THE NAME OF JESUS

di SkysCadet
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Acab rimase lì, buttando fumo grigio dalle narici di tanto in tanto. Poi abbassò il capo al suolo e ritornò a pensare alla discussione che aveva avuto con Judas.

Dopo quel salto nel vuoto, Ariel svenne sul suo petto e, vedendola ormai esangue, la prese tra le braccia, mentre il vestito, scomposto, mostrò gli arti inferiori.

La adagiò al suolo, piegato su un ginocchio e la osservò, a lungo, anche dopo aver richiuso la cella.

Un tonfo sordo l'aveva fatto sussultare e girare di scatto. Percorse lo stretto corridoio, guardingo e a passo lento.

Osservò un cumulo di sabbia nera posta alla fine della scalinata di ferro, e, incerto, vi si avvicinò con fronte aggrottata.

Da quel cumulo di cenere si formò una nube nera in cui apparve Judas sdraiato sul pavimento in una posizione rigida e tanto innaturale da far comparire una smorfia di ribrezzo sul volto del giovane: gli arti superiori erano come legati dietro la schiena, così come le gambe.

Quando gli occhi vitrei color rubino ritornarono di quell'azzurro tipico del loro rango, Judas urlò, facendolo rabbrividire.

Tentò di rialzarsi, prima inspirando ed espirando messo in ginocchio, poi stringendo le dita tra le fessure della parete di pietra, barcollando.

Il figlio rimase ad osservarlo per parecchi minuti prima di porgergli una domanda alquanto inopportuna: «Sono stati i tre angeli di Simon, non è vero?»

Il padre gli lanciò un'occhiata austera e, nonostante volesse mostrare autorevolezza e forza, dovette camminare a fatica con i palmi posti alla parete che conduceva alla scalinata prima di rispondere: «Gli angeli? Quelle innocue bestiole?» schernì «Affatto...»

«E allora? Chi è stato a ridurti così?» tentò di capire Acab, con occhi torvi.

Il padre gli pose una mano sulla spalla e gli confessò: «A volte, i ministri di Colui che non possiamo nominare seguono così bene il loro mandato, da avere un potere superiore...»

«Ma...» continuò, forte di quel momentaneo stato di intimità mostrata dal padre. «Com'è possibile? A noi non ci è permesso nemmeno immaginare di poter essere come uno dei capi e...»

Non fece in tempo a continuare che uno schiaffo sonoro gli fece roteare il viso dalla parte opposta.

«Cosa ti sta succedendo?» gli ringhiò Judas a denti stretti.

«Perché?» sputò in terra, asciugandosi con il dorso della mano destra prima di essere strattonato dal padre.

«Lui controlla la tua mente e tu questo lo sai bene.»

Judas lo teneva dal colletto della camicia nera, colpendolo contro la parete.

«E allora?» lo provocò Acab, con un sorriso nervoso.

«Quegli impulsi elettrici dei tuoi neuroni, collegati all'immagine del suo viso, fanno fare un semplicissimo calcolo al nostro Signore.»

Una stretta alla bocca dello stomaco lo investì, irradiando uno strano calore in tutto il corpo ricordandola al Dark Lithium bella da morire.

Morire per non aver utilizzato su di lei alcun potere.

«Ti conviene sfogare al più presto il tuo desiderio, così da non procurarti una fine lenta e dolorosa.»

«Io sono già un condannato, padre.» ringhiò con l'astio che attraversava i muscoli irrigiditi.

«Non lo sarai, se il tuo cuore rimane una lastra di ghiaccio.»

Lo lasciò, per abbracciarlo, e sussurrargli: «Senti questo gocciolare perenne?»

Il figlio annuì, rigido.

«E questo odore ferrigno non accompagna le tue notti insonni?»

Acab sbarrò gli occhi, pallido, mentre le braccia di Judas avvolgevano il collo del ragazzo, tanto forte da farlo boccheggiare.

«Il tuo sangue potrebbe essere il prossimo, ragazzo mio.»

Judas aprì le braccia, lasciandolo scivolare a terra, ansimante.

Le mani di Acab erano piantate al suolo roccioso e i capelli gli coprivano gli occhi sgranati.

Si guardò il palmo impregnato di quella sostanza scarlatta, dall'odore metallico e ricordando le ultime parole del padre, scattò in piedi, con un urlo, sfregando nei pantaloni le mani insopportabilmente intrise di sangue umano.

***

Il ricordo di quella discussione gli provocò una fitta alla tempia, proprio dove l'occhio del suo Signore lo redarguiva per i suoi pensieri.

Nei ragionamenti non aveva scampo: mattoni di cemento schermavano la sua mente; un potere di controllo e manipolazione.

Si pose a sedere lì, su quelle scale da cui suo padre era salito, mostrandogli le spalle.

