Singhiozzi e
grida riempivano la stanza, un turbinio di colori senza contorni
occupava il
mio campo visivo e si condensava in una macchia bianca.
Non un vero
colore, la tinta della vergogna.
Sentivo pungere
nella mia testa, come se un miliardo di elettrodi fossero ancora
conficcati nel
mio cuoio capelluto.
Fu una spinta più
forte delle altre a riscuotermi: Indi mi strattonava per la maglia e
poi mi
lasciava andare bruscamente nella speranza di vedermi perdere
l’equilibrio, il
volto distorto dalla rabbia e incrostato di lacrime.
“Pensavo che tu
mi amassi! Sei una stronza, una traditrice… ti odio! Fai
schifo, sei una
vergogna per la nostra comunità! Come hai potuto ingannarmi
così?” strillava
istericamente, la sua voce acuta e robusta sembrava sul punto di far
crollare
le pareti della sala d’aspetto. Quelle stesse pareti che, un
paio di mesi
prima, avevano assistito a festeggiamenti, sorrisi e sguardi colmi
d’orgoglio.
Rimasi inerme,
gli occhi che si spostavano dal volto della mia ex ragazza al marchio
che mi
circondava il polso destro. Sembrava un bracciale candido, solo che
sarebbe
rimasto al suo posto per il resto della mia vita.
Sapevo già come
sarebbe andata a finire, ma non per questo faceva meno male. Ero
talmente
stordita che non riuscivo nemmeno a proiettarmi nel futuro, non
m’importava.
Mamma Lili e
mamma Carol piangevano in un angolo, strette in un abbraccio doloroso
nel
tentativo di farsi forza a vicenda. Non sapevo se ad alimentare la loro
disperazione fosse la delusione nei miei confronti e la consapevolezza
che nel
giro di una settimana mi avrebbero perso per sempre.
Jonas aveva
lasciato la sala d’aspetto non appena avevo varcato la soglia
col mio nuovo
marchio sul polso, insieme a Destiny, Toyah e qualche altro amico che
aveva
partecipare a quella grottesca cerimonia. L’unico a essere
rimasto lì era
Stephen, che osservava impotente la furia di Indi.
“Non parli?
Cos’hai da dire? Sei la persona peggiore che abbia mai
abitato questo pianeta,
meriti di marcire sulla Terra insieme a tutte le altre puttane come
te!” gridò
ancora lei, mollandomi un pugno all’altezza del seno destro.
Avvertii un
dolore pungente e d’istinto mi ritrassi, andando a sbattere
contro una
poltroncina che mi stava alle spalle.
“Indi, calmati”
intervenne Stephen, facendo un passo avanti e bloccando la ragazza per
un
braccio.
Lei si divincolò
e gli mollò una gomitata. “Dovrei stare calma
secondo te?! Sono stata per quasi
due anni con un’etero del cazzo, mi sono illusa che potesse
esserci un futuro
per noi… io pensavo che mi amasse!” Si
voltò nuovamente verso di me e tirò un
altro pugno, stavolta diretto al volto; lo zigomo mi bruciò
maledettamente e la
vista mi si appannò. “Ti odio, hai capito? Sei una
merda! Succhiacazzi, troia!”
Ci trovavamo in
un luogo pubblico e Indi stava mettendo su una scenata che in qualsiasi
altra
circostanza sarebbe stata fermata e sanzionata, ma stavolta era
diverso: era
quasi legittimata a trattarmi in quel modo, lo meritavo, ero uno scarto
della
società. Nessuno sarebbe intervenuto per difendere un errore
di percorso come
me.
“Mi dispiace”
biascicai, ma in realtà non mi dispiaceva affatto per averla
ferita. Nemmeno
lei mi aveva mai amato, lo sapevo bene, ma soprattutto non aveva mai
fatto
alcuno sforzo per capirmi. Io avevo semplicemente sperato di poter
cambiare, di
potermi correggere accanto a lei, ma Indi non era
stata in grado di
sortire quest’effetto su di me.
You
didn't change me
You didn't think I needed changing
“È tutto quello
che sai dire? Col tuo dispiacere mi ci pulisco il culo”
continuò a sbraitare
Indi, il mascara colato sulle guance e il viso ancora paonazzo di
rabbia.
Una fitta allo
stomaco mi colse impreparata, la vista mi si appannò e per
un attimo temetti
che sarei svenuta lì, in quell’istante. Avevo un
viscerale bisogno di uscire,
lasciarmi alle spalle quella che non potevo più considerare
la mia gente e
fumare una sigaretta.
Superai Indi, che
intanto aveva preso a piangere disperata con le mani sul volto, e tirai
dritto
verso la porta che dava sul terrazzo. Poco prima di afferrare la
maniglia però
sentii una mano posarsi sul mio braccio sinistro; mi voltai di scatto e
mi
trovai davanti il viso di mamma Lili. I suoi lineamenti delicati erano
distorti
dal dolore, gli occhi celesti gonfi di pianto e i capelli biondi
completamente
sfatti e scarmigliati. Sembrava aver perso improvvisamente una decina
d’anni,
pareva più vecchia e sciupata.
Mi sorpresi del
fatto che avesse avuto il coraggio di toccarmi, dal momento che
rappresentavo
il disonore della famiglia.
“Tesoro”
mormorò
con un filo di voce.
“Sono un mostro”
ribattei io atona. Era un dato di fatto.
“Non mi importa:
sei mia figlia” singhiozzò, prima di attirarmi a
sé e stringermi in un
abbraccio straziante.
Ero in una fase
di shock talmente profonda che non riuscii a ricambiare né
di piangere a mia
volta, rimasi inerme a lasciarmi cullare tra le braccia di mia madre, a
pensare
che non meritavo quell’amore da parte sua. Non riuscivo
nemmeno a immaginare
come si sentisse in quel momento, mentre abbracciava la sua gioia
e il
suo dolore più grandi. Le sue lacrime piovevano tra i miei
capelli, inondavano
anche la mia pelle e io desiderai di morire lì, in
quell’esatto istante,
avvolta dall’ultima briciola d’affetto che avrei
mai ricevuto nella vita.
Le concessi tutto
il tempo di cui aveva bisogno, ma quando mi lasciò andare mi
precipitai subito
fuori ed estrassi il mio pacchetto di sigarette. Ne accesi una, presi
una
boccata di fumo e poi feci scorrere la punta incandescente a un
millimetro
dalla pelle del polso destro, dove campeggiava il mio nuovo bracciale
terribilmente bianco.
