Due Marlboro [Prima stesura]

di holls
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NOTE: una nota rapidissima prima di lasciarvi alla lettura. Come si può intuire anche dal titolo, questo capitolo è una versione ampliata e “contestualizzata” di un’altra shot che ho scritto, appunto “Confine sfumato”. È possibile che l’abbiate già letta, ma vi suggerisco di leggere comunque il capitolo in quanto aggiunge diverse cose. Passo e chiudo, era solo per spiegare la ragione di un eventuale déjà-vu J

 

 

11. Confine sfumato

 

 

 

Non stavo più nella pelle.

Erano le sei del pomeriggio dell’undici agosto duemilauno e il tempo sembrava non passare mai.

Avevo fatto una puntata al centro commerciale per fare un po’ di spesa e avevo raccattato qualche cibo precotto dall’aspetto gradevole. L’augurio era che il cibo fosse il nostro ultimo pensiero, ma dovevo far fronte a ogni evenienza. Così mi ero ritrovato a sistemare nel congelatore una sfoglia ripiena di prosciutto e formaggio, che, dalla presentazione, sembrava proprio appetitosa; avevo poi schiaffato nella dispensa un barattolo di fagiolini pronti, da aprire nel caso in cui le patatine fossero sembrate troppo poco salutari. Avevo preso il pacchetto grande, perfetto da condividere in una romantica serata sul divano, dopo qualche goccia di sudore di troppo e una doccia rinfrescante.

Rimasi imbambolato col sacchetto di patatine in mano, poi scossi la testa e finii di sistemarlo in dispensa.

Harvey mi aveva frastornato.

Com’è che riusciva a sconvolgermi così ogni volta?

Non potevo fare a meno di pensare al tono caldo e sensuale con cui mi aveva sussurrato, alla festa, che non ero cambiato rispetto a come mi ricordava, o al tocco delle sue dita sulla mia pelle, che ancora amava e che aveva bisogno di accarezzare.

Avevamo parlato del più e del meno, ricordato figuracce in qualche bar, come quando avevo picchiettato la spalla di qualcuno che non era lui, e rievocato qualche serata troppo bollente per parlarne in agosto, ma che mi aveva riportato alla mente le telefonate notturne dove lo chiamavo in lacrime, e lui mi ascoltava per tutto il tempo, tacendo quando era opportuno e confortandomi quando cominciavo a singhiozzare troppo.

La sera che mio padre mi tirò quello schiaffo mi ritrovai sbattuto fuori casa, senza un posto in cui andare. Era freddo ed ero poco vestito, o forse avevo i brividi per la consapevolezza che non sarei più tornato a casa; chiamai Harvey e mi domandò cosa fosse successo, come se avesse capito fin da subito che qualcosa non andava. Mi portò da lui e accudì quel cucciolo spaurito che ero, mi offrì una coperta, un letto e tante serate insieme all’insegna di una pizza.

Harvey non era un tipo di molte parole. Non aveva mai detto di amarmi e forse, in quel momento, capivo perché. C’era stato comunque dell’affetto da parte sua, che nascondeva nel suo scompigliarmi i capelli, cresciuti un po’ troppo perché avevo altro a cui pensare. Ma quel contatto che cercava con me, quella voglia di farmi ridere e imbronciare per gioco, se non era amore, era sicuramente affetto. Ne ero sicuro.

Aprii l’armadio in cerca di qualcosa da mettermi. Indossavo ancora la maglietta che mi aveva prestato Alan e in quel momento avvertii una lieve morsa stringermi lo stomaco. Sembravano sensi di colpa, ma non avevo nulla da rimproverarmi, se non il fatto che lui stava a deprimersi e io a divertirmi. Forse avrei potuto mandargli un messaggino per chiedergli come stava, giusto per non farlo sentire troppo solo. Era una buona idea, sì.

Mi accovacciai e cominciai a razzolare tra le magliette, che ormai avevo rinunciato a tenere in ordine. Erano sempre le solite, vecchie magliette, mentre io avevo bisogno di qualcosa di nuovo, come la fase della vita che stavo vivendo. A quei vestiti associavo spesso i ricordi della scuola superiore, al cui tipico isolamento ero sfuggito aggregandomi al gruppo del fighetto di turno, ma a molte altre associavo un ragazzino spiazzato dal risvolto che la vita gli aveva riservato, a un’esistenza passata ad attirare l’attenzione.

