con me, quella voglia di farmi ridere e imbronciare per
gioco, se non era amore, era sicuramente affetto. Ne ero sicuro.
Aprii l’armadio in cerca di qualcosa da
mettermi. Indossavo ancora la maglietta che mi aveva prestato Alan e in quel
momento avvertii una lieve morsa stringermi lo stomaco. Sembravano sensi di
colpa, ma non avevo nulla da rimproverarmi, se non il fatto che lui stava a
deprimersi e io a divertirmi. Forse avrei potuto mandargli un messaggino per
chiedergli come stava, giusto per non farlo sentire troppo solo. Era una buona
idea, sì.
Mi accovacciai e cominciai a razzolare tra
le magliette, che ormai avevo rinunciato a tenere in ordine. Erano sempre le
solite, vecchie magliette, mentre io avevo bisogno di qualcosa di nuovo, come
la fase della vita che stavo vivendo. A quei vestiti associavo spesso i ricordi
della scuola superiore, al cui tipico isolamento ero sfuggito aggregandomi al
gruppo del fighetto di turno, ma a molte altre associavo un ragazzino spiazzato
dal risvolto che la vita gli aveva riservato, a un’esistenza passata ad
attirare l’attenzione.
Non ero più quel ragazzo. Ormai avevo
ventun anni e, se la vita non era stata clemente con me, almeno il tempo mi
aveva concesso di maturare. Avevo elaborato quella sorta di lutto verso mio
padre e avevo imparato a indirizzare la mia vita verso dei binari che non mi
lasciassero in una landa desolata.
Nell’armadio non c’era molto altro. Avevo
qualche polo scolorita e un paio di camicie a maniche lunghe, troppo pesanti
per quelle temperature. L’armadio era pieno e non avevo niente che fosse
all’altezza di quell’occasione.
Il trillo del campanello mi fece quasi
perdere l’equilibrio. Sventai la caduta reggendomi all’anta dell’armadio e mi
rimisi su ballando un po’ sui piedi. Non appena mi fui rialzato, mi avviai
verso il citofono e mi portai la cornetta all’orecchio.
«Chi
è?»
«Sono
Harvey.»
Oh. Cazzo.
Harvey.
Quanti Harvey conoscevo? Uno solo,
purtroppo. Che diamine ci faceva lì a quell’ora?
Ricontrollai l’orologio e capii che no,
non avevo le visioni: era in anticipo di almeno un’ora. E io non mi ero nemmeno
vestito decentemente. Meno male che almeno mi ero fatto la doccia!
«Nathan?
Ci sei?»
Sputai fuori la prima risposta che mi
venne in mente.
«Certo,
sali.»
Avrei potuto dirgli di aspettare cinque
minuti perché la lavatrice mi stava allagando tutta la casa e non potevo
proprio aprirgli in quel momento, oppure che mi aveva preso fuoco un oggetto
non identificato in cucina (ma era poco probabile).
Altrimenti potevo dirgli che ero
felicissimo di vederlo e che quei pantaloni gli stavano da Dio. Sì, decisamente
gli stavano bene.
Ero talmente preso dal fargli una
radiografia, quando me lo trovai di fronte, che a malapena mi accorsi del volto
pallido e smunto. La barba non era fatta, ma a me piaceva; mi solleticò il viso
quando, in uno scatto più che repentino, si avvicinò al mio viso per lasciarmi
un candido bacio sull’estremità della bocca.
Quando si allontanò per rivolgermi un
sorriso dolce e malizioso allo stesso tempo, mi domandai dov’era stato tutto
quel tempo.
«Ciao, Nate.»
«Ciao.»
E poi mi dissi che dovevo farlo entrare al
più presto, prima che pensasse che mi fossi addormentato sulla porta. Non
pensai nemmeno al fatto che mi aveva chiamato col nomignolo che mi aveva
affibbiato tre anni prima, lo stesso con cui mi aveva chiamato mio padre per
tanti anni.
Gli feci strada ancora imbambolato, mentre
ripensavo a quel bacetto di benvenuto che mi aveva riservato. Ascoltai il mio
battito per un istante, ma non lo trovai così accelerato.
Chiusi la porta e lo osservai guardare
quella catapecchia con aria incuriosita.
