Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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Annibale Bentivoglio era rientrato a Bologna il 14 gennaio, mentre Lucrecia Borja, che aveva fatto un giro molto più tortuoso, fermandosi anche in più di una tappa intermedia, era giunta in città solo il 28 di quel mese.

Il cielo era carico di pioggia, ma per tutto il suo breve soggiorno, non spillò nemmeno una goccia, quasi non volesse sciupare gli abiti costosissimi e delicati che la novella sposa indossava.

Per i signori di Bologna non fu facile avvicinarla senza che la nutrita schiera delle sue dame, tra cui l'appiccicosa Adriana Mila, le ronzassero intorno ascoltando ogni parola e suggerendole all'orecchio cosa rispondere alle domande e come reagire ai complimenti.

Giovanni Bentivoglio aveva comunque lasciato che fossero i suoi figli, Annibale, Antongaleazzo, Alessandro ed Ermes a mostrarle Bologna e a fare gli onori di casa. Se da un lato con quel gesto voleva mostrarsi colmo di fiducia verso i suoi eredi, dall'altro quella sua mezza assenza, quella sua distanza sottolineata in più occasioni, venne mal interpretata dalla popolazione che, già un po' insofferente nei suoi confronti, si era fatta velatamente ostile.

Ad aggravare la posizione del Bentivoglio c'erano state le chiacchiere della moglie, Ginevra Sforza, amplificate e forse un po' distorte da tutti gli ospiti – specie dai ferraresi – che affollavano il palazzo dei signori di Bologna. La donna, infatti, aveva ben pensato di ricordarsi proprio in quel frangente di essere la zia di quel Giovanni Sforza di Pesaro che la giovane Lucrecia aveva umiliato, costringendolo a dichiarare la propria impotenza, al fine di sciogliere il matrimonio.

Se Ginevra aveva detto apertamente che, per quanto ne sapeva lei, in quei giorni Giovanni Sforza era a Mantova, i curiosi e gli impiccioni erano andati oltre, suggerendo che, essendo appunto a Mantova, probabilmente sarebbe arrivato a Ferrara in tempo per il primo incontro tra Lucrecia e Alfonso... Si diceva addirittura che si sarebbe travestito, mescolandosi tra la folla, fino ad arrivare al corteo nuziale, al solo scopo di mettersi dinnanzi alla sposa e deriderla nel momento stesso del suo incontro con Alfonso.

La Borja, che aveva sentito tutto, ripartì da Bologna il 29 gennaio con lo stomaco sottosopra. Non aveva alcuna intenzione di rivedere il suo primo marito. Lasciando Roma, nella sua mente aveva tagliato la corda che la teneva stretta al suo passato. Giovanni Sforza non doveva permettersi di intralciarla, presentandolesi dinnanzi. Anche se non avesse fatto nulla di pericoloso, la sua sola presenza avrebbe scatenato i ricordi e Lucrecia non voleva mai più ripensare a certi momenti della sua vita.

Quasi sospinta da quel desiderio di novità, la giovane mandò avanti il grosso del suo seguito e così, seguita da appena cento cavalli suoi e novanta della Duchessa d'Urbino, scortata da Annibale Bentivoglio, arrivò due giorni dopo la sua partenza da Bologna nella piana bolognese, in una delle dimore dei Bentivoglio, lasciata a suo uso e consumo.

Al tramonto del 31 gennaio, Lucrecia stava osservando i servi della cosiddetta 'domus iocunditatis' di proprietà bolognese, quando Annibale Bentivoglio, al suo fianco, fece un'espressione strana. La ragazza lo osservò, mentre il figlio di Ercole tendeva sempre di più l'orecchio e, malgrado il trambusto generale, borbottava qualcosa circa uno strano rumore proveniente da fuori.

Perplesso, scusandosi con la Borja, Annibale andò alla finestra più vicina e, strizzando gli occhi nella penombra della sera incipiente, cercò di capire da dove provenisse quello che gli sembrava proprio un tramestio di zoccoli e voci.

Quando vide il capannello che si stava avvicinando a gran velocità al palazzo, dato che non aspettavano ospiti, il Bentivoglio venne preso da un moto di paura, immaginandosi già rapito assieme alla Borja e portato chissà dove per chiedere un riscatto al papa. Bastò una lama di luce, però, per fargli scorgere il viso dell'uomo che guidava il gruppuscolo.