Il bianco non era
considerato un colore, non era niente, era del tutto rifiutato dalla
nostra
società. Così come il nero, che marchiava il
polso dei ragazzi etero.
Sognavo di
scacciarlo via, quel tatuaggio indelebile che mi aveva appena rovinato
la vita.
Magari se mi fossi bruciata la pelle abbastanza in
profondità e avessi lasciato
che una cicatrice mi attorniasse il polso, sarebbe scomparso.
Fumai, tossii,
sollevai gli occhi al cielo e vidi la Terra che svettava sopra la mia
testa,
enorme e minacciosa. Se avessi potuto spiccare un salto e raggiungerla,
mi
sarei risparmiata la settimana di agonia prima della mia partenza
ufficiale.
“Joy.”
Stephen.
L’ultima persona con cui avrei voluto parlare in quel
momento. Prima di uscire
l’avevo visto cingere le spalle di Indi nel vano tentativo di
consolarla, non
pensavo che mi avrebbe seguito.
Non risposi.
“Lo sapevi?” Mi
affiancò, ma nonostante ciò non mi voltai e
continuai a fumare con i gomiti
poggiati alla balaustra in cemento.
“Non ti faccio
schifo?” borbottai in tono duro.
“Sono soltanto
sconvolto, non so come… non me l’aspettavo. Questo
significa che te ne andrai…”
Era la prima volta che lo vedevo così in
difficoltà con le parole.
“Sì. Non
mancherò
a nessuno.”
“Non è
vero!”
obiettò subito lui, la voce venata di qualcosa simile alla
disperazione. Perché
non mi odiava come tutti gli altri? “Lo sapevi?”
Mi morsi il
labbro.
“Perché non mi
hai detto niente?”
Mi faceva quasi
tenerezza: nemmeno lui aveva capito niente di me, in fondo. Non gli era
bastato
essere il mio migliore amico per leggermi dentro – a nessuno
era bastato, ero
troppo diversa da tutti loro.
You
didn't save me
You didn't think I needed saving
“Perché non me ne
hai parlato? Avremmo lottato, avremmo fatto qualcosa
per…” proseguì, ma io non
ne potevo più.
Spinsi la punta
del mozzicone sul polso destro, avvertendo un dolore atroce e bruciante
che mi
si conficcava fin nel cervello; forse questo mi avrebbe riscosso una
volta per
tutte.
“Joy! Che cazzo
fai?”
“Lo vuoi capire o
no che sono risultata negativa a questo fottuto test perché
sono innamorata di
te?!” strillai isterica, liberando tutte le lacrime che non
avevo mai pianto e
le verità a cui non avevo mai osato dar voce. Una pioggia
calda mi inondò le
guance; lasciai cadere la sigaretta oltre la balaustra e diedi le
spalle a
Stephen, sperando che dopo quella disgustosa dichiarazione mi lasciasse
in
pace. Tremavo, il polso mi bruciava in maniera lancinante e nonostante
ciò
volevo farmi del male, ancora e ancora.
Ma Stephen non se
ne andava, avvertivo la sua presenza alle mie spalle. Non ne voleva
sapere di
lasciarmi singhiozzare in pace.
“Mi dispiace”
mormorò infine. “È colpa mia.”
Ma che diavolo
stava dicendo? Sapevamo entrambi che la peccatrice tra i due ero io.
Ebbi il coraggio
di lanciargli uno sguardo con la coda dell’occhio e mi
accorsi che aveva gli
occhi lucidi. Non potei fare a meno di pensare che fosse di una
bellezza senza
eguali, così fragile e trasparente.
“Non puoi fare
niente.”
“Avresti dovuto
dirmelo prima, Joy.”
“E rovinare la
nostra amicizia? Volevo goderne fino all’ultimo
giorno.”
Lui mi sorprese,
cingendomi i fianchi e attirandomi a sé per abbracciarmi
forte. Mi fece posare
il capo sulla sua spalla e mi carezzò piano una guancia
umida di pianto, mentre
le nostre lacrime cominciarono a fondersi.
Avrei voluto
spingerlo via e andare a nascondermi in un angolo, perché
dopo quella stretta
sarebbe stato ancora più doloroso dirgli addio. Ci stavamo
facendo del male a
vicenda e lo sapevamo entrambi.
“Me l’hai detto
tu qualche settimana fa, no? Non c’è nulla di
sbagliato nell’amore, qualunque
sia il suo oggetto. E quello che provi ai miei occhi ti rende ancora
più
nobile, Joy.”
Lo amavo. E,
nonostante le devastanti conseguenze di quel sentimento, non me ne
pentivo.
The
skeletons I wanted to bury
You liked out in the light
Non avevo portato
nulla con me, se non lo stretto necessario: avevo indossato la giacca
in jeans
che era appartenuta a Stephen, messo al collo il ciondolo
d’oro che le mie
mamme mi avevano regalato per i miei diciotto anni, con i nostri tre
nomi
incisi sopra, ed ero salita sul razzo che mi avrebbe portato via dalla
Luna per
sempre.
Ero riuscita a
non piangere durante il momento dell’addio. Non che in molti
si fossero
premurati di venire a salutarmi per l’ultima volta: oltre
alle mie madri –
mamma Lili disperata e in lacrime, mamma Carol un po’
più distaccata e
refrattaria per via dell’enorme delusione che le avevo dato
–, solo Stephen mi
era rimasto accanto fino alla fine.
Mentre lo
guardavo in viso per l’ultima volta – quel
bellissimo viso dai lineamenti
marcati ma non troppo affilati, così armonioso che sarebbe
potuto appartenere a
un angelo – avevo pensato che ero stata estremamente
fortunata ad averlo avuto
nella mia vita e ad aver goduto della sua amicizia per tutti quegli
anni. Era
un ragazzo speciale, dotato di una sensibilità fuori dal
comune e, nonostante
fossi contro tutti i principi del suo mondo, se ci fosse stato un modo
per
salvarmi lui sicuramente l’avrebbe fatto.
Non lasciai
trasparire e non raccontai a nessuno del dolore che provavo
all’idea di
andarmene e perdere tutto: mi sentivo svuotata, stordita, morta dentro.
Era il 22 giugno
3005.