«Quindi
è qui che vivi?»
«Non
ho trovato di meglio, per la stessa cifra.»
Harvey scrutò ogni angolo di quella specie
di cucina, poi lanciò un’occhiata al tavolo a muro e al divano che qualche
gatto aveva scambiato per un tiragraffi - ma era stato un regalo di amici,
quindi non me ne ero mai lamentato.
Mentre lui osservava la casa, girato di
schiena, io guardavo lui. Ebbi modo di confermare la prima impressione che
avevo avuto da quando lo avevo rivisto, ovvero il fatto che fosse
eccessivamente magro. La maglietta che indossava era stretta, ma non riusciva a
evidenziargli il fisico; lo stesso potei dire dei pantaloni, che avrebbero
fatto volentieri coppia con una cintura.
Non mi dispiacque notare le sue mutande
firmate, né immaginare cosa ci fosse sotto.
Mi infastidì però notare che sembrava più
preso dalla casa che da me.
«Vuoi
qualcosa da bere?»
Lui si voltò, col suo solito sorriso che
mise in evidenza le guance un po’ troppo incavate. Venne verso di me e cinse la
vita con le braccia, con una stretta possessiva. Mi tirò a sé e i nostri nasi
si sfiorarono per un attimo.
Eravamo solo noi in quella casa, nessun
genitore che entra all’improvviso, nessun coinquilino molesto.
Il cuore mi batteva a mille, ma l’istinto
mi diceva che non era per il motivo che volevo pensare.
Con delicatezza, spinsi appena le sue
braccia per allontanarmi, quel poco che bastava per scongiurare un bacio. Era
troppo presto, ancora. Non volevo che il nostro primo appuntamento fosse così,
anche se di certo non l’avevo invitato a casa per prendere un tè.
«Allora, dimmi un po’, dove
sei stato in questi tre anni?»
Lui sciolse la stretta e avvicinò una mano
al mio volto. Passò la sua mano tra i miei capelli con quel fare rassicurante
che placò subito il mio battito accelerato.
«Sei
così bello.»
Sbuffai. Me ne accorsi a malapena, ma lui
smise di accarezzarmi. Allontanò la mano, separando i nostri corpi.
Sul suo volto spuntò un sorriso, che mi
fece pensare di non essere stato troppo insistente con le domande.
«Nei soliti posti a fare le
solite cose. Ho lavorato, girato un po’ il mondo: Francia, Inghilterra,
Messico. Niente di che.»
«Racconta
lo stesso, dai. Sono curioso.»
Mi passò di nuovo le dita sulla guancia,
come aveva fatto alla festa. I suoi occhi erano famelici, con un sottofondo di
affetto. La sua bocca implorava la mia di tacere, ma io avevo voglia di
parlare, di sapere chi era la persona che avevo davanti.
Sorrise, forse un po’ scocciato e in pochi
passi fu al divano, dove si sedette. Lo seguii e mi misi accanto a lui, accoccolandomi
con le gambe piegate e strette tra le braccia.
«Tu
speri che abbia da raccontarti qualcosa di entusiasmante, ma sono stati tre
anni assolutamente normali.»
«Non
importa, mi fa piacere ugualmente.»
Posò i suoi occhi sui miei, mentre io
sembravo più un bambino che aspetta la merenda.
«Sono
stato diverso tempo in Europa, arrangiandomi con qualche lavoretto di fortuna.
Poi, come ti ho già detto, ho cominciato a dedicarmi agli affari.»
«Com’è
l’Europa?»
Lui ridacchiò.
«Piccola.
È molto più provinciale, non hanno idea di cosa siano gli spazi sconfinati. Ci
sono praticamente solo condomini uno attaccato all’altro, le villette a schiera
sono più un lusso delle zone periferiche.»
Io l’ascoltavo come fa il nipotino col
nonno e le sue storie di guerra.
«Be’,
non è poi così diverso da qui.»
Harvey allungò un braccio verso di me ed
ebbi quasi l’istinto di ritrarmi, anche se non lo feci. Si spostò più vicino a
me per accorciare le distanze. Rimasi rapito dai suoi occhi, da quello sguardo
che mi chiedeva di fare sul serio.
«Visto?
Te l’avevo detto che non era niente di speciale.»