Solo in quel momento ascoltò, per la prima volta ciò che si nasconde nelle tenebre: Il gocciolio persistente di un tubo accanto alla parete; il colore scuro e lucido che ne colava; l'odore acre di muffe e secrezioni umane mescolate fin a fargli risalire la bile; quel viscidume impregnato in ogni sua parte del corpo.

Nel respiro concitato provocato dalla paura della sua imminente fine, si accartocciò nel gradino stringendo le braccia alle gambe.

Poi, nel dormiveglia e tra i lamenti delle vittime sacrificali ormai diventati uno suono familiare, gli sembrò di aver udito una voce flebile pronunciare una preghiera al Signore del Cielo.

Batté più volte le palpebre prima di accorgersi che insieme al gocciolio del sangue che fluiva dai tubi arrugginiti, quella voce aveva una cadenza famigliare. Inspirò profondamente l'aria umida e dal retrogusto ferroso, drizzandosi in piedi e facendo cigolare le scale di metallo su cui era seduto.

Nel buio di quelle tenebre, dove solo la tenue luce della torcia riscaldava l'ambiente grigio e cupo, sentì che quei sussurri provenienti dalla cella della ragazza erano spezzati di tanto in tanto da singhiozzi di pianto.

Così, percorrendo a passo lento lo stretto corridoio che divideva la prigione di Joshua da quella di Ariel, si affacciò all'ultima, scrutando l'abitacolo alla ricerca della sua figura.

La vide in posizione fetale e, acuendo l'udito, ascoltò quelle parole rinchiuse nella voce rotta; poté osservare le spalle e la nuda schiena tremavano vistosamente.

«Padre...» ascoltò tra i singhiozzi «non so se mi stai ascoltando, qui dove Tu non ci sei...»

Ariel stava chiaramente pregando, ma nei ricordi confusi di un'infanzia sbiadita, Acab ricordò che ai prigionieri fosse proibito rivolgersi al loro Signore Celeste. La pena era la morte istantanea anche per il prigioniero più importante dell'inferno.

Ma lui continuò ad ascoltarla, disobbedendo.

«Ti chiedo di perdonarlo...»

Il cuore di Acab sussultò.

«Perdonalo, perché è solo colpa mia se sono qui...»

Perdonalo... Si ripeté.

«Perdonalo, perché io l'ho perdonato...»

Il cuore batteva incessantemente nello sterno e nelle tempie, facendo aumentare l'intensità del suo respiro e aggrottare le sopracciglia in un'espressione irosa ma al contempo incredula; l'ira era rivolta a quei personaggi che credono di essere i portatori della verità assoluta; l'incredulità verso un cuore che desiderava la salvezza di un assassino, incondizionatamente.

«Tu... » iniziò, sbucando dall'ombra del muro per rivolgersi ad Ariel, che al solo sentire la sua voce rimase pietrificata con una morsa al cuore.

«Tu non dovresti rivolgerti al tuo Signore, qui.» la ammonì, rimanendo oltre le sbarre di ferro, con le mani dentro le tasche dei jeans scuri, mentre lei, girandosi di scatto, lo fissò col mascara che rigava il viso, oscurando i suoi occhi.

«Qualcuno potrebbe sentirti e ucciderti.» concluse, atono.

Ariel sbarrò gli occhi, cercando di indietreggiare piantando i palmi al suolo con occhi intrisi di terrore.

Acab aprì le inferriate e fece per entrare, richiudendole dietro le spalle.

«Come fai a pregare il tuo Signore e implorare la mia redenzione?» la squadrò, trovo. «Nessuno può perdonarmi.»

Ariel deglutì. Le sue mani, puntellate al suolo viscido e dal colore scuro, tremavano freneticamente e la mente vagava al ricordo di un ragazzo che non aveva scrupoli.

Avrebbe potuto rimanere in silenzio e frenare lo stimolo del suo spirito combattivo per rimanere in vita giusto il tempo di rivedere Joshua, ma la verità era un fuoco che non riuscì a trattenere in gola.

Lui la osservò dall'alto, prima di piegarsi sui talloni e studiare il suo viso: un ovale estremamente dolce, rigato da lacrime nere; occhi scavati in un'ombra scura, ma grandi e capaci di ferire; labbra carnose, ma secche e livide.

Sarebbe bastato poco, ma non un solo muscolo obbedì a quel comando.

Lei rimase immobile, senza respiro riuscendo a tenere testa a quello sguardo indagatore. Osservò da vicino i due diamanti color zaffiro; i lineamenti del viso erano delicati ma scuriti da uno sguardo austero e da un filo di barba che disegnava la mandibola e le guance. I capelli neri accarezzavano il collo sfiorando le spalle.

Poi, con lo stomaco stretto in una morsa, trovò il coraggio di parlare.