Non ero più quel ragazzo. Ormai avevo ventun anni e, se la vita non era stata clemente con me, almeno il tempo mi aveva concesso di maturare. Avevo elaborato quella sorta di lutto verso mio padre e avevo imparato a indirizzare la mia vita verso dei binari che non mi lasciassero in una landa desolata.

Nell’armadio non c’era molto altro. Avevo qualche polo scolorita e un paio di camicie a maniche lunghe, troppo pesanti per quelle temperature. L’armadio era pieno e non avevo niente che fosse all’altezza di quell’occasione.

Il trillo del campanello mi fece quasi perdere l’equilibrio. Sventai la caduta reggendomi all’anta dell’armadio e mi rimisi su ballando un po’ sui piedi. Non appena mi fui rialzato, mi avviai verso il citofono e mi portai la cornetta all’orecchio.

«Chi è?»

«Sono Harvey.»

Oh. Cazzo.

Harvey.

Quanti Harvey conoscevo? Uno solo, purtroppo. Che diamine ci faceva lì a quell’ora?

Ricontrollai l’orologio e capii che no, non avevo le visioni: era in anticipo di almeno un’ora. E io non mi ero nemmeno vestito decentemente. Meno male che almeno mi ero fatto la doccia!

«Nathan? Ci sei?»

Sputai fuori la prima risposta che mi venne in mente.

«Certo, sali.»

Avrei potuto dirgli di aspettare cinque minuti perché la lavatrice mi stava allagando tutta la casa e non potevo proprio aprirgli in quel momento, oppure che mi aveva preso fuoco un oggetto non identificato in cucina (ma era poco probabile).

Altrimenti potevo dirgli che ero felicissimo di vederlo e che quei pantaloni gli stavano da Dio. Sì, decisamente gli stavano bene.

Ero talmente preso dal fargli una radiografia, quando me lo trovai di fronte, che a malapena mi accorsi del volto pallido e smunto. La barba non era fatta, ma a me piaceva; mi solleticò il viso quando, in uno scatto più che repentino, si avvicinò al mio viso per lasciarmi un candido bacio sull’estremità della bocca.

Quando si allontanò per rivolgermi un sorriso dolce e malizioso allo stesso tempo, mi domandai dov’era stato tutto quel tempo.

«Ciao, Nate.»

«Ciao.»

E poi mi dissi che dovevo farlo entrare al più presto, prima che pensasse che mi fossi addormentato sulla porta. Non pensai nemmeno al fatto che mi aveva chiamato col nomignolo che mi aveva affibbiato tre anni prima, lo stesso con cui mi aveva chiamato mio padre per tanti anni.

Gli feci strada ancora imbambolato, mentre ripensavo a quel bacetto di benvenuto che mi aveva riservato. Ascoltai il mio battito per un istante, ma non lo trovai così accelerato.

Chiusi la porta e lo osservai guardare quella catapecchia con aria incuriosita.

«Quindi è qui che vivi?»

«Non ho trovato di meglio, per la stessa cifra.»

Harvey scrutò ogni angolo di quella specie di cucina, poi lanciò un’occhiata al tavolo a muro e al divano che qualche gatto aveva scambiato per un tiragraffi - ma era stato un regalo di amici, quindi non me ne ero mai lamentato.

Mentre lui osservava la casa, girato di schiena, io guardavo lui. Ebbi modo di confermare la prima impressione che avevo avuto da quando lo avevo rivisto, ovvero il fatto che fosse eccessivamente magro. La maglietta che indossava era stretta, ma non riusciva a evidenziargli il fisico; lo stesso potei dire dei pantaloni, che avrebbero fatto volentieri coppia con una cintura.

Non mi dispiacque notare le sue mutande firmate, né immaginare cosa ci fosse sotto.

Mi infastidì però notare che sembrava più preso dalla casa che da me.

«Vuoi qualcosa da bere?»

Lui si voltò, col suo solito sorriso che mise in evidenza le guance un po’ troppo incavate. Venne verso di me e cinse la vita con le braccia, con una stretta possessiva. Mi tirò a sé e i nostri nasi si sfiorarono per un attimo.

Eravamo solo noi in quella casa, nessun genitore che entra all’improvviso, nessun coinquilino molesto.

Il cuore mi batteva a mille, ma l’istinto mi diceva che non era per il motivo che volevo pensare.

Con delicatezza, spinsi appena le sue braccia per allontanarmi, quel poco che bastava per scongiurare un bacio. Era troppo presto, ancora. Non volevo che il nostro primo appuntamento fosse così, anche se di certo non l’avevo invitato a casa per prendere un tè.