Avrebbe riconosciuto ovunque quegli occhi inquieti e il naso severo. Immancabili e ben visibili perfino a quella distanza, c'erano gli spessi guanti di pelle a coprirgli le mani... L'unica differenza, in quel volto ben noto, era la barba che, l'ultima volta che si erano visti, non era così lunga.

Senza altri indugi, il Bentivoglio si riavvicinò a Lucrecia, che lo fissava interrogativa e, non sapendo come darle la notizia senza gettarla nell'agitazione che si attendeva da una giovane sposa che ancora non conosce il marito, le riferì: “Alfonso, il figlio del Duca di Ferrara, nonché vostro sposo, è qui fuori... Credo voglia vedervi...”

 

“No, preferisco finire stasera.” insistette Bianca, ricontrollando gli ultimi punti dati alla camicia.

Lei e sua madre erano giunte a conclusione che sette fosse il numero giusto di camicie da regalare a Benedetto Balear Riario Sforza per intercettarne i favori, almeno all'inizio. E così, da quando avevano iniziato, non si erano fermate nemmeno un giorno, dedicando a quell'occupazione almeno tre o quattro ore ogni sera.

Caterina si riteneva fortunata, perché se anche si occupava volentieri dei lavori più grossolani, era la figlia a impegnarsi di più e, essendo sia precisa, sia veloce, il risultato che stavano ottenendo era ottimo.

Quella sera, però, la Riario sembrava più pallida del solito e, complice il freddo pungente di quel 31 gennaio, le sue mani, un po' intorpidite, lavoravano più lentamente e con meno puntiglio del consueto.

La Tigre aveva notato subito quei dettagli e, se all'inizio non vi aveva dato peso, nel vedere Bianca concludere in due ore quello che di norma avrebbe portato a termine in un'oretta scarsa, si era preoccupata. Tuttavia, quando aveva proposto di riporre tutto e continuare all'indomani, la Riario si era opposta più volte, con fermezza.

“E poi manca solo questo dettaglio delle lattughine, ormai...” insistette una volta di più Bianca, indicando con l'indice il punto esatto che ancora andava perfezionato.

“Oh, al diavolo... Non sono mica per un principe!” sbottò la Leonessa, più innervosita dal vedere la figlia in difficoltà che dal lavoro in sé: “Fallo come viene e finiamola qui...”

“Non possiamo mandare sei camicie fatte alla perfezione e una difettosa.” si incaponì la giovane, chinandosi di nuovo, in favore di candele, per vedere meglio dosa stesse facendo.

“Sicura di stare bene?” le chiese, a bruciapelo, Caterina.

“Sì.” ribatté all'istante la figlia, un po' troppo sulla difensiva: “Sono solo stanca... Oggi... Non lo so, forse ho passato troppo tempo a... Non lo so... Sono stanca e basta.”

La madre sapeva benissimo che la Riario, un po' come tutti loro, non aveva fatto altro anche quel giorno se non leggiucchiare, girovagare per la villa e aspettare che il tempo passasse. Era deleterio, per una donna della sua età, trovarsi rinchiusa in quel palazzo senza poter far altro se non cedere alla noia e, anzi, la Sforza era convinta che per Bianca fosse ancor peggio, perché più tempo libero aveva, più ripensava a Troilo De Rossi, lontano ormai da una decina di giorni.

Ora che ci pensava, era da un paio di giorni che la vedeva più distratta del solito, e anche con meno appetito. Giusto nel pomeriggio, addirittura, l'aveva sentita parlare con Galeazzo, che le aveva chiesto come mai avesse saltato la colazione anche quella mattina...

Volendo arrivare proprio a quel punto, la Leonessa decise di prendere l'argomento molto alla larga e così, fingendo si accettare la sbrigativa risposta della figlia riguardo il suo stato di salute, chiese, casuale: “Ho visto che dopo pranzo Galeazzo ti stava parlando e mi sembrava preoccupato... Ha qualche problema, che tu sappia? Gli sta stretta la vita alla villa? Ha qualche pensiero particolare?”