Annuii e capii che il momento era
arrivato. Osservai il viso di Harvey farsi sempre più vicino, finché non chiusi
gli occhi e aspettai.
Ritrovai la ruvidità della sua barba,
mentre le sue labbra si posavano sulle mie, le nostre lingue pronte a
scoprirsi.
Quel bacio era caldo, i nostri ansimi il
segno di un desiderio represso.
Cominciai a immaginare il petto sotto la
maglietta, le sue mutande che non permettevano di vedere, ma solo di tastare le
forme.
Presto sarei stato stanco di intuire
solamente, mano a mano che quel bacio diventava sempre più frenetico, che le
sue mani si facevano strada strisciando sulla mia pelle. Lo imitai e scoprii il
calore del suo corpo, ma lui mi tirò su, interrompendo il bacio solo per un
istante, il tempo necessario per traslocare in camera da letto.
Ci facemmo strada non senza difficoltà, ma
io pensavo a dove sarebbero state le sue mani di lì a poco, a dove sarebbero
state le mie, alla sua nudità in tutta la sua bellezza e alla mia a sua
disposizione.
I tessuti che ci separavano si dissolsero
in pochi istanti e presto ci ritrovammo l’uno sull’altro, pronti a diventare
pezzi di un puzzle dall’incastro perfetto.
Harvey
mi baciava voracemente.
Le sue labbra facevano appena in tempo a
soffermarsi sulla mia pelle, per poi ripartire alla scoperta del mio corpo,
sempre più giù.
Intorno all’inguine cominciò a rallentare,
a posare la bocca più a lungo, a lasciarmi il tempo di desiderare quel bacio un
po’ più vicino al mio sesso pulsante. Percorse il basso ventre, deviò verso
l’interno coscia, da sinistra a destra, per poi riprendere quel movimento
circolare, lasciando ogni volta una scia di saliva, solo per lasciarmi
presagire che presto avrebbe potuto farlo altrove.
E lo avrebbe fatto.
Doveva
farlo.
Poi staccò il viso dove io l’avrei
lasciato per sempre, si avvicinò alla mia bocca e mi riservò un sorriso
malizioso.
Lo spintonai appena e finì sulla schiena,
e fu tempo di ricambiare il favore.
Lo baciai come lui aveva fatto con me,
osservai la sua schiena inarcarsi e i gemiti uscire da quella bocca ansante.
Risalii un attimo per baciarlo, dapprima all’angolo della bocca, poi sulle
labbra, che mi rubò con uno scatto affamato.
Mi afferrò un polso e lo condusse giù,
fino al suo membro. Sapevo cosa voleva da me, ma scelsi di ribellarmi. Smise di
baciarmi e riportò il polso in quello che aveva deciso essere il suo posto e
io, senza pensarci troppo, lo avvolsi tra le dita, strinsi appena e cominciai a
deliziarlo con movimenti lenti e profondi.
Forse avrei aspettato, ma il compiacimento
che mostrava in quel momento mi fece dimenticare il suo modo di fare.
Continuai col mio massaggio finché non
fermò la mano, all’improvviso; poi aprì gli occhi, che fino a quel momento
aveva tenuto chiusi, a immaginare chissà cosa, e mi rimise di nuovo sulla
schiena, lui tra le mie gambe.
Si avvicinò al mio viso e mi diede qualche
bacio distratto, poi si staccò ansimante.
«Fatti scopare.»
Non aspettò una mia
reazione e cominciò a tirarmi su le gambe.
Non era esattamente
romantico, ma sapevo che da lui non potevo aspettarmi certe finezze. Mi sembrò
di sentire il cuore stretto in una morsa: quasi sicuramente l’eccitazione che
galoppava.
Mettigli il preservativo, mi aveva detto la coscienza. E quello era stato l'unico
consiglio che avevo accettato da quella voce fastidiosa.
Doveva intromettersi
proprio in quel momento?
«Me lo farai ammosciare,
così. Voglio farlo senza.»
Gli sventolai il
preservativo sotto gli occhi.
«O così, o niente.»
Non so perché avessi dato
retta a quel pensiero, ma, in fondo, non sapevo dove era stato Harvey per quei
tre anni: poteva essersi beccato qualcosa.
