Bonno soku bodai. I desideri terreni sono illuminazione

di Giorgi_b
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Questa one-shot partecipa al contest “Natale con i tuoi, Capodanno con...?” indetto dal gruppo Facebook N di Nibunnoichi
 
 
31 dicembre
Omisoka, festa per la fine dell’anno, casa Tendo.
 
 
Happosai
 
Del maestro Happosai non si poteva certo dire che fosse una persona religiosa o spirituale, ma quando quella sera, allo scoccare della mezzanotte, le campane dei templi di tutto il Giappone cominciarono a risuonare cento otto volte per la purificazione dai bonno, i desideri terreni, una riflessione prese forma dentro di lui. 
Secondo gli insegnamenti del grande Nichiren Daishonin, “I desideri terreni sono illuminazione” e chi era lui per dissentire? Poiché il senso ultimo è sradicare le otto sofferenze e il non perseguire i propri desideri era proprio una di queste, se Happosai avesse dovuto biasimarsi per qualcosa rispetto all’anno appena trascorso, era certamente di non aver rubato abbastanza biancheria femminile, non aver palpato un numero sufficiente di donne e non aver spiato quanto avrebbe voluto la dolce Akanuccia mentre si cambiava nello spogliatoio del Furinkan. 
Invero, il grande e maestoso Happosai giammai avrebbe camminato in una valle di lacrime e dolore! Egli piuttosto, fino alla fine dei suoi giorni, avrebbe continuato a inseguire i propri desideri terreni cavalcando a pelo le candide puledre sacre agli dei, esattamente come il Buddha, ma impugnando un wakizashi in una mano e un babydoll di pizzo nell’altra! 
La risata sguaiata di Genma ubriaco, intento a farfugliare sciocchezze col compare Tendo, lo risvegliò dal suo sogno a occhi aperti, sorprendendolo in una posa epica, mentre brandiva la lunga e sottile Kiseru come un’arma contro il mezzobusto che nel televisore del soggiorno descriveva la confusione dei festeggiamenti del capodanno per le strade di Tokyo. 
Il vecchio si guardò intorno con fare circospetto, preoccupato che qualcuno lo avesse sorpreso in quella posa ridicola in preda ai suoi deliri di magnificenza. Ma nessuno gli stava prestando attenzione e, con un sospiro di sollievo, tornò a sedersi sul suo soffice cuscino, le braccia e le gambe incrociate, gli occhi chiusi e la fronte aggrottata, ostentando un'espressione meditabonda. 
«Maestro, gradisce del sakè?» sussultò al suono dolce della morbida voce di Nodoka.
Egli annuì serio, cercando di apparire solenne e grandioso come nelle sue fantasie, ma la donna non lo degnò d'uno sguardo, si inginocchiò, gli versò un bicchierino di liquore poi sorrise con cortesia, si rialzò e si mosse in direzione di Soun e Genma. Happosai bevve un sorso e il liquido caldo scese nella gola, rinfrancandolo come un balsamo. 
Un altro rintocco di campana gli restituì il bandolo della matassa dei suoi pensieri: i desideri terreni, il raggiungimento della felicità, gli amati zuccherini e l’esiguo raccolto dell’anno passato.
Eh, già. Da quando un certo giovane e talentuoso, quanto sciocco e immaturo allievo era entrato nella sua vita, le battute di caccia grossa si erano ridotte in maniera sensibile. Quel ragazzo non era malleabile come il padre alla sua età, né tantomeno ubbidiente come il futuro suocero: Ranma Saotome era una bella gatta da pelare. Rise sotto i baffi per la velata allusione alla sua fobia. 
L’onestà morale e il pudore erano forse patrimonio genetico della madre? Per sua fortuna, Ranma aveva ereditato da lei anche l’avvenenza e il portamento elegante. 
Guardò in tralice Nodoka: era decisamente una gran bella donna. Il kimono lasciava scoperto il suo collo da cigno e mentre si chinava per versare il sakè a Saotome e Tendo, la stoffa si tese sulle sue curve, facendo salivare Happosai più di quanto avrebbe dovuto. 
Deglutendo spostò rapidamente lo sguardo altrove. Del resto anche lui aveva un codice d’onore: mai avrebbe messo le mani su una donna rispettabile, volitiva e, soprattutto, armata della katana più affilata della prefettura di Tokyo.
Un brivido si arrampicò sulla sua schiena. 
Poi, certo, era anche moglie di Genma, nonché madre di Ranma.