«L... Lui» iniziò, nonostante i denti battevano e non le permettevano di comporre una frase sensata.

Fino all'anno precedente, non si sarebbe mai immaginata di trovarsi in una situazione simile e così vicina alla morte; tanto meno non avrebbe mai immaginato di pensare realmente ciò che stavano per pronunciare le sue labbra aride.

Quel che fino a qualche tempo prima era estremamente difficile da concettualizzare, e ciò di cui alcuni possedevano una grande fede, adesso stava per condurla alla fine della sua esistenza. Tutto per un Nome. Un Nome che, forse, avrebbe potuto aiutarla.

A quel pensiero un'ultima fiamma di vita le scaldò il petto.

«Lui è... M... M...»

Tuttavia il gelo che le attraversava le ossa congelava il respiro e la mente, offuscandone i pensieri.

Acab sospirò come esasperato vedendo che la peluria delle braccia della vittima diventava visibile e che i denti battevano ad intermittenza provocando un suono fastidioso.

Iniziò a sbottonarsi la camicia nera senza toglierle gli occhi di dosso.

Ariel emise un gemito, negando con la testa e rivolgendogli occhi supplici.

Lui si tolse la camicia.

La adagiò sulle sue spalle e rimase solo con la canottiera bianca, mentre Ariel, avvolta in quel tepore, si rannicchiò ancora di più inalando l'odore pressante del fumo. Strinse le dita tra i fori dei bottoni per coprirsi quanto più poteva, ma...

Quasi non ricordando più la sensazione del calore che riscalda la pelle, Ariel fissò a lungo il volto spigoloso di Acab labbra dischiuse. La fronte aggrottata suggerì un perché che rimase inespresso.

«Dicevi?» pronunciò poi lui, poggiando un ginocchio al suolo e il gomito nella gamba rialzata.

Ariel ingoiò saliva inesistente, bagnando le labbra aride prima di continuare.

«Lui è misericordioso» disse, ferma.

«Ah, sì? E come mai sei qui?» la schernì con un mezzo sorriso.

Nuove lacrime bagnarono il suo viso, mentre il ricordo di Simon le spezzò il respiro.

«Perché non ho ascoltato la voce di colui che cercate di uccidere... »

«Perché ti importa tanto di quel pastore di anime?» la sua mano gelida andò a posarsi sul mento per asciugare quei rigagnoli d'acqua che lo bagnavano, per poi percorrere la guancia imbrattata del nero eyeliner col pollice «In fondo è solo un santone plagiatore di menti...».

Il sorriso schernitore che le rivolse e quel tocco la fecero indietreggiare fino a farle toccare la parete rocciosa e gelida della cella.

è solo un santone plagiatore di menti...

La mente ripeté quella frase e un chiodo le si conficcò nel cuore, ma le permise di continuare imperterrita e con tono deciso: «Nessuno può plagiarmi. Nemmeno un seduttore come te. - Mi pare che tu ci abbia tentato diverse volte, invano».

Il giovane si alzò in piedi per osservarla dall'alto e così rispondere: «Eppure, sono riuscito a portarti qui» incrociò le braccia al petto.

«Ti sbagli.» contestò Ariel a muso duro e sguardo accigliato. «Sono io che ho deciso di seguirti. Io sono libera; a differenza di te che sei un condannato a morte.»

Quella verità gli fece avvertire un nodo alle viscere e, di colpo, Ariel si ritrovò in piedi, schiacciata alla pietra fredda della parete rocciosa, con le mani di Acab che le stringevano il collo.

«Nessuno può parlarmi cosi.» ringhiò a denti stretti, avvicinando il capo a quello di lei, con violenza.

«Ti brucia non avere scelta, eh?» osò, con voce fioca «Cagnolino... »

Lo schiaffo che le diede la fece ricadere ai suoi piedi.

«Io non ho paura della morte,» tossì «perché mi aspetta la pace...»

Acab aveva già girato i tacchi ed era arrivato alle sbarre ferrose e si fermò, stringendo la mascella, stanco di sentire sempre le stesse frasi fatte di credenti prossimi alla morte.

«Come fai ad esserne così sicura?»

«Perché la tua setta fa di tutto per non nominare il nome di Colui che morendo ci ha aperto le porte del Cielo. E tu vedrai con i tuoi occhi la potenza del Suo Nome.»

Quella, però, non era una frase già ascoltata.

«Il suo Nome...» rise, ancora di spalle «cos'ha di speciale?»

Ariel avvertì una morsa al cuore e un calore conosciuto in un'altra occasione. Si tenne dalle fessure prominenti delle pietre che costituivano il suo abitacolo e, con le gambe tremanti, si tenne in piedi.

«Quel che non ti hanno mai detto è che» tossì accarezzandosi il collo «dentro quel nome c'è il mistero della salvezza della tua anima.»