Mentre guardavo
fuori dal finestrino del razzo, dove un abisso scorreva tra la Luna e
la Terra,
cominciai a pensare forse per la prima volta a ciò che mi
avrebbe atteso sul
mio nuovo pianeta. Non ne sapevo molto, ero soltanto consapevole che
della
civiltà terrestre non fosse rimasto quasi niente e che
tornare indietro era
praticamente impossibile.
Inizialmente quei
percorsi di correzione erano stati ideati, appunto,
per correggere i
circuiti neurali deputati all’orientamento sessuale, ma erano
estremamente rari
i casi in cui una persona negativa al test degli elettrodi potesse
risultare
positivo più avanti. Talmente rari che negli anni il Governo
aveva deciso di
tagliare i fondi per i controlli periodici sulla Terra, quindi le
possibilità
di tornare indietro erano state ridotte all’osso fino a
scomparire. Da barlume
di speranza, quel viaggio si era tramutato in un esilio senza ritorno.
Per la prima vera
volta, dentro quella cabina immersa nella penombra dotata di ogni
comfort, mi
sentii davvero sola.
Serrai le
palpebre fino a strizzarle con violenza e abbandonai il capo sul
soffice
schienale della mia postazione, sentendolo pesante per la miriade di
pensieri
che l’avevano affollato e continuavano ad affollarlo.
Nelle ultime due
settimane non avevo chiuso occhio e improvvisamente un senso di
spossatezza, misto
alla più opprimente impotenza, mi si era abbattuto contro.
Camici
bianchi, uno schermo luminoso che fendeva
l’oscurità della stanza, un silenzio
interrotto solo dal leggero ronzio dei macchinari.
Tanti piccoli
aghi a pungermi il cuoio capelluto.
“Osserva
attentamente queste immagini per diversi secondi. Rilassati e lasciati
trasportare dalle sensazioni che ti danno.” Era una voce
ostile a pronunciare
quelle parole, lontana e vicina allo stesso tempo, quasi rimbombasse
direttamente nella mia testa.
Attorno a me
avvertivo delle presenze, ma un terrore paralizzante mi impediva anche
solo di
roteare gli occhi; allora li tenevo fissi sullo schermo, ora di un
azzurro
intenso che aveva la capacità di ipnotizzarmi.
Dentro le mie
iridi cominciarono a scorrere delle immagini, dei volti: uomini e
donne, in
ordine casuale e dai diversi tratti. E poi altre parti del corpo:
petti, seni,
fianchi, vite, cosce.
Avevo il
respiro corto, volevo smettere di guardare ma era come se il mio capo
fosse
stretto in una morsa – forse lo era davvero.
Nella mia
testa le foto si susseguivano all’impazzata, allo stesso
ritmo del cuore che
picchiava impazzito contro la gabbia toracica.
Avevo le mani
sudate.
Le orecchie in
fiamme.
Ogni muscolo
teso.
Qualcosa si faceva
strada tra le mie cosce, una sensazione disgustosa e strisciante che
voleva
maciullarmi le viscere.
Davanti a me
comparvero dei volti noti: quelli dei miei amici.
Il volto di
Indi.
Il volto di
Jonas.
Il volto di
Stephen.
Fu in quel
momento che smisi di respirare.
Una voce alle
mie spalle ruppe il silenzio, poco più di un sussurro ma
dalla potenza
distruttiva di un’esplosione: “Qualcosa non
va”.
Faceva
caldo. Non si trattava solo di afa, ma di un
bollore talmente bruciante che non appena misi piede al suolo venni
colta da un
capogiro. Mi strappai di dosso la giacca in jeans, ma ben presto
compresi che
non sarebbe bastato nemmeno spogliarmi del tutto per lenire quella
sensazione
soffocante.
A scuola ci
avevano insegnato che prima
dell’Esplosione la Terra era protetta
dall’atmosfera, una stratificazione di
gas che ne garantiva equilibrio termico e protezione dalle radiazioni
solari;
durante il trasloco sulla Luna si era cercato di emulare
artificialmente questo
sistema, in modo da rendere il pianeta un luogo vivibile.
Dopo
l’Esplosione qualcosa era cambiato
sulla Terra: una falla nella stratosfera aveva rotto gli equilibri e,
nonostante il baricentro del problema si trovasse presso le vecchie
Americhe,
le ripercussioni si sentivano anche laddove la Terra era rimasta
vagamente
abitabile.
Il razzo era
atterrato su un’enorme
distesa sabbiosa e arida sulla quale non vi era traccia di vita
vegetale: la
polvere grigio-giallastra rifletteva fastidiosamente la luce del sole,
feriva
gli occhi e s’infiltrava nelle narici.
Tuttavia mi
sorpresi nel notare che non
eravamo soli.
Mentre
l’astronauta si preparava a
ripartire, un’orda di donne dalle diverse età
raggiunse di corsa il monumentale
mezzo bianco lucente. Cominciarono a bussare disperatamente sulla
superficie del
razzo per attirare l’attenzione della donna ai comandi; lo
shuttle era stato
preso d’assalto come succedeva alle serate importanti con le
auto dei VIP.
Mi distanziai e
osservai la scena con
confusione: dopo qualche insistenza l’astronauta scese dal
mezzo, protetta
dalla sua tuta, e con fare schivo afferrò alcuni oggetti che
la folla le
tendeva.
Non sapevo come
catalogare l’evento a cui
stavo assistendo.
“È
l’unico modo che abbiamo per
sopravvivere.”
Colta alla
sprovvista, sobbalzai e mi
voltai di scatto. Una ragazza poco più bassa di me, dai
fianchi larghi e i
lunghi capelli castani e mossi, mi scrutava con una certa
curiosità. Mi sentii
subito in soggezione.
“Non
appena un razzo atterra nei dintorni,
facciamo delle richieste all’astronauta di turno
affinché la prossima volta ci
porti delle risorse dalla Luna. In teoria sarebbe illegale, ma
insistiamo e
impietosiamo tanto che alla fine ci accontentano. Non potremmo sperare
di
ricostruire un mondo civilizzato altrimenti.”
Rimasi colpita
non tanto dalle parole che
quella ragazza aveva detto, ma dal fervore con cui le aveva pronunciate
e dalla
luce che le illuminava le iridi color mogano. C’era qualcosa
in lei che mi
trasmetteva forza, determinazione, speranza.
Non sapevo bene
come ribattere.
“Ehi,
benvenuta all’inferno comunque”
proseguì allora lei, tendendomi una mano. “Io sono
Miracle. E non ridere: i
miei padri non potevano scegliere nome peggiore per me!”