Me lo strappò di mano e
se lo infilò di malavoglia, e feci attenzione che lo avesse srotolato fino in
fondo. Poi mi guardò voglioso, fece scorrere un dito su di me e appoggiò le mie
gambe sulle sue spalle.
Il battito aumentò.
Emozione, desiderio.
Presto si sarebbe fatto
strada dentro di me.
Si inumidì le dita di
saliva e le fece passare sulla mia apertura, che istintivamente si contrasse.
La massaggiò un pochino, e in parte mi rilassai, poi avvicinò il suo membro.
Chiusi gli occhi.
Ancora battito.
(Paura?)
Sentii la sua punta che
cercava di abituarmi dolcemente, ma poi si fece avanti con un'unica spinta e
gemetti di dolore. Bruciava da morire e mi si mozzò il fiato. Strinsi forte le
coperte, mentre aspettavo che quella sensazione passasse, che il dolore si
attutisse.
Lui non mi chiese se mi
aveva fatto male.
Prese subito a spingere
per darsi piacere, e lo faceva con gli occhi chiusi, perso in chissà quale
pensiero.
Il preservativo, almeno,
gli permetteva di scivolare dentro di me senza troppo attrito. Alzai gli occhi
verso di lui e mi sentii, improvvisamente, semplice oggetto del suo piacere. Il
bruciore cominciava a diminuire, ma a ogni spinta pensavo che avrebbe potuto
farlo più dolcemente, anche perché ero un po’ fuori allenamento. Forse era
colpa mia, perché non glielo avevo detto.
Piano piano mi abituai a
quell’intrusione e il dolore si trasformò in piacere. Scariche di adrenalina mi
percorsero tutto il corpo, mentre abbandonavo ogni pensiero inquieto.
Volevo sentirlo dentro di
me, mentre mi faceva suo, mentre non desiderava altro che me.
Lo guardai e mi sforzai
di farlo con occhi sognanti. Cercai di sentire il cuore in fiamme, perché,
finalmente, stavo facendo l'amore con l'uomo che amavo. Invece il mio cuore
batteva e basta, a un ritmo irregolare, e non perché ero eccitato e lui era il
mio grande amore. Mi aveva masturbato quel poco che bastava per farmi venire la
voglia. Mi aveva penetrato non appena lo aveva voluto. Spingeva e pensava solo
al suo piacere, lasciando che pensassi al mio in solitaria.
Mi sforzai di guardarlo
sognante, ma non ci riuscii.
Venne poco dopo. Io affrettai le cose prima che uscisse,
sporcandomi il petto. Non appena l’eccitazione scemò del tutto, provai un senso
di disagio. Harvey si alzò e, senza dire niente, se ne andò in bagno. Mi mossi
appena e mi sentii bruciare, là sotto. Sperai che non chiedesse il bis. Mi
rimisi disteso, una coperta sul ventre per pulirmi e un braccio dietro la testa.
Puntai gli occhi al soffitto, poi li feci scorrere per tutta la stanza. Le pale
sul soffitto continuavano a girare imperturbate e a rinfrescare la camera; le
serrande abbassate impedivano alla luce del sole di entrare, lasciandoci in
quella triste penombra; l’odore del sesso e dei nostri umori si mischiava a
quello dell’aria stantia e del fumo impregnato nei cuscini. Non c’erano colori
in quella stanza, perché non c’era luce.
Era tutto grigio.
Proprio quando sentii gli occhi inumidirsi, lui tornò in
camera, senza dire niente. Io mi girai dall’altra parte, e una fitta di dolore
tornò a farsi sentire. Per fortuna sparì poco dopo. Lo sentii razzolare tra le
sue cose, appoggiate sulla scrivania; poi udii un click e lo stesso
odore impregnato nei cuscini inondò la stanza. Si era acceso una sigaretta.
Ironicamente, pensai di
essere finito in uno di quei giornaletti per coppie in crisi.
“Mio marito non mi
coccola dopo il sesso.”
“Il mio ragazzo si mette
a fumare dopo aver fatto l’amore.”
Ero quasi sicuro di aver
letto di qualcuno che suonava la chitarra.
Eppure, era proprio così.
Harvey era andato in bagno, si era pulito e ora fumava una sigaretta, senza
dire niente. Cosa gli costava farmi una carezza? O anche solo chiedermi se mi
era piaciuto? Mi sarebbe bastato che mi chiedesse cosa preparare per cena.