«Allora, dimmi un po’, dove sei stato in questi tre anni?»

Lui sciolse la stretta e avvicinò una mano al mio volto. Passò la sua mano tra i miei capelli con quel fare rassicurante che placò subito il mio battito accelerato.

«Sei così bello.»

Sbuffai. Me ne accorsi a malapena, ma lui smise di accarezzarmi. Allontanò la mano, separando i nostri corpi.

Sul suo volto spuntò un sorriso, che mi fece pensare di non essere stato troppo insistente con le domande.

«Nei soliti posti a fare le solite cose. Ho lavorato, girato un po’ il mondo: Francia, Inghilterra, Messico. Niente di che.»

«Racconta lo stesso, dai. Sono curioso.»

Mi passò di nuovo le dita sulla guancia, come aveva fatto alla festa. I suoi occhi erano famelici, con un sottofondo di affetto. La sua bocca implorava la mia di tacere, ma io avevo voglia di parlare, di sapere chi era la persona che avevo davanti.

Sorrise, forse un po’ scocciato e in pochi passi fu al divano, dove si sedette. Lo seguii e mi misi accanto a lui, accoccolandomi con le gambe piegate e strette tra le braccia.

«Tu speri che abbia da raccontarti qualcosa di entusiasmante, ma sono stati tre anni assolutamente normali.»

«Non importa, mi fa piacere ugualmente.»

Posò i suoi occhi sui miei, mentre io sembravo più un bambino che aspetta la merenda.

«Sono stato diverso tempo in Europa, arrangiandomi con qualche lavoretto di fortuna. Poi, come ti ho già detto, ho cominciato a dedicarmi agli affari.»

«Com’è l’Europa?»

Lui ridacchiò.

«Piccola. È molto più provinciale, non hanno idea di cosa siano gli spazi sconfinati. Ci sono praticamente solo condomini uno attaccato all’altro, le villette a schiera sono più un lusso delle zone periferiche.»

Io l’ascoltavo come fa il nipotino col nonno e le sue storie di guerra. 

«Be’, non è poi così diverso da qui.»

Harvey allungò un braccio verso di me ed ebbi quasi l’istinto di ritrarmi, anche se non lo feci. Si spostò più vicino a me per accorciare le distanze. Rimasi rapito dai suoi occhi, da quello sguardo che mi chiedeva di fare sul serio.

«Visto? Te l’avevo detto che non era niente di speciale.»

Annuii e capii che il momento era arrivato. Osservai il viso di Harvey farsi sempre più vicino, finché non chiusi gli occhi e aspettai.

Ritrovai la ruvidità della sua barba, mentre le sue labbra si posavano sulle mie, le nostre lingue pronte a scoprirsi.

Quel bacio era caldo, i nostri ansimi il segno di un desiderio represso.

Cominciai a immaginare il petto sotto la maglietta, le sue mutande che non permettevano di vedere, ma solo di tastare le forme.

Presto sarei stato stanco di intuire solamente, mano a mano che quel bacio diventava sempre più frenetico, che le sue mani si facevano strada strisciando sulla mia pelle. Lo imitai e scoprii il calore del suo corpo, ma lui mi tirò su, interrompendo il bacio solo per un istante, il tempo necessario per traslocare in camera da letto.

Ci facemmo strada non senza difficoltà, ma io pensavo a dove sarebbero state le sue mani di lì a poco, a dove sarebbero state le mie, alla sua nudità in tutta la sua bellezza e alla mia a sua disposizione.

I tessuti che ci separavano si dissolsero in pochi istanti e presto ci ritrovammo l’uno sull’altro, pronti a diventare pezzi di un puzzle dall’incastro perfetto.

 

Harvey mi baciava voracemente.

Le sue labbra facevano appena in tempo a soffermarsi sulla mia pelle, per poi ripartire alla scoperta del mio corpo, sempre più giù.

Intorno all’inguine cominciò a rallentare, a posare la bocca più a lungo, a lasciarmi il tempo di desiderare quel bacio un po’ più vicino al mio sesso pulsante. Percorse il basso ventre, deviò verso l’interno coscia, da sinistra a destra, per poi riprendere quel movimento circolare, lasciando ogni volta una scia di saliva, solo per lasciarmi presagire che presto avrebbe potuto farlo altrove.

E lo avrebbe fatto.

Doveva farlo.

Poi staccò il viso dove io l’avrei lasciato per sempre, si avvicinò alla mia bocca e mi riservò un sorriso malizioso.

Lo spintonai appena e finì sulla schiena, e fu tempo di ricambiare il favore.