Non avrei riso
comunque. Strinsi debolmente
le sue dita e mi presentai: “Joy”.
Subito il mio
sguardo corse al suo polso,
dove campeggiava il tatuaggio identico al mio; un bracciale di un
bianco
cangiante, ancora più evidente sulla sua pelle arrossata.
Miracle sorrise
amaramente. “Quello sta lì
da quattro anni ormai.” Diede una rapida occhiata al mio
marchio. “Invece vedo
che tu hai cercato di eliminarlo. Beh, sappi che è
impossibile, quello rimarrà
lì qualsiasi cosa tu faccia” commentò,
notando le piccole ustioni che mi ero
causata con la sigaretta qualche giorno prima.
“Non
credo cambi molto a questo punto”
borbottai, guardandomi brevemente attorno.
“Senti…
è pericoloso stare qua fuori
durante il giorno, le radiazioni solari sono molto forti e la
prolungata
esposizione ci farà venire qualche tumore a lungo andare. In
genere noi
trascorriamo le giornate dentro.”
“Dentro?”
mi lasciai sfuggire, sempre più
perplessa. Ero atterrata nel bel mezzo del niente, dove avremmo potuto
trovare
riparo?
Solo affinando
la vista mi resi conto che
sulla linea dell’orizzonte si stagliava un complesso di
strutture che non
riuscii a identificare meglio, complice la lontananza.
Miracle
annuì e cominciò ad avviarsi in
quella direzione a passo svelto, facendo cenno di seguirla.
“Ecco, quella che
vedi là in fondo è Città del
Capo… o meglio, sono i suoi resti. Un tempo è
stata
la capitale legislativa della Repubblica del Sudafrica ed è
una delle
pochissime costruzioni artificiali che l’Esplosione non ha
del tutto spazzato
via. Quando la comunità delle Bianche ha provato a rimettere
insieme uno
straccio di civiltà, è partita proprio dalle sue
macerie. Adesso è il nostro
epicentro, la nostra unica casa.”
“E
tutte quelle persone? Non sono a
rischio sotto il sole?” chiesi preoccupata, accennando al
capannello di donne
che ancora stazionava attorno al razzo.
“Ci
seguiranno non appena avranno finito.
Non c’è altra soluzione.”
Lungo il
tragitto che ci separava da Città
del Capo, Miracle non smise per un attimo di parlare: mi
spiegò, senza neanche
attendere che glielo chiedessi, il modo in cui si viveva in quel luogo
e come
le ragazze approdate sulla Terra cercavano di sopravvivere. Mi
rassicurò sul
fatto che sul pianeta luce e ombra si alternavano ogni giorno, quindi
si aveva
la possibilità di uscire e svolgere qualsiasi
attività durante la notte;
raccontò di come, attraverso dei favori chiesti alle
astronaute di passaggio,
la comunità fosse riuscita a costruire delle piccole serre e
degli spazi al
coperto in cui colture e bestiame potessero crescere lontani dalle
dirette
radiazioni solari, che ne avrebbero altrimenti stroncato la vita. Era
così che
si nutrivano, anche se il loro sistema di protezione era abbastanza
rudimentale
e ciò che ricavavano da agricoltura e allevamento era appena
sufficiente per la
sopravvivenza.
“Gli
animali si ammalano, le piante
muoiono e anche noi facciamo la stessa fine. Il cibo che mangiamo non
è sano,
ma è tutto ciò che abbiamo. Da una settantina
d’anni a questa parte è stato
inaugurato pure uno studio medico e scientifico in cui le
più colte ed esperte
in materia conducono degli studi sul problema, quantomeno per provare
ad
arginarlo e cercare delle potenziali cure per noi.”
Era pazzesco:
ero arrivata da poco meno di
mezz’ora e avevo subito trovato qualcuno pronto ad
accogliermi e a spiegarmi le
regole di quel nuovo mondo. Mi domandai più volte come mai
Miracle fosse tanto
gentile con me, che risultavo così fredda e chiusa nel mio
ostinato silenzio,
ma non le posi il quesito.
Una volta
giunte presso la vecchia Città
del Capo, mi resi conto che si trattava di un assembramento di bassi
edifici,
alcuni in parte crollati, altri restaurati alla bell’e meglio
con ciò che il
territorio offriva – macerie, rovine, resti di qualcosa che
in passato era
stato molto più grande.
Le strade
polverose, sterrate e
disseminate di calcinacci erano deserte; un’afa soffocante si
sprigionava dal
suolo, talmente intensa da far bruciare gli occhi. Tentai comunque di
tenerli
aperti ed esaminare il più possibile quel luogo spettrale e
devastato, avvolto
dal silenzio e da un’immobilità assoluti,
spaventosi. Venni colta da un moto di
repulsione e contemporaneamente da una profonda tristezza.
Dopo una breve
camminata, arrivammo presso
un edificio che a me pareva uguale a tutti gli altri e Miracle
bussò a un’approssimativa
porta in legno per annunciare il suo arrivo, poi si voltò
verso di me con fare
complice. “Io vivo nella casa di Annie. È un
po’ piccola, ma sono sicura che
staremo comode anche in tre.”
Entrammo e io
ebbi fin da subito la
sensazione di essere un’intrusa. Le finestre erano ovviamente
oscurate e
sbarrate con dei pannelli in legno, così i miei occhi
dovettero abituarsi alla
penombra prima di scorgere qualcosa dell’angusto ambiente.
Non c’era molto da
vedere in realtà: una ragazza dai capelli lisci e scuri
stava seduta attorno a
quello che somigliava a un tavolo ed era intenta in qualche
attività che non
riuscivo a identificare – forse cuciva.
“Ehi
Annie, c’è un nuovo arrivo!”
annunciò
a gran voce Miracle.
Lei
sollevò il capo e mi scrutò per un
istante, per poi sorridermi dolcemente e alzarsi per potersi
presentare. “Io
sono Annie, una delle veterane: mi trovo qui da undici anni. Benvenuta
a casa,
sarò felicissima di accoglierti” esordì
con un tono di voce basso e calmo,
quasi rassicurante.
Per la prima
volta da quando avevo
lasciato la Luna mi sentii un po’ meglio. C’era
qualcosa in Annie, nel modo
sicuro con cui mi stringeva la mano e nella dolcezza che lessi dentro i
suoi
occhi, che sapeva di famiglia.
Biascicai il
mio nome, sempre più
frastornata, poi aggiunsi: “Non vorrei essere di
disturbo”.