“No, non che io sappia...” rispose la ragazza, con un sospiro, ben felice di poter spostare l'attenzione sul fratello: “Come tutti noi a volte si annoia, ma capisce molto bene il perché di questa vita isolata. Ha battibeccato con Ottaviano, ma direi che è impossibile non battibeccare con Ottaviano, se gli si rivolge la parola...”

Dato che anche quella piega del discorso era interessante, per Caterina, la donna cercò di cavarne qualcosa di più. Sapeva che Galeazzo, più di tutti, aveva intuito alcuni traffici del fratello maggiore e si chiedeva se il mezzo litigio citato da Bianca non fosse solo una conseguenza dei maneggi di Ottaviano scoperti dal minore.

“Hai capito perché si sono scontrati?” chiese quindi, prendendo intanto una delle candele e avvicinandola un po' alla figlia, per agevolarle ulteriormente la visione, mentre tirava gli ultimi punti.

La Riario era abbastanza sicura di aver capito il motivo del contenzioso, ma volle essere molto cauta, nel riferirlo: “Credo, ma non ne sono sicura, che abbiamo litigato ancora per la storia di quella serva...” iniziò a dire, smettendo per un attimo di lavorare, sollevando gli occhi blu verso quelli verdi della madre: “Sapete quella... Non so come si chiami... Be', insomma, credo che a Galeazzo non dispiaccia, ma da quando ha scoperto che si concede a Ottaviano per soldi... Ebbene, non l'ha presa nel verso giusto.”

La Sforza fece un rapidissimo inventario mentale delle serve che si aggiravano per la villa. Ne individuò subito una che poteva essere l'oggetto della contesa: giovane, abbastanza formosa e, per quanto ne capiva lei, disponibile. Pensando alle parole della figlia, si rese conto che ultimamente Ottaviano si era fatto più calmo, e quello poteva essere il segno che avesse trovato qualcuno che lo lasciasse sfogare. Restava da scoprire dove prendesse i soldi, sempre che la pagasse davvero. Chissà perché, non le sarebbe parso strano scoprire che il suo primogenito estorcesse i servigi della serva pagandola con minacce e intimidazioni, piuttosto che con moneta sonante.

“Credi che Ottaviano l'abbia sottratta a Galeazzo..?” provò ad approfondire Caterina.

“Non credo che Galeazzo l'abbia mai...” Bianca si morse la lingua, ricordandosi di aver promesso al fratello di non parlare dei suoi affari sentimentali, nemmeno con la madre: “Insomma, penso sia solo una cosa superficiale... Ottaviano, comunque, irrita tutti, quando fa così.”

La Tigre non volle sapere altro, capendo il riservo della figlia, e, ricordandosi le tecniche che anche sua madre Lucrezia usava quando voleva passare del tempo con lei senza sapere cosa dire, si mise a parlare del clima.

“Finito...” sussurrò la Riario, una volta che ebbe spiegato davanti a sé la camicia, ormai pronta.

La Sforza la osservò con un certo orgoglio, felice di vedere una simile perizia in Bianca. Anche se lei non aveva mai apprezzato quel genere di lavoro, era in grado di valutare il valore di quell'opera.

“Allora le farò spedire subito, come mi hai consigliato.” disse la milanese, prendendo l'ultima delle sette camicie: “Scriverò a Fortunati di farle partire per la Francia con la staffetta più veloce che ci sia.”

Bianca le sorrise e poi, stanca dopo la lunga serata passata a rovinarsi occhi e dita su una camicia che sarebbe andata indosso a un uomo mai visto, fece per alzarsi. La testa le girò con tanta violenza, che dovette risedersi subito.

Caterina si accorse di quell'incertezza, ma non volle assillarla, restando solo in vigile attesa. La figlia, però, si toccò la fronte un paio di volte, stringendo gli occhi e allora la madre non poté più far finta di nulla.

“Stai bene?” chiese, sperando di non suonare ossessiva.

“Io...” la Riario sapeva bene quale poteva essere la causa del suo diffuso malessere, ma non voleva dirlo, non così presto: “Ho solo... Mi è solo venuto un capogiro... Forse ho mangiato troppo poco a cena.”