La risatina maligna che avrebbe voluto fare fu repressa da un improvviso, impellente, lungo sbadiglio. 
Bah, fatto sta che quel cretinetto di Ranma gli rovinava sempre ogni piano di conquista. Eppure… - lo sguardo si posò sul giovane discepolo seduto con le gambe incrociate sotto al kotatsu che, ridendo, giocava a carte con le sorelle Tendo - …eppure, in fondo, voleva bene al ragazzo. Ecco, l’aveva detto. 
Del resto quell’allievo - per Happosai forse l’ultimo di una lunga carriera da sensei - era senza dubbio il più promettente artista marziale giapponese; il matrimonio con Akane Tendo e, soprattutto, l’erede che ne sarebbe scaturito avrebbero rappresentato per la sua scuola di lotta indiscriminata il giusto coronamento di una vita di insegnamenti e sacrifici. Si asciugò il principio di una lacrima e la risata cristallina di Akane alla reazione di Ranma quando pescò, per l’ennesima volta, la Baba nuki dal suo mazzo lo rallegrò come un suono di campanelle.
Happosai cominciò a sentire le palpebre pesanti e sbadigliò di nuovo.
Certo, per essere il suo degno successore il ragazzo avrebbe dovuto apprendere alcune “tecniche speciali” della scuola di lotta indiscriminata… un sorrisetto sornione si allargò sul volto del vecchio. 
Sì, disse perentorio a se stesso, ecco un eccellente proposito per l’anno nuovo: l’indomani stesso, avrebbe iniziato l’addestramento di Ranma, insegnandogli proprio i fondamentali - infallibili! - colpi segreti che avrebbero fatto di quel ragazzino un vero uomo. 
Sarebbe partito dai rudimenti, le classiche tecniche di base di lotta corpo a corpo tra le lenzuola, per poi passare a cose più complesse, come “La piovra dai cento tentacoli”, grazie alla quale, con la giusta abilità e rapidità di esecuzione, si riusciva a slacciare un reggiseno in poche frazioni di secondo, oppure “Il dragone di fuoco”, che induceva la preda a visualizzare un maestoso drago rosso fuoriuscire dalle mutande di chi lo evocava, distraendo, talvolta, dalle reali dimensioni anatomiche dell’esecutore, probabilmente più modeste della bestia mitologica richiamata. Non che a lui servisse, intendiamoci… sghignazzò compiaciuto tra sé e in un breve momento amarcord riaffiorarono alla sua mente le innumerevoli espressioni di stupore e meraviglia di tutte le giovani e ingenue vittime mietute tra il Giappone e la Cina nella sua lunga, lunga vita. Accese la pipa soffiando via con voluttà una nuvola gonfia di denso fumo bianco, le labbra arricciate in un sorriso malinconico che presto si spense in un sospiro laconico.
Da quel punto di vista Ranma aveva davvero molto da imparare. 
Happosai non poté non pensare alla fortuna sfacciata di quel cretino: tre belle ragazze che gli ronzavano intorno e che avrebbero fatto qualunque cosa per renderlo felice e, in più - ciliegina sulla torta - una splendida e dolce fidanzata di una sensualità ancor più eccitante perché acerba e inconsapevole.
Per carità, il ragazzo aveva ragione: Akane era giusto un pochino manesca, ma irresistibile nella sua genuina passionalità.
E lui, Ranma, l’adolescente maschio più anomalo del Giappone (forse anche del mondo intero), non faceva nulla per approfittare di tutta questa abbondanza, anzi! Rifuggiva da ogni genere di incontro ravvicinato con l’altro sesso, il deficiente!
Happosai chiuse gli occhi irritato e quasi si slogò la mascella con l’ennesimo sbadiglio. Lanciò un altro sguardo annebbiato dal sonno al kotatsu, richiamato dalle risate di Nabiki che minacciava di annaffiare Ranma con un bicchiere d’acqua se non si fosse sbrigato a scegliere la carta dal mazzo di Akane.
Il vecchio grugnì di disapprovazione.
Stava quasi per tralasciare la fortuna più grande del ragazzo: una maledizione che, ben gestita, sarebbe una benedizione per qualunque altro uomo!
Happosai si lasciò andare a un lungo, sognante sospiro.
Una perversa mente maschile dentro un sensuale e consenziente corpo femminile… Ah! Se solo quel baka di Ranma fosse stato un po’ più sveglio e smaliziato, avrebbe potuto praticare il migliore autoerotismo della storia dell’umanità, o, almeno, certamente dell’umanità di genere maschile. Invece…!