Annie scosse il
capo. “Tutti hanno bisogno
di una casa e, in una situazione complicata come la nostra, chi ne ha
una la
apre al prossimo. Siamo felici di averti nella nostra famiglia e nella
nostra
comunità.”
“Questa
sarà la tua postazione, accanto
alla mia!” esclamò Miracle, che intanto era
già schizzata dall’altra parte
della stanza e indicava un piccolo spazio vuoto accanto a uno spoglio
giaciglio. “Non abbiamo un letto, ma dopo il tramonto
penseremo anche a questo.
Intanto se vuoi riposarti puoi prendere il mio: immagino che sarai
esausta dopo
il viaggio.”
Effettivamente
sentivo le gambe cedere,
avevo bisogno di sedermi. Le rivolsi un’occhiata grata e
presi posto su quel
letto improvvisato per niente comodo, ma più accogliente di
qualsiasi materasso
avessi mai provato.
Miracle mi
sorrise in una maniera così
genuina e sincera che un nodo mi si formò in gola.
Adesso capivo
come mai era stata così
gentile fin dall’inizio: per quanto calpestate, esiliate e
costrette a una
tortura disumana, tra le donne della Terra Bianca vigeva una
solidarietà che le
legava nel profondo. Non era il cibo scarso o il riparo dalle
radiazioni a
garantire loro la sopravvivenza, ma la forza e la determinazione che
nasceva
dalla loro unione.
E io ora facevo
parte del loro mondo.
“Come
mai sei qui, Joy?”
L’improvvisa
domanda di Miracle mi fece
sobbalzare e abbassai istintivamente lo sguardo sul modesto pasto che
avevo nel
piatto: verdure rachitiche e dal colorito biancastro.
Io, lei e Annie
sedevamo al tavolo per
quella che poteva considerarsi una cena – non sapevo bene in
quale parte della
giornata ci trovassimo, ma mi avevano detto che a breve il sole sarebbe
tramontato.
“Beh…
sono risultata negativa al test
degli Elettrodi” bofonchiai in imbarazzo.
Da quando ero
giunta sulla Terra, il
giorno precedente, non avevo parlato granché e non avevo
raccontato nulla alle
mie nuove coinquiline; ero ancora troppo scossa e stordita da quel
nuovo
presente.
“Questo
era ovvio. Voglio dire… sapevi già
di essere etero o è stata una sorpresa?”
proseguì Miracle.
“Smettila”
la rimproverò Annie a mezza
voce, carpendo il mio disagio.
“Io
per esempio” riprese la più giovane,
mandando giù un boccone, “non mi sono innamorata
di un ragazzo, però da
adolescente ho cominciato a interessarmi al cinema pre-Esplosione e
sono andata
a cercare del materiale a riguardo, negli archivi online illegali
ovviamente.
Hai mai fatto caso al fatto che in tv o al cinema si trovano solo
storie con
delle coppie omosessuali?”
Annuii: certo
che ci avevo fatto caso, era
una delle tante strategie che la società metteva in atto per
inculcare
l’omosessualità come unica opzione.
“Ovviamente
i film prodotti sulla Terra
non vengono diffusi e trasmessi, nonostante ne esistano a milioni.
È stato
proprio informandomi sull’argomento che ho scoperto questo
diverso modo di
amare e mi ci sono riconosciuta. Fino ad allora sentivo di avere
qualcosa di
diverso dagli altri, ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse
perché ero
totalmente ignorante
sull’eterosessualità.”
“Un’intera
fetta di arte ci è stata negata
solo perché non conforme alle convenzioni”
commentai, rendendomi conto solo in
quel momento della gravità della situazione.
Miracle si
batté una mano sulla fronte.
“Lasciamo perdere…”
“Io
ho avuto una vera storia d’amore prima
di essere portata qui” intervenne Annie. I suoi occhi
nocciola, solitamente
sereni e capaci di infondere calma, si erano velati di malinconia.
“Mi sono
innamorata di un ragazzo, Aiden, e lui si è innamorato di
me; abbiamo vissuto
clandestinamente la nostra relazione per un anno e mezzo, siamo
riusciti a non
farci scoprire e abbiamo cercato di godere di ogni momento, consapevoli
che al
nostro diciottesimo compleanno saremmo stati divisi.”
“Wow.”
Ammiravo sinceramente il loro
coraggio e la loro scelta, lei e il suo amato avevano sfidato la sorte
pur di
vivere il loro amore.
“Pochi
giorni prima del mio test nella
Stanza degli Elettrodi venne fuori che ero incinta.” Annie
serrò per un attimo
le palpebre, la sua voce era venata di un dolore che non credevo
potesse
appartenerle. “Non poteva che essere il frutto di
un’unione tra un uomo e una
donna. Dovetti rivelare il nome del padre –
l’avrebbero comunque scoperto
tramite il test del DNA – e mi costrinsero ad abortire, prima
di caricarmi su
un razzo il più in fretta possibile. Non hanno nemmeno
concesso a me e Aiden un
ultimo saluto. E mio figlio… li ho supplicati in ginocchio
di lasciarmi tenere
il bambino, che già amavo con tutta me stessa: cresceva
dentro me, era il
frutto di un amore sincero, era tutto ciò che mi rimaneva di
Aiden. Ma non me lo
permisero.” La voce di Annie era intrisa di sofferenza, le
sue iridi ne erano
colme.
Strinsi i
pugni, indignata per il
trattamento che era stato riservato a quella povera ragazza. A
diciott’anni si
era ritrovata a perdere tutto: la famiglia, la sua vecchia vita, un
amore vero
e soprattutto un figlio, il dono più grande che un essere
umano potesse
ricevere. Non esistevano parole per commentare un gesto tanto
disgustoso.
Nessuna di noi
osò aggiungere altro, così
trascorsero alcuni pesanti secondi di silenzio nell’attesa
che Annie si
ricomponesse. Fu proprio lei a rivolgersi a me, riacquistando il solito
tono
dolce e tranquillo: “Se ti va, Joy, puoi raccontare anche tu
la tua storia”.
Presi un
profondo respiro e parlai di
Stephen, della nostra amicizia che era andata avanti per nove anni,
della sua
relazione con Jonas e della mia con Indi. Non entrai nei dettagli
– in parte
perché non era da me, in parte perché rivangare
quei ricordi così recenti e
vividi era estremamente doloroso – ma mi venne spontaneo
aprirmi con quelle
ragazze che avevano appena messo a nudo una parte importante di loro.