Lo baciai come lui aveva fatto con me, osservai la sua schiena inarcarsi e i gemiti uscire da quella bocca ansante. Risalii un attimo per baciarlo, dapprima all’angolo della bocca, poi sulle labbra, che mi rubò con uno scatto affamato.

Mi afferrò un polso e lo condusse giù, fino al suo membro. Sapevo cosa voleva da me, ma scelsi di ribellarmi. Smise di baciarmi e riportò il polso in quello che aveva deciso essere il suo posto e io, senza pensarci troppo, lo avvolsi tra le dita, strinsi appena e cominciai a deliziarlo con movimenti lenti e profondi.

Forse avrei aspettato, ma il compiacimento che mostrava in quel momento mi fece dimenticare il suo modo di fare.

Continuai col mio massaggio finché non fermò la mano, all’improvviso; poi aprì gli occhi, che fino a quel momento aveva tenuto chiusi, a immaginare chissà cosa, e mi rimise di nuovo sulla schiena, lui tra le mie gambe.

Si avvicinò al mio viso e mi diede qualche bacio distratto, poi si staccò ansimante.

«Fatti scopare.»

Non aspettò una mia reazione e cominciò a tirarmi su le gambe.

Non era esattamente romantico, ma sapevo che da lui non potevo aspettarmi certe finezze. Mi sembrò di sentire il cuore stretto in una morsa: quasi sicuramente l’eccitazione che galoppava.

 

Mettigli il preservativo, mi aveva detto la coscienza. E quello era stato l'unico consiglio che avevo accettato da quella voce fastidiosa.

Doveva intromettersi proprio in quel momento?

«Me lo farai ammosciare, così. Voglio farlo senza.»

Gli sventolai il preservativo sotto gli occhi.

«O così, o niente.»

Non so perché avessi dato retta a quel pensiero, ma, in fondo, non sapevo dove era stato Harvey per quei tre anni: poteva essersi beccato qualcosa.

Me lo strappò di mano e se lo infilò di malavoglia, e feci attenzione che lo avesse srotolato fino in fondo. Poi mi guardò voglioso, fece scorrere un dito su di me e appoggiò le mie gambe sulle sue spalle.

Il battito aumentò.

Emozione, desiderio.

Presto si sarebbe fatto strada dentro di me.

Si inumidì le dita di saliva e le fece passare sulla mia apertura, che istintivamente si contrasse. La massaggiò un pochino, e in parte mi rilassai, poi avvicinò il suo membro.

Chiusi gli occhi.

Ancora battito.

(Paura?)

Sentii la sua punta che cercava di abituarmi dolcemente, ma poi si fece avanti con un'unica spinta e gemetti di dolore. Bruciava da morire e mi si mozzò il fiato. Strinsi forte le coperte, mentre aspettavo che quella sensazione passasse, che il dolore si attutisse.

Lui non mi chiese se mi aveva fatto male.

Prese subito a spingere per darsi piacere, e lo faceva con gli occhi chiusi, perso in chissà quale pensiero.

Il preservativo, almeno, gli permetteva di scivolare dentro di me senza troppo attrito. Alzai gli occhi verso di lui e mi sentii, improvvisamente, semplice oggetto del suo piacere. Il bruciore cominciava a diminuire, ma a ogni spinta pensavo che avrebbe potuto farlo più dolcemente, anche perché ero un po’ fuori allenamento. Forse era colpa mia, perché non glielo avevo detto.

Piano piano mi abituai a quell’intrusione e il dolore si trasformò in piacere. Scariche di adrenalina mi percorsero tutto il corpo, mentre abbandonavo ogni pensiero inquieto.

Volevo sentirlo dentro di me, mentre mi faceva suo, mentre non desiderava altro che me.

Lo guardai e mi sforzai di farlo con occhi sognanti. Cercai di sentire il cuore in fiamme, perché, finalmente, stavo facendo l'amore con l'uomo che amavo. Invece il mio cuore batteva e basta, a un ritmo irregolare, e non perché ero eccitato e lui era il mio grande amore. Mi aveva masturbato quel poco che bastava per farmi venire la voglia. Mi aveva penetrato non appena lo aveva voluto. Spingeva e pensava solo al suo piacere, lasciando che pensassi al mio in solitaria.

Mi sforzai di guardarlo sognante, ma non ci riuscii.