La Leonessa, solerte, le toccò la fronte, trovandola però fresca. Le sembrava ancora molto pallida, ma poteva essere anche effetto della luce scarsa delle candele. Le tese una mano, offrendosi di sorreggerla, se le fosse girata di nuovo la testa, ma Bianca tentennò.

In realtà la sua ferma risoluzione nel non dire nulla a sua madre, non subito, almeno, si stava sgretolando già da un paio di giorni. Pur avendo sentito e letto tante cose, pur aspettandosi tanti disagi che già stava sperimentando, la spaventava l'essere tanto debole e, soprattutto, le continue nausee che l'assillavano, non solo al risveglio. Si era attesa qualcosa di più mite, qualcosa di meno condizionante... Cominciava ad aver paura che qualcosa stesse andando storto. Sua madre, con le sue nozioni alchemiche e con tutti i figli che era riuscita a far nascere e senza problemi, di certo avrebbe saputo aiutarla...

Così, mentre la Sforza ancora le tendeva la mano, in attesa di una sua reazione, la Riario deglutì e poi, dopo essersi morsa le labbra, quasi a voler trattenere ancora per qualche istante quelle poche parole, sussurrò: “Credo di essere incinta.”

 

Lucrecia, consigliata dalla fitta schiera di persone che le facevano da scorta, era andata a sistemarsi nei suoi alloggi, avendo cura che, lungo la strada che dall'ingresso del palazzo portava fino a lei, ci fossero schierati uomini e donne in egual misura, mentre con lei, nelle sue stanze, ci fossero solo le sue dame di compagnia.

Era curiosa di vedere se questo Alfonso di Ferrara assomigliasse davvero a quello che aveva visto in ritratto e verso cui aveva nutrito grandi speranze. Allo stesso tempo, però, era tesa e nervosa. Si sentiva in disordine, pur indossando uno dei suoi abiti migliori, e le pareva che i suoi capelli, raccolti a dovere, fossero ugualmente indomabili e le dessero un'aria da contadina e non da nobildonna.

Aveva appena finito di sistemarsi meglio la sottana, quando sentì la voce di Ferrante, fratello di Alfonso. Lo sentiva ridere, fare battute grezze e poi lo sentì perfino domandare a mezza bocca al maggiore se fosse giunto a cavallo fin lì solo per anticipare di qualche giorno la prima notte di nozze.

Lucrecia sentiva il cuore fremere. Era così confusa da non riuscire nemmeno a guardare verso la porta. Si accorse che l'Este era arrivato, notando la reazione delle dame più vicine a lei.

Lentamente, deglutendo, sollevò lo sguardo e finalmente lo vide. La stanza era ben illuminata, perciò poté riconoscerne bene il colore dei capelli, identico a quello del ritratto, il mento deciso, nascosto in parte da un po' di barba, e la bella corporatura, che faceva capire quanto fosse dedito alle armi e ai lavori pesanti.

L'espressione degli occhi era l'unica cosa alla quale, secondo lei, il dipinto che aveva visto in precedenza non faceva giustizia. Gli occhi di Alfonso erano molto più penetranti e indagatori, in un certo senso mettevano in soggezione. Avevano appena quattro anni di differenza, ma alla ventunenne Lucrecia, l'Este sembrava un uomo più che maturo, molto più volitivo e potente di quanto non fosse stato il suo secondo amatissimo marito.

Il ferrarese, intimidito da tutta la gente che aveva attorno, aveva puntato gli occhi sulla Borja anche per non dover incrociare lo sguardo degli altri. Fin da subito il viso dolce e il corpo tenero di Lucrecia l'avevano soggiogato. Tuttavia, in netto contrasto con il resto, gli occhi della giovane gli parvero affilati, taglienti, come punte di freccia. Nelle sue iridi vedeva una donna ben più matura e cosciente di quanto si fosse aspettato.

“Alfonso...” fece lei, con un inchino, staccando per la prima volta lo sguardo da lui.

Colpito da quella apparente sprezzo delle etichette, l'Este fece qualche rapido passo verso di lei, mettendo in risalto la propria figura slanciata, e, ricambiando l'inchino, soffiò: “Mia signora.”