“Indi doveva
essere un tantino stupida per non capire che ti faceva
schifo” commentò Miracle
con una risata.
Mi ritrovai a
sorridere. “Non credo le importasse poi tanto, voleva
semplicemente la sua
felicità e se la prendeva.”
Davanti agli
occhi mi scorrevano, come in un film, i ricordi di tutti i suoi baci
che per me
erano stati soltanto un incubo e di tutti i momenti che mi ero
costretta a
vivere con lei perché la mia copertura risultasse credibile.
Mi costava
ammetterlo, ma ora che mi trovavo lontana da tutto e tutti mi mancava
perfino
Indi e il suo essere inopportuna.
“Ehi, se non ti
va di parlarne non devi sentirti costretta” mi
rassicurò Annie, probabilmente
leggendo la nostalgia nei miei occhi.
“È normale che le
persone che mi hanno ripudiato adesso mi manchino?” buttai
fuori tutto d’un
fiato, mordicchiandomi un labbro. In diciott’anni non ero mai
stata abituata a
parlare delle mie emozioni, ma ora sentivo la necessità di
esternarle; erano un
carico troppo pesante e intricato da gestire.
“Succede a tutte
nel primo periodo. È normale sentirsi perse, in fondo
è come cominciare a
vivere un’altra vita. Ma a lungo andare, quando comincerai a
prendere
dimestichezza con questo mondo, ti ritroverai perfino a provare
disprezzo per
il tuo passato. A essere del tutto sincera, non tornerei sulla Luna
nemmeno se
mi pagassero” ribatté Miracle con una certa
sicurezza.
Mi pareva
un’assurdità: certo, anche io serbavo una certa
rabbia verso la comunità
omosessuale, ma avrei dato qualsiasi cosa pur di lasciare quel luogo
infernale
che era la Terra Bianca.
“Perché mi guardi
così?” si incuriosì, piegando appena il
capo di lato.
“Preferisci
rimanere sulla Terra?”
“Certo! Come
potrei preferire quel covo di criminali? Diciamoci la
verità: la Terra Bianca è
una merda, ma ciò che noi abbiamo costruito sopra queste
macerie è autentico,
vero, pieno d’amore. Io sono estremamente orgogliosa di
questo marchio,”
sollevò il polso destro e il suo tatuaggio bianco
brillò nella penombra,
“perché rappresenta ciò che sono, la
comunità in cui mi identifico. Una
comunità non esclusiva, basata sull’uguaglianza e
la libertà di amare, una
comunità che combatte per costruirsi un futuro nonostante
gliel’abbiano
negato.”
Ancora una volta
rimasi spiazzata dalla determinazione che Miracle era in grado di
trasmettere
con le sue parole: credeva in ogni singolo concetto che esprimeva, nei
suoi
grandi occhi si leggeva chiaramente l’amore e la devozione
che provava verso
quella gente che le aveva salvato la vita e donato un barlume di
speranza a cui
aggrapparsi.
Ero affascinata.
Chissà se un giorno avrei provato gli stessi suoi sentimenti.
Non mi sfuggì
comunque il sospiro quasi rassegnato di Annie. Come se tutto
quell’idealismo
non le fosse mai appartenuto o le fosse già scivolato via.
“Ma qui si muore
per via della fame, degli stenti e delle radiazioni” trovai
il coraggio di
obiettare.
Il viso di
Miracle – pareva quello di un’attrice, era
bellissimo ma in modo molto più
autentico rispetto alle ragazze che avevo conosciuto fino ad allora
– si fece
ancora più serio e lei si tirò indietro i
capelli. “Tutti moriamo prima o poi,
questo non mi spaventa. Ciò che mi fa veramente paura
è l’idea di vivere in una
società che ci tratta come delle appestate semplicemente
perché amiamo. Io non
voglio più nascondermi, non voglio far parte di
questo… perché io non sono
questo.”
Qualcosa di nuovo
ed elettrizzante mi attraversò il corpo, qualcosa che mi
fece sentire forte
come non lo ero mai stata: senso di appartenenza.
Miracle aveva
ragione. In lei mi rispecchiavo, le sue parole erano i pensieri che da
sempre
mi avevano affollato la testa, la sua voglia di reagire e lottare era
la stessa
che avevo represso per anni.
Sollevai la mano
destra in aria, osservai il mio bracciale bianco brillante e sorrisi.
Ero
ancora spaventata, ma mi sentii a casa.
“Cosa posso fare
per aiutare la comunità?” domandai.
Da quel che avevo
capito, ognuna ricopriva un ruolo in quel bizzarro mondo:
c’era chi metteva a
disposizione le sue conoscenze per la medicina e gli studi scientifici,
chi si
impegnava a mantener viva la Storia della Terra, chi si occupava della
produzione e la distribuzione del cibo, chi – come Annie
– si occupava di assistenza
per persone in difficoltà e piccole faccende quotidiane. Era
un continuo
scambio, un perenne aiutarsi.
“Quali campi ti
interessano maggiormente?” si informò la padrona
di casa.
Scrollai le
spalle. “Ho sempre amato la Storia e non mi dispiaceva
nemmeno la Biologia, ma
non mi sento portata per fare il medico.”
Le due ragazze si
scambiarono uno sguardo complice.
“Hai studiato
anche Storia della Terra?” si informò Annie.
Annuii. “Ho letto
molti libri sull’Esplosione e sul periodo che l’ha
preceduta.”
“Quindi conosci
bene anche la geografia del pianeta?”
Assentii
nuovamente col capo. Erano argomenti che mi
avevano sempre affascinato.
La
più giovane si aprì in un sorriso e si
sporse verso di me con fare complice. “Potresti partecipare
al nostro studio
più ambizioso.”
Inarcai un
sopracciglio, confusa.
“Da
qualche anno un gruppo di donne ha
deciso di imbarcarsi in un progetto ambizioso: trovare un modo per
raggiungere
la Terra Nera. Molti territori tra il Sudafrica e la Scandinavia sono
stati
distrutti e non sappiamo con certezza cosa ne sia rimasto; il loro
compito è
scoprirlo. Riunirci agli uomini rappresenterebbe una speranza per la
nostra
sopravvivenza: potremmo riprodurci e sperare che l’evoluzione
faccia il suo
corso, conferendo ai nostri posteri l’immunità
alle radiazioni.”