Ad occhi chiusi si abbandonò a fantasie perverse su Ranma-chan fin quando non arrivò ad immaginare se stesso colpito dalla maledizione della Nyan Nichuan ed ebbe quasi un conato di vomito. 
Tentò di svegliarsi, ma era già troppo tardi e Happosai rimase intrappolato in un sonno pesante e disturbato fatto di sogni sconci, ostaggio di un'orribile copia femminile di se stesso: vogliosa, ultracentenaria, sdentata, con pochi e sparuti capelli rossi e i seni cadenti.
 
 
Nodoka
 
Dopo aver servito il maestro, Nodoka proseguì verso suo marito e Soun, si inginocchiò di fianco al tabellone da shōgi e, senza nemmeno chiedere se ne volessero, versò un po’ di caldo sakè nei bicchierini dei due amici. 
«Grazie Nodoka. Stavamo meditando con Genma sui desideri irrealizzati nell’anno passato. Stavolta c’eravamo andati così vicini…» Soun sospirò asciugandosi una lacrima sulla manica del kimono. 
Se per vicini questi due idioti intendevano un matrimonio sabotato, il dojo semi distrutto, l’autostima di Akane in pezzi, le speranze di Ranma di tornare uomo al cento per cento finite nello stomaco di Happosai… beh, aveva fatto proprio bene ad escogitare quel piccolo, innocente espediente per lasciare in pace i due fidanzati da quel disturbo ossessivo-compulsivo dei loro padri chiamato “Unione delle nostre scuole attraverso il matrimonio e la progenie di Ranma e Akane”
Posò uno sguardo su quel bieco, egoista, inetto e sovrappeso del marito e un insolito moto di affetto nei suoi confronti la colse alla sprovvista. Quanti anni erano passati da quell’omisoka che avevano trascorso abbracciati, scambiandosi promesse d’amore, accompagnati dal suono delle campane! 
Quella notte, per la prima volta, Ranma prese forma nei loro pensieri.
Sarebbe stato un grande guerriero, leale, fiero, coraggioso, bellissimo.
In poche parole: un vero uomo
Parlarono a lungo di quel figlio immaginario e Nodoka si innamorò dell’idea prima ancora di fare le corrette valutazioni se quel Saotome fosse la persona giusta per portare avanti un simile, ambizioso progetto. 
Si voltò a guardare Ranma e lo vide concentrato a sbucciare un mandarino mentre lanciava occhiate furtive ad Akane che, ignara, rideva mischiando le carte per una nuova partita di Baba nuki
Sorrise. Oggi Ranma, a diciotto anni, era esattamente come lo aveva sognato quella sera. Fu colta da una profonda commozione: era valsa la pena passare tutti quegli anni lontana dal suo bambino, ogni sofferenza era stata ripagata. Aveva avuto fede e, incredibilmente, quello sciocco incapace del marito era riuscito a trasformare in realtà il suo desiderio di madre. 
Come se avesse percepito quei pensieri, con delicatezza Genma le prese la mano e ne baciò le dita affusolate. Poi piantò uno sguardo annebbiato dall’alcol nei suoi occhi e le disse con voce strascicata: «Nodoka, sei stata molto saggia a scegliermi come compagno di vita. Tuo figlio è quello che è grazie a me, non dimenticarlo mai!» 
Un fiotto di bile le inondò le viscere.
Già. Ranma è virile grazie a te, Genma. Grazie a te è anche una donna quando si bagna con l’acqua fredda. Grazie a te ha il terrore di soffici e teneri micetti, grazie a te è incapace di esprimere le proprie emozioni e i propri sentimenti. Grazie a te è un egoista, uno sbruffone e un arrogante.
La tenerezza nei confronti dell’uomo svanì come era arrivata, ritirò la mano che istintivamente andò all’impugnatura della katana, poi, di fronte al pallore del marito, fece un freddo sorriso di circostanza e si alzò, congedandosi con un leggero inchino. 
Con piccoli passi eleganti raggiunse il kotatsu dove i ragazzi giocavano ridendo, versò a Nabiki e Kasumi del sakè e andò a sedersi sul suo cuscino, in un angolo della stanza da cui godeva di un’ottima visuale su tutti componenti di quella stravagante famiglia allargata. 
Sfoderò la sua fedele katana e prese a lucidarla con un panno. 