 

Venne poco dopo. Io affrettai le cose prima che uscisse, sporcandomi il petto. Non appena l’eccitazione scemò del tutto, provai un senso di disagio. Harvey si alzò e, senza dire niente, se ne andò in bagno. Mi mossi appena e mi sentii bruciare, là sotto. Sperai che non chiedesse il bis. Mi rimisi disteso, una coperta sul ventre per pulirmi e un braccio dietro la testa. Puntai gli occhi al soffitto, poi li feci scorrere per tutta la stanza. Le pale sul soffitto continuavano a girare imperturbate e a rinfrescare la camera; le serrande abbassate impedivano alla luce del sole di entrare, lasciandoci in quella triste penombra; l’odore del sesso e dei nostri umori si mischiava a quello dell’aria stantia e del fumo impregnato nei cuscini. Non c’erano colori in quella stanza, perché non c’era luce.

Era tutto grigio.

 

Proprio quando sentii gli occhi inumidirsi, lui tornò in camera, senza dire niente. Io mi girai dall’altra parte, e una fitta di dolore tornò a farsi sentire. Per fortuna sparì poco dopo. Lo sentii razzolare tra le sue cose, appoggiate sulla scrivania; poi udii un click e lo stesso odore impregnato nei cuscini inondò la stanza. Si era acceso una sigaretta.

Ironicamente, pensai di essere finito in uno di quei giornaletti per coppie in crisi.

“Mio marito non mi coccola dopo il sesso.”

“Il mio ragazzo si mette a fumare dopo aver fatto l’amore.”

Ero quasi sicuro di aver letto di qualcuno che suonava la chitarra.

Eppure, era proprio così. Harvey era andato in bagno, si era pulito e ora fumava una sigaretta, senza dire niente. Cosa gli costava farmi una carezza? O anche solo chiedermi se mi era piaciuto? Mi sarebbe bastato che mi chiedesse cosa preparare per cena.

E invece ora si era seduto, all’altro capo del letto, e teneva in mano il cellulare. Per qualche minuto lesse qualcosa con molto interesse, forse messaggi, poi bloccò la tastiera e buttò il telefono sul letto. Si mise semi-seduto, la schiena appoggiata alla testiera del letto. E fumava.

La luce che filtrava bastava a malapena per permettermi di vedere la scia di fumo che usciva dalla sua bocca.

Lo guardai, ma il suo unico pensiero sembrava quella sigaretta che stringeva tra le dita. Non esisteva altro. Per tutto quel tempo avevo sperato che mi degnasse di uno sguardo, che mi rivolgesse anche la più piccola delle attenzioni, per farmi capire che mi amava, che fare l’amore con me era stato bello. Non arrivò niente di tutto questo, se non un silenzio che mi riempì d’imbarazzo.

Mi leccai le labbra e provai a dire qualcosa.

«Magari potresti fare un po’ più piano. Più dolcemente, intendo.»

Lui mi guardò per un attimo, poi capì.

«Non mi dirai che ti ho fatto male. O così, o niente

E scoppiò a ridere.

Quella risata mi ferì talmente tanto che rimasi senza parole. Aveva avuto anche il coraggio di scherzare facendomi il verso.

Volli piangere.

(Cresci!)

Sì, dovevo farlo.

Perché non ero più un ragazzino, non ero più il diciottenne inesperto che aveva conosciuto e a cui aveva insegnato il sesso a modo suo.

«Sì, mi hai fatto male. Vorrei che tu facessi più piano.»

Lo fissai con uno sguardo che non ammetteva repliche. Lui mi guardò per più del suo solito attimo.

«Oh, vedo che facciamo sul serio. Sei cresciuto, eh?»

Harvey appoggiò la sigaretta sul posacenere ed espirò, poi si spostò e si avvicinò a me, finché i nostri nasi non si sfiorarono. Potevo sentire il suo fiato impregnato di fumo finirmi sul viso, e per la prima volta trovai quell’odore davvero disgustoso. Alan sfrecciò tra i miei pensieri e mi domandai cosa stesse facendo in quel momento. La cena o, forse, il bucato. Quell’immagine mi rassicurò, mentre le labbra di Harvey si aprivano per dire qualcosa. Il mio cuore perse un battito, ma non era per l’emozione.

«Va bene, farò più piano. Anche se sai che a me piace così.»

Poggiò le sue labbra sulle mie e diede vita a un bacio rude e dal sapore amaro, esattamente come ogni altra sua effusione. Le sue labbra mi baciarono voracemente, finché non sentii la sua lingua picchiettare sui miei denti. Gli feci spazio e il bacio divenne passionale e disordinato, mi infilò le mani in mezzo ai capelli e me li scompigliò, preso dalla foga. Avvertii una fitta di piacere a ogni tocco delle nostre lingue, anche se era presto per avere un altro rapporto; nonostante questo, però, il dolore là sotto mi sembrò già storia passata, il suo egoismo divenne di poca importanza, la voglia sempre più travolgente.