“È
rischioso, non è certo che funzioni, ma
le nostre ragazze sono determinate ed è l’unica
briciola di futuro in cui
possiamo credere.” Mentre pronunciava quelle parole, gli
occhi di Annie
brillavano.
Sapevo a cosa
stava pensando, riconoscevo
le emozioni di chi come me aveva vissuto sulla pelle un amore intenso:
non
aveva mai perso la speranza di ritrovare Aiden.
Era una follia. Ma
la prospettiva di poter almeno tentare, di cambiare il destino che ci
era
toccato in sorte, mi rinvigorì
e mi fece sentire potente. Per la prima volta potevo essere qualcuno,
fare
qualcosa, non lasciarmi trasportare dal corso degli eventi.
“Voglio
partecipare” dichiarai, la voce
ferma e sicura come non lo era mai stata.
Miracle si
alzò. “Stanotte ti presento le
altre ragazze.”
Fuori dalla
nostra dimora il sole era
ormai tramontato e per le strade si propagava il vociare della
città che si
risvegliava e usciva allo scoperto, di una comunità che non
si fermava e che la
voce non l’avrebbe mai abbassata.
Era giunto
anche per me il momento di
uscire.
Era giunto il
momento di tornare a vivere.
O forse,
addirittura, di vivere per la
prima volta.
You
didn't change me
You didn't think I needed changing
[…]
Lucky for me
Your kind of heaven's been to hell and back
To hell and back
Il
tramonto mi feriva gli occhi con la sua luce
dorata, davanti alla quale si stagliava la figura di Stephen.
Era
bello, di una bellezza mozzafiato.
I suoi capelli castano chiaro assumevano una tonalità quasi
bionda, i raggi
tiepidi rendevano il suo viso più dolce, quasi fanciullesco.
E i suoi occhi
verdi e luminosi erano tutti per me.
Io
piangevo, il volto sepolto fra le
mani.
“Joy.
Che c’è?” Si accostò a me,
avvertii il suo tocco gentile su una spalla e poi le sue braccia che mi
cingevano i fianchi. La sua vicinanza mi fece tremare da capo a piedi,
mi sarei
voluta abbandonare contro il suo corpo ma c’era qualcosa di
sbagliato in tutto
ciò.
“Non
dovresti essere qui” mormorai tra
i singhiozzi.
Le sue
dita affusolate cercarono il mio
viso, mi accarezzarono piano la fronte e scacciarono le ciocche della
mia
frangia. “Perché?” sussurrò
dolcemente al mio orecchio. Era sempre così
delicato nei miei confronti.
“Perché
ti amo.”
Lui mi
strinse più forte a sé, prese a
carezzarmi la schiena e mi posò un rispettoso bacio sulla
fronte. “Joy, questo non
è un male, non è un difetto. A me non
importa, tu sei speciale e vai bene così come sei.”
Serrai
gli occhi e mi aggrappai a lui
per sentirlo vicino, ancora e ancora. Volevo dirgli di non lasciarmi
mai più e
tantissime altre cose, ma le parole vennero soffocate dai singhiozzi.
Stephen
mi lasciò un tenero bacio tra i
capelli, poi uno sulla guancia. Sentivo il suo respiro sulla pelle, le
sue mani
che si posavano sul mio corpo con una cura e un rispetto che
appartenevano solo
a lui.
Solo a
lui…
Mi svegliai in un
bagno di sudore, ma ben presto mi resi conto delle gocce bollenti che
mi
scorrevano sulle guance.
Joy,
questo non è un male, non è un
difetto. A me non importa, tu sei speciale e vai bene così
come sei.
Quelle parole
non appartenevano soltanto a
un sogno. Stephen le aveva pronunciate davvero, solo che aveva dieci
anni, ci
eravamo conosciuti da poco e io ero abbattuta perché tutti
mi additavano come
secchiona e mi prendevano in giro.
Fin dal primo
giorno, dalla più piccola
difficoltà alla più grande tragedia, Stephen
c’era stato. Nessuno mi aveva
amato e capito come lui, nessuno aveva avuto una perseveranza tale da
leggermi
dentro, da cogliere ogni sfumatura del mio mondo. Mi si era annidato
nel cuore
pian piano e non rappresentava soltanto l’uomo che amavo, ma
la persona più
importante della mia esistenza. In tutti i sensi.
I wonder how you
treasure
What anyone
would call a flaw
Ormai le
lacrime scorrevano senza tregua
sul mio viso, i singhiozzi mi scuotevano il petto e io sentivo il cuore
allo
stesso tempo più leggero e più pesante.
Sapevo di non
essere sola, volevo fermarmi
ma non ci riuscivo.
“Ehi.”
Un sussurro esplose accanto al mio
orecchio. D’un tratto venni avvolta dal calore di una
presenza al mio fianco e
mi sentii stringere forte in un abbraccio.
Si trattava di
Miracle.
Seppellii il
viso nella sua spalla, presi
a torturare una ciocca dei suoi capelli e continuai a singhiozzare
disperata.
“Joy…
hai fatto un incubo?” bisbigliò con
una dolcezza inedita. Il modo in cui mi cullava e mi carezzava era
quasi
materno, tanto tenero da spezzarmi il cuore.
“Stephen…
mi manca” riuscii a farfugliare
tra i singulti.
Mi mancava da
morire, la sua assenza mi
toglieva il respiro.
Mentre lui
proseguiva con la sua vita, si
dimenticava di me, si dedicava a Jonas.
Lei mi
abbracciò più forte e mi fece
posare la testa sulla sua spalla. “Tesoro, mi dispiace
così tanto…”
Non poteva fare
niente, se non assorbire
tutte le lacrime che le riversavo addosso – per quanto tempo
le avevo
trattenute?
Era tutto
così ingiusto. Per rivederlo,
anche solo per un minuto, avrei perfino accettato di non amarlo
più, di tornare
con Indi, di essere attratta dalle ragazze. Se solo avessi potuto
decidere chi
amare…
“Magari…
magari un giorno troveremo un
modo. Una soluzione anche per questo” mormorò
Miracle mentre mi carezzava una
guancia.
Nessuna delle
due ci credeva, ma entrambe
ci speravamo.
E forse Stephen
avrebbe lottato per me.
Forse quel filo
invisibile che ci legava
era lungo abbastanza da unire la Terra e la Luna.