«Fantasie religiose...»

«Di cui voi avete paura e di cui tu hai paura.»

«La mia anima non può essere salvata. Nessuno può salvarmi!» urlò rivolgendole occhi colmi di risentimento. Il pugno chiuso e stretto al fianco sinistro tremava di un'ira covata, mentre l'indice destro glielo rivolse quasi al petto. Aveva fatto qualche passo per arrivare a rivolgerle quelle parole fissandola negli occhi.

Tuttavia, Ariel vide oltre quell'indice puntato al cuore.

«All'amore nulla è impossibile.» proferì in un sussurro e occhi lucidi.

«L'amore non esiste.»

Non esisteva, non era mai esistito e non sarebbe potuto esistere, per lui.

L'amore è l'invenzione di chi pensa a dare una cosa che invece bisogna custodire gelosamente, mio caro Acab. Siamo noi i proprietari del nostro cuore: un organo glaciale che porta qualunque cosa sotto i nostri piedi. Donne, uomini, bambini, denaro, potere...

«E' quello che vogliono farti credere.»

Che razza di cristiana era quella se riusciva a rispondere ai suoi intimi pensieri?

Gli occhi sbarrati la guardavano incredulo e stranito, mentre quel muscolo atrofizzato nel petto, al suono della sua voce, batteva incontrollato e incontrollabile fuori da ogni logica.

«Il giorno che imparerai ad amare sarai veramente libero.»

L'incedere di tacchi a spillo, risuonava nel sotterraneo.

«Bene, bene, guarda un po'... Allora è vero che il leone di Dio è in gabbia».

Lilith era apparsa alle spalle di Acab, poco fuori dalla cella e li guardava, ammiccando.

Era la prima volta che Ariel la conosceva, ma sapeva di averla già vista da qualche parte.

La osservò e ricordò bene di aver visto quello sguardo felino negli occhi della ragazza che, mesi prima, aveva accolto Joshua al Pub Lithium.

Poi, una consapevolezza le fece sbarrare gli occhi e tremare le ossa: «Dov'è? Dimmi dov'è?!» le urlò a squarciagola, tirando le catene che le imprigionavano i polsi e le caviglie.

Un mezzo sorriso, sottile, si delineò nel volto pallido della giovane Lilith.

Gli occhi azzurri passarono velocemente da lei al fratello e pronunciò: «Sarebbe un vero peccato non condurla come sacrificio al nostro Signore». Fece qualche passo, oltrepassando la figura vigile e tesa del ragazzo.

Si avvicinò a lei, tanto da sfiorarle il viso con il respiro. Gli occhi stretti e glaciali analizzavano i suoi pensieri e Ariel lo avvertì chiaramente: sentì la sua voce nella mente indugiare nei suoi ricordi con voce flebile.

"Sei così fragile... Così sola...

Nessuno ti considera,

Nessuno verrà a cercarti.

Nessuno ti ama...

Dov'è tuo padre?

Dov'è tua madre?

Sei... Sola."

Ariel sentì un lama trapassare l'anima.

Un colpo ben assestato a tutti i suoi profondi pensieri e convincimenti.

Lilith le prese il volto, conficcando le unghie nelle guance pallide fino a provocarle lacrime mute, notate, però, dal fratello.

Acab le si avvicinò e, con una stretta vigorosa, le strinse il polso.

«Non la toccare.» le ringhiò all'orecchio.

La mano stringeva tanto da provocare smorfie di dolore e, dopo qualche titubanza, Lilith si vide costretta a lasciare la presa dal viso di Ariel.

«È la mia prigioniera.» si giustificò lui. «Sono io a decidere.» le intimò, parlando a bassa voce.

«Tu puoi solo decidere come meglio divertirti con lei. Nient'altro.» ghignò, staccandosi dal tocco del fratello.

Dopo aver guardato Ariel, girò le spalle ai due.

«Non ti conviene sperare molto su mio fratello, leoncino...» pronunciò poi, fissando Ariel dall'alto della spalla sinistra. «Le tue preghiere non possono essere ascoltate dal tuo Dio, qui, ma solo dal nostro Signore, che con il suo occhio onniveggente controlla i tuoi pensieri».

La prigioniera aggrottó le sopracciglia respirando a fatica, come se l'insediamento di Lilith nella sua mente l'avesse privata delle poche energie che la tenevano ancora in piedi.

Acab seguì la sorella e chiuse le sbarre guardando Ariel con un'espressione indecifrabile.

Solo allora Ariel si accorse che, oltre a lei, quel luogo ospitava qualcun altro, e fu lo sguardo che gli rivolse Acab dopo aver scambiato qualche battuta con la sorella a farle gelare il sangue nelle vene, confermando il suo presentimento.

 





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