E invece ora si era
seduto, all’altro capo del letto, e teneva in mano il cellulare. Per qualche
minuto lesse qualcosa con molto interesse, forse messaggi, poi bloccò la
tastiera e buttò il telefono sul letto. Si mise semi-seduto, la schiena
appoggiata alla testiera del letto. E fumava.
La luce che filtrava
bastava a malapena per permettermi di vedere la scia di fumo che usciva dalla
sua bocca.
Lo guardai, ma il suo
unico pensiero sembrava quella sigaretta che stringeva tra le dita. Non
esisteva altro. Per tutto quel tempo avevo sperato che mi degnasse di uno
sguardo, che mi rivolgesse anche la più piccola delle attenzioni, per farmi
capire che mi amava, che fare l’amore con me era stato bello. Non arrivò niente
di tutto questo, se non un silenzio che mi riempì d’imbarazzo.
Mi leccai le labbra e
provai a dire qualcosa.
«Magari potresti fare un
po’ più piano. Più dolcemente, intendo.»
Lui mi guardò per un
attimo, poi capì.
«Non mi dirai che ti ho
fatto male. O così, o niente.»
E scoppiò a ridere.
Quella risata mi ferì
talmente tanto che rimasi senza parole. Aveva avuto anche il coraggio di
scherzare facendomi il verso.
Volli piangere.
(Cresci!)
Sì, dovevo farlo.
Perché non ero più un
ragazzino, non ero più il diciottenne inesperto che aveva conosciuto e a cui
aveva insegnato il sesso a modo suo.
«Sì, mi hai fatto male.
Vorrei che tu facessi più piano.»
Lo fissai con uno sguardo
che non ammetteva repliche. Lui mi guardò per più del suo solito attimo.
«Oh, vedo che facciamo
sul serio. Sei cresciuto, eh?»
Harvey appoggiò la
sigaretta sul posacenere ed espirò, poi si spostò e si avvicinò a me, finché i
nostri nasi non si sfiorarono. Potevo sentire il suo fiato impregnato di fumo
finirmi sul viso, e per la prima volta trovai quell’odore davvero disgustoso.
Alan sfrecciò tra i miei pensieri e mi domandai cosa stesse facendo in quel
momento. La cena o, forse, il bucato. Quell’immagine mi rassicurò, mentre le labbra
di Harvey si aprivano per dire qualcosa. Il mio cuore perse un battito, ma non
era per l’emozione.
«Va bene, farò più piano.
Anche se sai che a me piace così.»
Poggiò le sue labbra
sulle mie e diede vita a un bacio rude e dal sapore amaro, esattamente come
ogni altra sua effusione. Le sue labbra mi baciarono voracemente, finché non
sentii la sua lingua picchiettare sui miei denti. Gli feci spazio e il bacio
divenne passionale e disordinato, mi infilò le mani in mezzo ai capelli e me li
scompigliò, preso dalla foga. Avvertii una fitta di piacere a ogni tocco delle
nostre lingue, anche se era presto per avere un altro rapporto; nonostante
questo, però, il dolore là sotto mi sembrò già storia passata, il suo egoismo
divenne di poca importanza, la voglia sempre più travolgente.
Dopo una quarantina di
minuti, lo facemmo di nuovo. Stesse modalità, stessa brutalità – e non serviva
essere abituati. Nessuna attenzione per me, a parte qualche carezza più intima.
Tutto si consumò
rapidamente, solo per lui.
Il
bis mi aveva stremato.
Tutta l’eccitazione di quella sera aveva
lasciato spazio a un senso di malinconia e qualcos’altro che non sapevo come
definire. Sapevo soltanto che mi faceva vergognare di essere nudo davanti a
Harvey e forse era per quello che me ne stavo con la coperta tirata su fino a
mezzo busto. Non volevo che avesse la sensazione di avermi fatto suo, né che
tra noi ci fosse complicità.
Harvey era sempre sicuro di troppe cose,
ma non era con una scopata che mi avrebbe conquistato. C’era riuscito con
l’ingenuità dei miei diciotto anni, forse perché mi aveva rubato la verginità e
a me era sembrato un sogno l’averlo fatto con uno così.