Dopo una quarantina di minuti, lo facemmo di nuovo. Stesse modalità, stessa brutalità – e non serviva essere abituati. Nessuna attenzione per me, a parte qualche carezza più intima.

Tutto si consumò rapidamente, solo per lui.

 

Il bis mi aveva stremato.

Tutta l’eccitazione di quella sera aveva lasciato spazio a un senso di malinconia e qualcos’altro che non sapevo come definire. Sapevo soltanto che mi faceva vergognare di essere nudo davanti a Harvey e forse era per quello che me ne stavo con la coperta tirata su fino a mezzo busto. Non volevo che avesse la sensazione di avermi fatto suo, né che tra noi ci fosse complicità.

Harvey era sempre sicuro di troppe cose, ma non era con una scopata che mi avrebbe conquistato. C’era riuscito con l’ingenuità dei miei diciotto anni, forse perché mi aveva rubato la verginità e a me era sembrato un sogno l’averlo fatto con uno così.

In quel momento, però, volevo di più. Una storia, forse. L’unica cosa di cui ero certo era che non volevo essere trattato come un ragazzino, né che lui pensasse di poterlo fare. Per me non esisteva più nulla di trasgressivo, nulla che lo potesse elevare al di sopra di altri ragazzi. Eravamo uguali, io e lui. Alla pari.

Sentii aprirsi l’acqua della doccia: Harvey si stava lavando. Era scappato subito in bagno per pulirsi e a malapena mi aveva baciato. Non era così fuori dal mondo che non volesse alcun contatto dopo il sesso: non l’aveva mai voluto.

In quel momento, però, qualche coccola non mi sarebbe dispiaciuta o una qualsiasi altra conferma di ciò che erano stati quei momenti per lui.

Mi ributtai sul cuscino e attesi il ritorno di Harvey. Allungai una mano nell'altra piazza del letto e sentii, sotto le dita, una superficie liscia e lucida. Mi voltai e mi accorsi che stavo accarezzando la stampa della maglietta che Alan mi aveva prestato.

Per un attimo lo vidi lì. Torsi il mio corpo per girarmi e raggiungerlo, e il lenzuolo scivolò giù dalle natiche, lasciandomi nudo.

Mi guardai intorno in fretta e furia, ma Harvey era ancora in bagno.

Afferrai la maglietta e me ne tornai sulla schiena, portandomi quel tessuto sul petto. Strinsi forte a me quello che altro non era se non un pezzo di cotone, eppure mi sembrò di sentire, tra le fibre, odore di sapone e ammorbidente. Pensai ad Alan ancora una volta: sempre così ordinato, nella mente come nella vita, e infatti, se si escludeva l'incidente di Oliver, aveva tutto ciò che si poteva desiderare.

Avrei trovato in Harvey la stessa capacità di mettere ordine anche solo al casino che avevo nella mia camera?

La porta del bagno si aprì.

Rimisi il lenzuolo sopra il mio corpo, a coprire la mia nudità, poco prima che Harvey rientrasse in camera. Non alzò nemmeno gli occhi verso di me e cominciò a razzolare tra i vestiti che avevamo buttato a terra poco meno di un’ora prima. Seguii suoi movimenti uno a uno, aspettando quello che prevedeva di guardare verso di me e sorridermi, baciarmi, chiedermi se ero felice.

Si è solo svuotato le palle.

Un pensiero improvviso e tagliente a cui non volli credere. Dovevo solo accettare che Harvey era così. Che si rivestiva guardando un punto indefinito della stanza e che era pronto a dedicarmi un'occhiata una volta chiuso l'ultimo bottone della camicia e con la zip dei pantaloni tirata su.

Mi spuntò un sorriso che mi fece dimenticare ciò che avevo pensato poco prima, un pensiero senz'altro stupido.

Si sedette a bordo letto e si chinò su di me. Cominciò a leccare le mie labbra e a lasciarci sopra piccoli baci, ma ero troppo stremato per qualunque reazione. Nonostante questo, lasciai che la sua lingua scivolasse sulla mia, regalandomi quel brivido che tanto andavo cercando.

Il brivido di sapere che mi voleva ancora anche dopo il sesso e che lo infuocavo anche se non poteva esserci nessuna conclusione pratica.