Dopo qualche minuto, passò in rassegna con lo sguardo gli abitanti di casa Tendo: il maestro Happosai acciambellato come un gatto sul suo cuscino che scalciava nel sonno e farfugliava lamenti; davanti a lui i due amici fraterni che ridevano sguaiati, tra uno sbadiglio e l’altro, portando avanti una infinita partita di shōgi. Nabiki era già crollata con la testa poggiata sul tavolo mentre Kasumi era sdraiata sul tatami con le gambe sotto la calda oki, in viaggio nel mondo dei sogni. Quando sentì anche i due uomini russare profondamente, uno sdraiato sul tabellone da gioco e l’altro coricato a terra usando il maestro Happosai come cuscino, decise che era infine giunto il suo momento. 
Rimise la katana nel fodero, si versò quello che rimaneva del sakè narcotizzante che aveva prelevato in segreto qualche tempo prima da un cesto di regali di Kodachi Kuno e lo buttò giù, in un solo gesto. 
Ascoltando le campane suonare, si disse commossa che la virilità di suo figlio, il bonno che l’aveva ossessionata in tutti quegli anni, era stato raggiunto e che ora l’unico desiderio terreno che le era rimasto da realizzare era la felicità di Ranma e Akane.
Mentre le palpebre si facevano pesanti guardò ancora una volta quei due che ridevano spensierati, mangiucchiando pezzetti di mochi, il tavolo ricoperto di bucce di mandarino e carte francesi. Pregò i kami che la sostenessero lungo la strada della realizzazione del suo desiderio e poi, serena, si addormentò.
 
 
Akane
 
Nel momento in cui la mano di Ranma si avvicinò, Akane alzò gli occhi, li puntò nei suoi e con uno sguardo imperturbabile disse seria: «Sicuro di voler prendere proprio quella carta, Ranma?»
Vide le sue pupille stringersi e le dita tremare leggermente. 
Paura. Ranma Saotome aveva paura di perdere. 
Da quando King aveva quasi vinto a carte la loro casa e il dojo, Akane aveva avuto l’idea di questo bizzarro addestramento. Si ritrovavano ogni sera nella sua stanza e, con il pretesto che prima o poi il “Re del gioco” sarebbe tornato a chiedere una rivincita, aveva allenato Ranma a Baba nuki
Sebbene fosse una scusa ridicola per trascorrere un po’ di tempo insieme indisturbati, tutti finsero di crederci, per primi il signor Saotome e suo padre, che si erano spaventati molto in quella occasione, tanto che Akane ebbe più volte il sospetto che pensassero davvero che King sarebbe tornato. 
Ranma comunque, nonostante l’allenamento, mostrava pochi segni di miglioramento, sia nel gioco che nella loro relazione, perché il cretino, come era prevedibile, sentendosi inferiore in qualcosa, investiva tutte le sue energie nel cercare davvero di battere Akane e diventare, anche in questo campo, il migliore, eludendo l'obiettivo principale (almeno per lei): avvicinarsi un po’. 
In ogni caso, si riteneva abbastanza contenta anche solo per quelle ore trascorse insieme, dal momento che si considerava una donna di spirito e molto, molto ottimista. 
Ad essere proprio sincera, continuava a sfuggirle il termine esatto per definirsi.
Certe sere Ranma, uscendo dalla sua stanza, irritato per gli esiti disastrosi dell'allenamento la salutava senza nemmeno guardarla negli occhi e lei si sentiva frustrata e abbattuta: non che sperasse in un qualche contatto, per carità! Di certo non un abbraccio o un ba… un bacio… assolutamente no!
Magari… un sorriso, ecco, una pacca sulla spalla, una stretta di mano… sarebbe stato sufficiente anche un semplice grazie!
Le balenò nella mente che forse patetica era la parola che stava cercando. 
Scosse la testa e tornò in sé. Ranma era ancora concentrato sulla scelta della carta. 
La prima tecnica che gli aveva trasmesso era l’importanza di imparare a leggere il volto dell’altro, e… sì, doveva ammettere che questo insegnamento, in maniera impercettibile, aveva giovato anche al loro rapporto.
Ranma sembrava più attento alle sue espressioni di dispiacere, delusione o rabbia quando litigavano e aveva avuto l’impressione che in qualche modo si contenesse per non ferirla più del necessario per portare avanti quella strana relazione basata sul litigio, l’insulto, il fraintendimento e l’imbarazzo.
Ranma finalmente scelse una carta e la tolse dal mazzo di Akane che gli sorrise di sbieco esclamando: «Bravo, stavolta hai pescato bene!» 