La donna, d'intinto, sorrise, anzi, quasi rise, trovando nei modi compassati del ferrarese qualcosa di comico, di goffo. Era come un bambino che stesse imparando a fare la riverenza, e quella constatazione le riempì il cuore d'istintivo affetto.

Un po' interdetto, Alfonso dapprima si accigliò e poi, trascinato dalla leggerezza con cui la sua sposa continuava a sorridergli, distese a sua volta i lineamenti duri del viso e ricambiò nel modo più gioviale possibile.

Dopo qualche minuto ancora di silenzioso imbarazzo, invitati da una delle dame di compagnia più anziane, fecero in modo di sedersi l'uno accanto all'altro, tenendo sempre una debita distanza e cominciarono a imbastire un discorso.

Erano entrambi sollevati, come se quell'incontro non preparato avesse confermato a tutti e due che quel matrimonio non sarebbe stato un totale fallimento. Reduci entrambi da precedenti drammatici, scoprire l'uno nell'altra una persona piacevole e piacente fu come un balsamo per l'anima.

Il clima di mite gioia che i due novelli sposi sparsero nell'aria fece rilassare le altre donne presenti che, comunque, rimanevano con le orecchie tese, per carpire ogni frase dei due, e valutare se vi fossero infrazioni del delicato codice non scritto che dovevano far rispettare almeno fino alla prima notte che la Borja avrebbe trascorso a Ferrara.

Quel limite invalicabile, che non andava sfiorato nemmeno a parole, Alfonso e Lucrecia lo conoscevano bene. Entrambi vedovi, entrambi soli e con la mente e l'animo in subbuglio, però, lasciavano che la felicità di quel piccolo momento guidasse ogni loro pensiero.

Perfino quando iniziarono a valutare più attentamente l'altro, distraendosi continuamente dal discorso di prammatica intrapreso, ogni difetto finiva per venire smorzato e ammorbidito.

Lucrecia notò i segni del mal francese in Alfonso, malgrado quelli più gravi, nelle mani, fossero nascosti da pesanti guanti. Li paragonò a quelli del fratello Cesare e ne ebbe paura. Si diceva che non sempre le donne si ammalassero e, anzi, certi medici sostenevano che si trattasse di una malattia prettamente maschile. Quale che fosse la verità, la Borja accettò all'istante con rassegnazione quella condizione, dicendo che, se Dio avesse voluto, lei non si sarebbe ammalata, e, in caso contrario, avrebbe convissuto con quella maledizione al fianco del marito, senza lamentarsene.

Le avevano detto che l'Este era un uomo scontroso e scorbutico e poteva ben immaginare che la piacevolezza con cui stava chiacchierando con lei quella sera fosse solo casuale e destinata a durare poco, ma le stava bene. Quel momento, quell'approccio così familiare e tranquillo, quello, si diceva, sarebbe comunque stato il pilastro del loro matrimonio, a quello avrebbe pensato ogni qual volta si fosse sentita tradita o stanca.

Sapeva che lui amava le donne di strada, specie quelle più volgari e ignoranti. In tanto glielo avevano riferito, con il perverso piacere di instillare in lei un dolore ancor prima che potesse davvero ritenerlo tale. In fondo le importava poco. L'Este era stato il suo modo di scappare da Roma, dalla sua famiglia e dal suo passato. Se lui si fosse rivelato come dicevano, lei avrebbe trovato il modo di prendersi le sue rivincite. Non l'aveva forse già fatto in passato?

Tuttavia voleva pensare di potergli restare fedele, almeno all'inizio. Alfonso le sembrava diverso da tutti gli uomini conosciuti fino a quel momento... Era schivo e selvatico, ma con lei pareva un animale addomesticato. Forse sarebbe riuscita a domarlo del tutto, restando docile e duttile nelle sue mani, ma portandolo, alla fine, a volere lei e solo lei.

Alfonso, invece, mentre la osservava, sforzandosi di apparire più godibile e accomodante di quanto non fosse in realtà, cercava di capire quanto ci fosse di vero sui pettegolezzi che la riguardavano.