Mi liberai della maglietta di Alan, che ancora portavo sul petto, e spinsi la testa di Harvey all'indietro, finché non fummo entrambi seduti.

Avevo atteso parole da parte di Harvey, ma dovevo saperlo che non sarebbero arrivate, e che mi avrebbe invece regalato un bacio da urlo, a dimostrazione di quello che erano stati quei momenti con me.

Tutto lo squallore che avevo provato era appena stato spazzato via. Pensai quasi di amarlo. Non glielo dissi solo perché forse era un po' presto.

Tre anni ci avevano sicuramente cambiato più di quanto non immaginassi e non potevo buttare al vento due parole così importanti. Ci avrei riflettuto un altro po', ma in quel momento non desideravo altro che essere al fianco di Harvey ogni momento. Fare l'amore con lui, baciarlo, condividere le giornate.

Si staccò dalle mie labbra e mi osservò con un sorriso malizioso dei suoi, mentre io dovevo avere uno sguardo perso, perché si lasciò andare a un'impercettibile risata.

«Devo andare, Nathan.»

La mia felicità andò in corto circuito.

«Come sarebbe?»

Buttai un occhio verso la sveglia sul comodino e notai che era passata poco più di un'ora da quando era arrivato.

«Mi dispiace. Ho avuto un contrattempo.»

«Quindi non mangiamo insieme?»

Lui scosse la testa affranto, ma quell'espressione mi sembrò solo una montatura.

«Non questa sera, ma ci saranno altre occasioni. Non fare quella faccia, dai.»

Mi spompai come un palloncino gonfio appena bucato.

Si alzò dal letto e forse si aspettava che facessi altrettanto. Invece rimasi seduto lì dov'ero, le dita ben salde al lenzuolo che mi coprì almeno in parte da quell'umiliazione.

Continuai a fissarlo e a non dire niente, mentre lui si rigirava le chiavi della macchina tra le mani, finché non si lasciò scappare un "Ciao", senza tutto quel pentimento che mi aspettavo di trovare. Abbandonò la stanza e, quando fu fuori dalla mia vista, mi sembrò di sentirlo inspirare rumorosamente.

Undici agosto duemilauno: proprio una data da ricordare.

 

Quando sentii la porta chiudersi con un tonfo secco, i nervi mi si distesero. Mi resi conto che avevo voglia di stare da solo, di pensare a quello che era accaduto quel pomeriggio.

Già, cos'era successo, se non una scopata?

Mi sentivo davvero come i protagonisti di quelle rubriche d'amore; bello schifo.

In quel momento riuscii a guardare la mia vita per ciò che era: un totale casino. Ero pronto a scommettere che certe cose, a persone normali, non sarebbero mai capitate. A persone capaci di capire chi hanno davanti con un'occhiata, di saper capire quando è il caso di dire basta, di non ripetere due volte gli stessi errori. Io non ne ero capace, così mi mordevo la coda, inciampavo sempre nello stesso ostacolo e rimanevo fermo al punto di partenza.

In quel momento, mi accorsi cosa significava avere una famiglia: la stampella a cui aggrapparti quando inciampi, se non sei stato abbastanza attento da ascoltarli quando ti dicevano che era pericoloso. Capii in quel momento che non avevo appigli. Nessuno pronto a dirmi che stavo sbagliando, che dovevo fare scelte diverse, a darmi un consiglio per vedere la vita in un'altra ottica.

Avevo ventun anni e credevo di esser grande, e invece non me la cavavo tanto meglio di un diciottenne che pensa di poter conquistare il mondo da solo.

Non avevo nessuno. Solo, in questo mondo, senza una guida.

Uno degli ultimi consigli che mio padre aveva dato al suo figlio ancora eterosessuale, quando aveva saputo di un ballo scolastico, era stato: "Non fare cazzate". Quante ne avevo fatte, poi? Ma soprattutto: quante ne avevo fatte per fare un dispetto a lui?

Mi resi conto in quel momento che erano solo stupidaggini. Fare cazzate avrebbe danneggiato solo me, non importava se le facevo per far saltare i nervi a qualcuno. Ma ormai non avevo più la capacità di capire dove mi avrebbero portato le mie decisioni, se non sbattendo contro il muro della consapevolezza di aver preso l'ennesima strada sbagliata.  