You didn't save me
You didn't think I needed saving
♣♣♣
E siamo alla fine di questa folle storia, mio primissimo
esperimento per quanto riguarda la fantascienza ^^
Non so nemmeno io cosa esattamente mi sia preso, forse
l’acqua che bevo ogni giorno contiene qualche droga (?), ma
ho cercato di dare
un senso e una logica a questa strana idea che ho partorito un paio di
mesi fa.
Prima di passare alle varie spiegazioni devo
necessariamente ringraziare due persone: Kim, che è stata
fondamentale per la
nascita della storia e grazie al suo incoraggiamento l’ho
portata a termine, e
Koopa, giudice del contest che ha contribuito con i suoi pacchetti a
ispirare questa
follia. Senza di loro probabilmente non mi sarei mai imbarcata in un
esperimento così folle!
Se il risultato finale è accettabile o meno,
starà a voi
decretarlo: non sono affatto esperta di fantascienza, quindi se ho
scritto una
schifezza perdonatemi ^^
Bene! Da dove cominciare?
In primo luogo spero che la storia non risulti offensiva
in alcun modo: ho voluto creare questo universo distopico (esperti
della
fantascienza: è un universo distopico o me lo sto
inventando? XD) senza nessuna
intenzione di criticare alcuna categoria nello specifico: io sono con
Joy,
contro le discriminazioni di alcun tipo! Mi intrigava però
creare un mondo dove
fosse tutto al contrario, dove l’omosessualità
è la normalità e
l’eterosessualità non è vista di buon
occhio, dove tutto ciò che ci sembra
normale è invece visto come strano, dove si manifesta e si
lotta per i diritti
inversi a quelli per cui lottiamo oggi.
Ho sfiorato anche il tema dell’autoghettizzazione
(estremizzato all’ennesima potenza), che mi sta molto a
cuore, e ovviamente
quello dell’eccesso di potere. Capita sempre così
nella storia dell’umanità:
una fetta del popolo combatte per ottenere qualcosa, ma quando ne esce
vincitore e acquisisce un certo potere la situazione degenera. Tante
volte si è
vista una democrazia diventare dittatura, questo perché il
potere dà alla testa
agli esseri umani… e ho immaginato che in una situazione del
genere potesse
capitare la stessa cosa.
Un altro capovolgimento che spero si sia notato è quello
riferito alla denominazione dei territori vivibili: non è un
caso che io abbia
chiamato Terra Bianca un Paese appartenente all’Africa e
Terra Nera uno
appartenente all’Europa settentrionale ^^
Un piccolo appunto sulla bandiera arcobaleno e la
comunità LGBT: so che sono stati aggiunti diversi colori
rispetto ai classici
sette e che sotto l’acronimo sono oggi raccolte altre
categorie, ma ho voluto
fare affidamento all’organizzazione più
“basica” della comunità
perché ho
immaginato che dei dati più “concreti” e
consolidati nel tempo avessero maggior
possibilità di passare alla storia. Cosa
succederà nel futuro e se verranno
apportate altre modifiche, non lo posso sapere XD
Passando ad alcune piccole annotazioni astrologiche:
quando Joy dice che può assistere all’alba e al
tramonto solo qualche volta al
mese, si riferisce al fatto che effettivamente un giorno lunare
corrisponde a
29,5 giorni terrestri (quasi un mese); metà di questo
periodo è di ombra,
mentre l’altra metà di luce. Le differenze di
temperatura sulla Luna sono date
principalmente da questo alternarsi di sole e buio, anche considerando
che le
stagioni sono pressoché inesistenti.
Per quanto riguarda l’anno (da quel che mi è parso
di
capire, ma non prendete queste informazioni per oro colato
perché potrei
sbagliarmi) la Luna, essendo un satellite della Terra, non ha un vero e
proprio
anno basato sulla sua rivoluzione intorno al Sole. Ho così
pensato di mantenere
lo stesso sistema che utilizziamo sulla Terra (è pur sempre
una civiltà di
terrestri che poi si sono trasferiti).
(VI PREGO ASTROLOGI NON PICCHIATEMI)
Passando all’atmosfera terrestre: è divisa in
diversi
strati che si differenziano in base alla concentrazione di gas a
diverse
“altitudini” rispetto alla superficie terrestre.
Per farla breve: tra questi vi
è la stratosfera, che include un’alta percentuale
di ozono. Quest’ultimo è il
gas deputato all’assorbimento delle radiazioni solari che
altrimenti
colpirebbero la Terra e la renderebbero un luogo inospitale. Ovviamente
se
sulla Terra c’è stata un’Esplosione,
dovrà pur aver rotto qualche equilibrio.
È vero che le radiazioni solari possono causare dei
tumori e anche dei seri problemi agli occhi; ovviamente in una
situazione del
genere questi problemi si acutizzerebbero.
Il famoso test nella Stanza degli Elettrodi è la
trasposizione fantascientifica di qualcosa che esiste già:
esistono tanti test
psicologici e neurologici che tramite degli elettrodi misurano
l’attività
cerebrale di un individuo quando è esposto a determinati
stimoli. Non so se ne
esista già uno per determinare l’orientamento
sessuale, io non ne ho mai
sentito parlare.
Le varie soluzioni che gli abitanti della Luna hanno
adottato per renderlo un pianeta vivibile sono di mia invenzione (le
mutazioni
sui geni X e Y, i tralicci per sistemare la forza di
gravità, l’atmosfera
ricreata artificialmente), non credo che entro il 3005 tutto
ciò sarà possibile
ma usiamo l’immaginazione!
Ultima cosa: tutte le citazioni inserite nella storia
sono tratte dal testo di To Hell & Back di
Maren Morris, brano che
mi è capitato in sorte per il contest ^^ e sì,
è la stessa canzone che Indi
ascoltava sempre insieme a Joy. Vi lascio il link, se siete curiosi di
sentirla:
https://www.youtube.com/watch?v=kdE0ojviSjg
Che altro aggiungere?
Scrivere questa storia è stato un vero e proprio parto
plurigemellare, mi ha tenuto impegnata per più di un mese
(senza contare il suo
“concepimento” nella mia testa), non penso che
scriverò mai più fantascienza
perché è DIFFICILISSIMO ma è stata
anche un’esperienza bellissima. Mi sono
affezionata tantissimo ai personaggi e spero che abbiano lasciato
qualcosa
anche a voi!
Grazie a chiunque sia stato tanto coraggioso da arrivare
fin qui e… vado a riposarmi, non ne posso più
AHAHAHAHAH
Alla prossima ♥
|