In tanti, specie suo fratello Ferrante, gli avevano sussurrato all'orecchio le cose peggiori su di lei, descrivendola a tratti come una pericolosa avvelenatrice, a tratti come la peggior meretrice di Roma e, infine, quasi sempre come la più mostruosa e infida delle creature papali.

In realtà a lui sembrava solo una giovane donna, bellissima e dalla cadenza particolare, e con una forza imperscrutabile che rendeva ogni lembo della sua pelle viva, ogni sua parola un verbo di fuoco e ogni suo più piccolo movimento un'onda incontenibile.

L'Este sapeva di avere mani rovinate e forti, da fabbro, capaci di rovinare donne fragili come era stata la sua prima moglie, Anna Maria, che in lui aveva sempre e solo visto un mostro. Lucrecia no, lei era diversa: sembrava fatta di cristallo e fiocchi di neve, ma in realtà era carne e sangue, solida e coriacea come la pietra. Lei non si sarebbe rovinata al suo tocco: era già stata provata dal fuoco eppure era ancora lì, viva e vegeta.

Nessuna delle donne presenti riusciva a intuire cosa stesse succedendo nelle menti dei due sposi. I loro discorsi erano vaghi, centrifughi e spesso ripetitivi. Tuttavia, passate più di due ore, quando a Lucrecia e Alfonso venne fatto presente che il tempo di una visita che potesse ritenersi non sconveniente era già passato, entrambi avevano ancora in viso un sorriso trasognato che lasciava intendere quanto quel poco tempo fosse stato importante per entrambi.

Convintosi che fosse tempo di riprendere il cavallo e tornare a Ferrara, in attesa definitiva della sua novella sposa, l'Este fece un profondo inchino e allungò una mano, per farsi porgere quella della Borja.

Con un velo di esitazione, Lucrecia accettò quell'invito. Il contatto non era diretto, perché i guanti di lui le impedivano di sentire il calore della sua mano, tuttavia la presa decisa e perentoria le fece capire lo stesso tante cose.

Con quel breve gesto Alfonso le stava ricordando che, comunque, era lui a comandare, fuori casa, davanti al mondo, qualsiasi altra cosa lei pensasse.

Poi, però, quando chinò il capo e le sfiorò il dorso con le labbra, la dolcezza con cui si mosse fece capire alla figlia del papa che la sua promessa era duplice: si impegnava a governarla pubblicamente, ma anche ad amarla, nel segreto della casa che avrebbero costruito assieme.

Rabbrividendo piacevolmente al tocco un po' ruvido delle labbra di lui, la Borja sussurrò: “Vi auguro di fare un buon viaggio e arrivare salvo a Ferrara.”

L'Este non disse nulla, fece appena un cenno del capo e poi, mentre il sorriso infine svaniva dal suo volto, senza aggiungere altro, andò alla porta, di nuovo selvatico e schivo come un animale del bosco.

La ventata quasi ferina eppure dolce che aveva portato con sé arrivando parve andarsene assieme a lui e, rimasta sola con le sue dame di compagnia, a Lucrecia non restò che rimettersi seduta e, stranamente intristita, chiudersi in un solitario silenzio e pensare.

 

“Incinta..?” chiese Caterina, come fosse certa di aver capito male.

“Sì.” rispose la figlia, tenendo gli occhi bassi e deglutendo un paio di volte.

“Credevo che... Insomma... Pensavo che...” cominciò a farfugliare la Tigre, sentendo il cuore accelerare, mentre nella sua testa si affollavano pensieri di ogni sorta, confusi, spesso in contrasto, ma tutti accomunati da un senso di ansia e precarietà che la facevano impazzire: “Io... Che diamine!” sbottò alla fine, non riuscendo a trattenersi, trasformando in rabbia la confusione: “Con tutte le pozioni che ti ho insegnato a preparare! Con tutte le ricette che ti ho dato! E sì che ti avevo pregata di starci attenta!”

La Riario non diceva nulla, restando in attesa. Sapeva per esperienza che sua madre andava lasciata innanzitutto sfogare. Se l'avesse interrotta, la situazione sarebbe degenerata e lei non voleva per nessun motivo perdere la connessione, così complessa e importante, che era riuscita a creare con lei negli anni.