In quel momento, avevo voglia e bisogno di un consiglio. Giusto o sbagliato che fosse, volevo che qualcuno prendesse qualche decisione al posto mio, o che fosse in parte responsabile per qualunque piega avesse preso la mia vita. O forse, in realtà, volevo solo che qualcuno mi dicesse che sarebbe andato tutto bene. Sapevo che sarebbe stata una bugia, ma mi avrebbe almeno lasciato col dubbio, se a dirmelo non ero io stesso.

Presi il telefono e cominciai a scorrere la rubrica. Sapevo chi volevo chiamare.

Ascoltai il suono di libero non senza un po' di apprensione, perché avevo la sensazione che non avrebbe risposto, come in un brutto sogno dove tutto va storto; invece lo fece poco dopo.

«Nathan?»

Mi bastò sentire quella velata preoccupazione nella sua voce per sentirmi subito meglio.

«Disturbo? Stavi mangiando?»

«No, non ancora. Dimmi tutto.»

Esitai un attimo.

«Che fai stasera?»

Sarebbe potuta sembrare una domanda interessata, invece apparve quasi infantile. Mi sentivo come il bambino sfigato che cerca di entrare nel giro di quelli un po' meno sfigati di lui. Avevo buttato lì la domanda, nella speranza che non mi mandasse via.

«Sono fuori con Ash, andiamo in un locale.»

Seguì un momento di silenzio, che nessuno dei due riuscì a riempire.

Era occupato.

Avrei dovuto saperlo.

Perfino Alan era riuscito a ritrovare la via per uscire dal pantano dov'era caduto. Io sarei rimasto in fondo al burrone, sporco di fango. Avrei piantato le unghie su quella parete un milione di volte, ma sarei scivolato a ogni tentativo.

«Vuoi venire con noi?»

Ma Alan aveva il dono di calare una corda sempre al momento giusto. Come i genitori offrono una stampella e gli amici la loro spalla.

«Posso?»

Ero sicuro di aver tradito qualche emozione di troppo, ma parlare con lui mi faceva provare quasi pena per quelle anime solitarie in fondo al burrone, che forse avevano anche smesso di lottare. Non ero solo: avevo Alan, che non era né un genitore, né un amico, né un amante. Era Alan, semplicemente, ma a me bastava.

«Tutto bene? Non eri con Harvey?»

Mi lasciai scappare una risata amara.

«È dovuto andare via.»

«Ah. Mi dispiace. Sei solo, quindi?»

«Sì.»

Lo sguardo mi cadde sulla maglietta di Alan, che stavo stringendo senza nemmeno accorgermene.

«A meno che tu non preferisca la tua solita pizza a domicilio, io ho ancora una ventina di minuti prima di mangiare. Se ti va...»

Mi sorprese il fatto che non mi avesse fatto un invito diretto, come faceva sempre per ogni cosa; ma ciò che mi sorprese davvero fu quella cascata di calore che mi invase il petto e il sorriso cretino che mi apparve sulla faccia.

«Tempo di rivest...», e mi fermai di botto. Aveva capito di sicuro. In fondo, di che mi preoccupavo? Me l'avrebbe letto in faccia. «Cioè, vengo volentieri.»

«Va bene. Ti aspetto, allora. A dopo.»

Ci salutammo con entusiasmo, almeno da parte mia.

Mi liberai da quel lenzuolo di troppo, raccolsi mutande, pantaloni, maglietta e mi rivestii in fretta e furia. Passai dalla cucina a prendere una mentina, prima di uscire di casa e precipitarmi da Alan.

 

Arrivai dopo mezz'ora e sperai che Alan non fosse troppo fiscale con gli orari. Era quasi tardi per mangiare, ma lui non ci fece caso più di tanto e, anzi, mi accolse sulla porta di casa con un gran sorriso, per quanto ne era capace.

Come lo vidi, mi accorsi che il ragazzino in fondo al burrone era solo un lontano ricordo. Buttai un'occhiata a quelle sagome che ancora cercavano di risalire su, senza successo, mentre io le osservavo dall'alto. Alan mi aveva calato la corda, mi aveva detto cosa fare.

Per questo, quando lo raggiunsi alla porta, non potei fare altro che gettargli le braccia al collo e abbracciarlo.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti! L’atmosfera comincia a scaldarsi, hehe! Anche se poi Harvey è dovuto andare via subito, lasciando il povero Nathan in balia di sé stesso ç___ç Ma per fortuna c’è Alan-to-the-rescue XD

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che anche i prossimi (che personalmente amo) risultino coinvolgenti!

 

Ringrazio ancora tutte le persone che leggono e recensiscono, in particolare Eleonora a cui va un pezzo del mio cuore <3

 

A giovedì prossimo!

holls





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