In quel momento, però, volevo di più. Una
storia, forse. L’unica cosa di cui ero certo era che non volevo essere trattato
come un ragazzino, né che lui pensasse di poterlo fare. Per me non esisteva più
nulla di trasgressivo, nulla che lo potesse elevare al di sopra di altri
ragazzi. Eravamo uguali, io e lui. Alla pari.
Sentii aprirsi l’acqua della doccia:
Harvey si stava lavando. Era scappato subito in bagno per pulirsi e a malapena
mi aveva baciato. Non era così fuori dal mondo che non volesse alcun contatto
dopo il sesso: non l’aveva mai voluto.
In quel momento, però, qualche coccola non
mi sarebbe dispiaciuta o una qualsiasi altra conferma di ciò che erano stati
quei momenti per lui.
Mi ributtai sul cuscino e attesi il
ritorno di Harvey. Allungai una mano nell'altra piazza del letto e sentii,
sotto le dita, una superficie liscia e lucida. Mi voltai e mi accorsi che stavo
accarezzando la stampa della maglietta che Alan mi aveva prestato.
Per un attimo lo vidi lì. Torsi il mio
corpo per girarmi e raggiungerlo, e il lenzuolo scivolò giù dalle natiche,
lasciandomi nudo.
Mi guardai intorno in fretta e furia, ma
Harvey era ancora in bagno.
Afferrai la maglietta e me ne tornai sulla
schiena, portandomi quel tessuto sul petto. Strinsi forte a me quello che altro
non era se non un pezzo di cotone, eppure mi sembrò di sentire, tra le fibre,
odore di sapone e ammorbidente. Pensai ad Alan ancora una volta: sempre così
ordinato, nella mente come nella vita, e infatti, se si escludeva l'incidente
di Oliver, aveva tutto ciò che si poteva desiderare.
Avrei trovato in Harvey la stessa capacità
di mettere ordine anche solo al casino che avevo nella mia camera?
La porta del bagno si aprì.
Rimisi il lenzuolo sopra il mio corpo, a
coprire la mia nudità, poco prima che Harvey rientrasse in camera. Non alzò
nemmeno gli occhi verso di me e cominciò a razzolare tra i vestiti che avevamo
buttato a terra poco meno di un’ora prima. Seguii suoi movimenti uno a uno,
aspettando quello che prevedeva di guardare verso di me e sorridermi, baciarmi,
chiedermi se ero felice.
Si è solo svuotato le palle.
Un pensiero improvviso e tagliente a cui
non volli credere. Dovevo solo accettare che Harvey era così. Che si rivestiva
guardando un punto indefinito della stanza e che era pronto a dedicarmi
un'occhiata una volta chiuso l'ultimo bottone della camicia e con la zip dei
pantaloni tirata su.
Mi spuntò un sorriso che mi fece
dimenticare ciò che avevo pensato poco prima, un pensiero senz'altro stupido.
Si sedette a bordo letto e si chinò su di
me. Cominciò a leccare le mie labbra e a lasciarci sopra piccoli baci, ma ero
troppo stremato per qualunque reazione. Nonostante questo, lasciai che la sua
lingua scivolasse sulla mia, regalandomi quel brivido che tanto andavo
cercando.
Il brivido di sapere che mi voleva ancora
anche dopo il sesso e che lo infuocavo anche se non poteva esserci nessuna
conclusione pratica.
Mi liberai della maglietta di Alan, che
ancora portavo sul petto, e spinsi la testa di Harvey all'indietro, finché non
fummo entrambi seduti.
Avevo atteso parole da parte di Harvey, ma
dovevo saperlo che non sarebbero arrivate, e che mi avrebbe invece regalato un
bacio da urlo, a dimostrazione di quello che erano stati quei momenti con me.
Tutto lo squallore che avevo provato era
appena stato spazzato via. Pensai quasi di amarlo. Non glielo dissi solo perché
forse era un po' presto.
Tre anni ci avevano sicuramente cambiato
più di quanto non immaginassi e non potevo buttare al vento due parole così importanti.
Ci avrei riflettuto un altro po', ma in quel momento non desideravo altro che
essere al fianco di Harvey ogni momento. Fare l'amore con lui, baciarlo,
condividere le giornate.