“Diavolo! Bianca!” stava ancora inveendo la Leonessa, senza riuscire a frenarsi: “Ti ho fatta istruire assieme ai tuoi fratelli anche perché i precettori spiegassero anche a te come va il mondo! E poi se avessi usato correttamente la mia pozione di certo non...”

Arrivata a quel punto, la giovane non volle più tacere. Voleva difendere non solo la sua posizione, ma anche e soprattutto la sua decisione, che era stata cosciente e sentita.

Così, interrompendo la Sforza, disse, ferma, senza alzare la voce: “Io questo figlio l'ho voluto. Io l'ho cercato. Non mi è capitato. Lo voglio.”

Seguì un momento di silenzio immobile e molto prolungato. Bianca continuava a fissare la madre, quasi senza respirare. Caterina, invece, respirava anche troppo in fretta. In lei si stava combattendo una durissima battaglia, ma le ultime parole della figlia avevano avuto un peso notevole nella sua valutazione.

“Ma sei sicura di essere incinta?” volle chiedere, prima di aggiungere altro.

“Non ho sanguinato questo mese, ho spesso la nausea e capogiri, e... Che sono pallida l'avete visto anche voi, e sapete che è anche questo un possibile segno di una gravidanza.” il tono con cui la Riario aveva elencato i suoi sintomi era pragmatico, ma preoccupato: “Io credo di essere incinta, lo spero... Altrimenti questo malessere non può che avere qualche causa grave.”

Rendendosi conto per la prima volta di quanto sua figlia in effetti apparisse non solo sofferente, ma anche spaventata, Caterina cercò di rassicurarla: “Non dire così... Se pensi sia possibile, ritengo credibile che tutto quello che hai sia dovuto a una gravidanza. Non fare brutti pensieri, non... Non fa bene... Non fa bene al bambino.” concluse, faticando non poco a esprimersi a quel modo, dato che le pareva assurdo pensare che Bianca fosse davvero incinta.

La ragazza la guardava in silenzio, pallida e in attesa. Quel tentativo di tranquillizzarla, evidentemente, non era andato del tutto a segno.

“Farò venire un medico, comunque.” tagliò corto la Sforza, alla quale, nel frattempo, era tornata in mente la storia tragica di sua sorella Bianca, morta dando alla luce una figlia che non le era sopravvissuta: “Dirò a Fortunati di mandarmene uno di fiducia, uno che sia esperto anche di queste cose... Dirò che serve a me, così nessuno avrà di che sparlare. E intanto ti darò qualcuno dei miei ricostituenti, in modo che...”

Prima che potesse finire la frase, la Riario, cogliendola di sorpresa, si alzò di scatto e, senza vacillare più, l'abbracciò.

Sentendo un nodo stringerlesi alla gola, la Tigre non la allontanò, ricambiando però solo in parte la stretta. Le sembrava tutto così difficile e confuso da non riuscire nemmeno a mostrare il proprio appoggio alla figlia anche in quel modo.

“Se sei felice, mi basta, a questo punto, non mi interessa altro.” le disse solo, mentre ancora le stava attaccata con forza: “Mi basta sapere che non hai paura. Quando doveva nascere tuo fratello Ottaviano, io cercavo di non pensarci, perché non lo volevo, ma avevo una paura folle di tutto...”

“Anche io ho un po' paura.” confessò la giovane, allontanandosi un po, ma cercando le mani della madre con le proprie: “Ma... Ho vent'anni compiuti, quest'anno ne farò ventuno... Non quindici.”

L'accenno all'età che Caterina aveva, quando era nato Ottaviano, diede una stretta al cuore della Leonessa. Ricordare di aver partorito poche settimane prima di compiere sedici anni per lei era sempre un dolore inaudito, era come se l'ingiustizia subita venisse amplificata ogni volta.

“Andrà tutto bene.” riuscì solo a dire: “Hai ragione: ormai sei adulta. Sai quello che fai. Vedrai, io ti starò vicina e andrà tutto bene. Tutto il resto, prima o poi, si sistemerà.”

Bianca, a quel punto, abbandonandosi a un pianto leggero e silenzioso, ma profondamente liberatorio, l'abbracciò di nuovo e, parlandole direttamente all'orecchio, le sussurrò: “Grazie.”

 

 





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