Si staccò dalle mie labbra e mi osservò
con un sorriso malizioso dei suoi, mentre io dovevo avere uno sguardo perso,
perché si lasciò andare a un'impercettibile risata.
«Devo
andare, Nathan.»
La mia felicità andò in corto circuito.
«Come
sarebbe?»
Buttai un occhio verso la sveglia sul
comodino e notai che era passata poco più di un'ora da quando era arrivato.
«Mi
dispiace. Ho avuto un contrattempo.»
«Quindi
non mangiamo insieme?»
Lui scosse la testa affranto, ma
quell'espressione mi sembrò solo una montatura.
«Non
questa sera, ma ci saranno altre occasioni. Non fare quella faccia, dai.»
Mi spompai come un palloncino gonfio
appena bucato.
Si alzò dal letto e forse si aspettava che
facessi altrettanto. Invece rimasi seduto lì dov'ero, le dita ben salde al
lenzuolo che mi coprì almeno in parte da quell'umiliazione.
Continuai a fissarlo e a non dire niente,
mentre lui si rigirava le chiavi della macchina tra le mani, finché non si
lasciò scappare un "Ciao", senza tutto quel pentimento che mi
aspettavo di trovare. Abbandonò la stanza e, quando fu fuori dalla mia vista, mi
sembrò di sentirlo inspirare rumorosamente.
Undici agosto duemilauno: proprio una data
da ricordare.
Quando
sentii la porta chiudersi con un tonfo secco, i nervi mi si distesero. Mi resi
conto che avevo voglia di stare da solo, di pensare a quello che era accaduto
quel pomeriggio.
Già, cos'era successo, se non una scopata?
Mi sentivo davvero come i protagonisti di
quelle rubriche d'amore; bello schifo.
In quel momento riuscii a guardare la mia
vita per ciò che era: un totale casino. Ero pronto a scommettere che certe
cose, a persone normali, non sarebbero mai capitate. A persone capaci di capire
chi hanno davanti con un'occhiata, di saper capire quando è il caso di dire
basta, di non ripetere due volte gli stessi errori. Io non ne ero capace, così
mi mordevo la coda, inciampavo sempre nello stesso ostacolo e rimanevo fermo al punto di partenza.
In quel momento, mi accorsi cosa
significava avere una famiglia: la stampella a cui aggrapparti quando inciampi,
se non sei stato abbastanza attento da ascoltarli quando ti dicevano che era
pericoloso. Capii in quel momento che non avevo appigli. Nessuno pronto a dirmi
che stavo sbagliando, che dovevo fare scelte diverse, a darmi un consiglio per
vedere la vita in un'altra ottica.
Avevo ventun anni e credevo di esser
grande, e invece non me la cavavo tanto meglio di un diciottenne che pensa di
poter conquistare il mondo da solo.
Non avevo nessuno. Solo, in questo mondo,
senza una guida.
Uno degli ultimi consigli che mio padre
aveva dato al suo figlio ancora eterosessuale, quando aveva saputo di un ballo
scolastico, era stato: "Non fare cazzate". Quante ne avevo fatte,
poi? Ma soprattutto: quante ne avevo fatte per fare un dispetto a lui?
Mi resi conto in quel momento che erano
solo stupidaggini. Fare cazzate avrebbe danneggiato solo me, non importava se
le facevo per far saltare i nervi a qualcuno. Ma ormai non avevo più la
capacità di capire dove mi avrebbero portato le mie decisioni, se non sbattendo
contro il muro della consapevolezza di aver preso l'ennesima strada
sbagliata.
In quel momento, avevo voglia e bisogno di
un consiglio. Giusto o sbagliato che fosse, volevo che qualcuno prendesse
qualche decisione al posto mio, o che fosse in parte responsabile per qualunque
piega avesse preso la mia vita. O forse, in realtà, volevo solo che qualcuno mi
dicesse che sarebbe andato tutto bene. Sapevo che sarebbe stata una bugia, ma
mi avrebbe almeno lasciato col dubbio, se a dirmelo non ero io stesso.
Presi il telefono e cominciai a scorrere
la rubrica. Sapevo chi volevo chiamare.
Ascoltai il suono di libero non senza un
po' di apprensione, perché avevo la sensazione che non avrebbe risposto, come
in un brutto sogno dove tutto va storto; invece lo fece poco dopo.
«Nathan?»
Mi bastò sentire quella velata
preoccupazione nella sua voce per sentirmi subito meglio.
«Disturbo?
Stavi mangiando?»
«No,
non ancora. Dimmi tutto.»
Esitai un attimo.
«Che
fai stasera?»
Sarebbe potuta sembrare una domanda
interessata, invece apparve quasi infantile. Mi sentivo come il bambino sfigato
che cerca di entrare nel giro di quelli un po' meno sfigati di lui. Avevo
buttato lì la domanda, nella speranza che non mi mandasse via.
«Sono
fuori con Ash, andiamo in un locale.»
Seguì un momento di silenzio, che nessuno
dei due riuscì a riempire.
Era occupato.
Avrei dovuto saperlo.
Perfino Alan era riuscito a ritrovare la
via per uscire dal pantano dov'era caduto. Io sarei rimasto in fondo al
burrone, sporco di fango. Avrei piantato le unghie su quella parete un milione
di volte, ma sarei scivolato a ogni tentativo.
«Vuoi
venire con noi?»
Ma Alan aveva il dono di calare una corda
sempre al momento giusto. Come i genitori offrono una stampella e gli amici la
loro spalla.
«Posso?»
Ero sicuro di aver tradito qualche
emozione di troppo, ma parlare con lui mi faceva provare quasi pena per quelle
anime solitarie in fondo al burrone, che forse avevano anche smesso di lottare.
Non ero solo: avevo Alan, che non era né un genitore, né un amico, né un
amante. Era Alan, semplicemente, ma a me bastava.
«Tutto
bene? Non eri con Harvey?»
Mi lasciai scappare una risata amara.
«È
dovuto andare via.»
«Ah.
Mi dispiace. Sei solo, quindi?»
«Sì.»
Lo sguardo mi cadde sulla maglietta di
Alan, che stavo stringendo senza nemmeno accorgermene.
«A
meno che tu non preferisca la tua solita pizza a domicilio, io ho ancora una
ventina di minuti prima di mangiare. Se ti va...»
Mi sorprese il fatto che non mi avesse
fatto un invito diretto, come faceva sempre per ogni cosa; ma ciò che mi
sorprese davvero fu quella cascata di calore che mi invase il petto e il
sorriso cretino che mi apparve sulla faccia.
«Tempo
di rivest...», e mi fermai di botto.
Aveva capito di sicuro. In fondo, di che mi preoccupavo? Me l'avrebbe letto in
faccia. «Cioè, vengo volentieri.»
«Va
bene. Ti aspetto, allora. A dopo.»
Ci salutammo con entusiasmo, almeno da
parte mia.
Mi liberai da quel lenzuolo di troppo,
raccolsi mutande, pantaloni, maglietta e mi rivestii in fretta e furia. Passai
dalla cucina a prendere una mentina, prima di uscire di casa e precipitarmi da
Alan.
Arrivai
dopo mezz'ora e sperai che Alan non fosse troppo fiscale con gli orari. Era
quasi tardi per mangiare, ma lui non ci fece caso più di tanto e, anzi, mi
accolse sulla porta di casa con un gran sorriso, per quanto ne era capace.
Come lo vidi, mi accorsi che il ragazzino
in fondo al burrone era solo un lontano ricordo. Buttai un'occhiata a quelle
sagome che ancora cercavano di risalire su, senza successo, mentre io le
osservavo dall'alto. Alan mi aveva calato la corda, mi aveva detto cosa fare.
Per questo, quando lo raggiunsi alla
porta, non potei fare altro che gettargli le braccia al collo e abbracciarlo.
Angolo
autrice
Salve
a tutti! L’atmosfera comincia a scaldarsi, hehe! Anche se poi Harvey è dovuto
andare via subito, lasciando il povero Nathan in balia di sé stesso ç___ç Ma
per fortuna c’è Alan-to-the-rescue XD
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e che anche i prossimi (che personalmente amo)
risultino coinvolgenti!
Ringrazio
ancora tutte le persone che leggono e recensiscono, in particolare Eleonora a
cui va un pezzo del mio cuore <3
A
giovedì prossimo!
holls