«Comincia a sudare, Akane! Mi sento così fortunato che se fosse una partita di “Strip Baba nuki” potrei spogliarti fino alle mutan… » si bloccò e divenne talmente paonazzo che Akane pensò che un pezzo di mochi gli fosse andato di traverso. Si alzò di scatto per battergli una mano sulla schiena. Lui altrettanto repentinamente si buttò a terra coprendosi la faccia con un braccio mentre con l’altro la teneva a distanza: «No, ti prego! Scherzavo! Era tanto per dire!»
Akane si bloccò con una mano alzata e un rintocco di campana risuonò nell’aria gelida della notte.
Ecco un desiderio: vorrei smettere di fraintendere Ranma Saotome. 
Mise su un broncetto infantile e mantenne il punto incrociando le braccia. «Non azzardarti più a dire una simile sciocchezza, maniaco pervertito che non sei altro!» 
Infilò le gambe sotto il kotatsu e riprese le carte in mano. Ranma fece lo stesso con uno sguardo accigliato. Akane riconobbe l’espressione da “non sei per niente carina” ma gli fu molto grata per non aver verbalizzato il concetto. 
«Ricominciamo?» gli disse abbozzando un sorriso. Lui raccolse le carte con una mano mentre con l’altra riprese a giocare con le bucce di mandarino. 
Questa era la seconda tecnica che gli aveva insegnato: distogliere l’attenzione dalle carte e concentrare la mente altrove per evitare di mostrare le proprie espressioni all’avversario. 
Akane avvicinò le dita alle sue carte e iniziò a farle correre su quel ventaglio di possibilità. 
Era il momento che preferiva, poteva guardare quegli occhi grigi senza paura di essere giudicata, studiandone ogni sfumatura a seconda dei pensieri che li attraversavano.
I meravigliosi, caldi, profondi occhi di Ranma.
Akane, rimani tra noi!
Ranma sostenne il suo sguardo con insolita intensità. La strategia del mandarino stava funzionando: finora, per distrarsi dalle proprie carte e non mostrare delusione o felicità mentre Akane pescava, aveva intagliato nelle bucce decine di sagome arancioni di ogni genere (animali, lettere, oggetti), tutto utilizzando una sola mano: la leggendaria Amaguriken tornava utile anche in questo, le sue dita erano agilissime e veloci. 
Arrossì quando il suo ventre si sciolse immaginando all’improvviso quelle mani forti scivolare sicure sul suo corpo. 
Akane! Per l’amor del cielo, concentrazione! 
Inspirò, guardò il retro delle carte tutte uguali e ne prese una a caso.
Non ebbe bisogno di girarla per vedere di quale si trattasse, perché non appena estrasse la carta dal mazzo, Ranma batté i pugni sul tavolo e in un secondo si sporse fino ad arrivare a pochi centimetri dal suo viso urlando: «Ti ho battuta! Ci sei cascata!» 
Akane rimase immobile, inchiodata lì dov'era dal suo cuore, trasformato per l’occasione in un assordante martello pneumatico. 
Akane, fa’ qualcosa!
Abbassò lo sguardo deglutendo, con un sorriso di circostanza posò l’indice sulla spalla di Ranma e debolmente lo spinse via per farlo tornare a sedere. Tentò un sorriso beffardo e disse con voce malferma: «Non cantare vittoria, idiota! La partita non è ancora finita!» 
Ranma la guardò imbarazzato, come se anche lui si fosse reso conto del suo gesto impulsivo e in silenzio sembrò accettare la stoccata di lei come unica, elegante via di uscita. 
Akane si accorse improvvisamente della quiete irreale che gravava sulla casa. Perché i loro assurdi e invadenti parenti non avevano sottolineato quel momento con i soliti incitamenti volgari e commenti inopportuni? Ranma sembrò porsi la stessa domanda e commentò con stupore: «Sono tutti addormentati!». 
Akane si guardò intorno. Happosai accoccolato sul tatami si dimenava in un sonno disturbato, mentre Genma, che lo usava come cuscino, ogni tanto lo sprimacciava con un pugno per farlo stare fermo. Soun era crollato sul tavolino da shōgi e aveva un impasto di pedine, saliva e capelli su tutta la faccia. La zia Nodoka dormiva seduta, composta, poggiata contro la fusuma stringendo la sua katana; Nabiki, scivolata giù dal kotatsu, era sdraiata vicino a Kasumi che nel sonno le aveva poggiato una mano sulla guancia.
Si guardarono negli occhi e Akane intuì dalla velocità con cui distolsero lo sguardo l’uno dall’altra che forse avevano formulato lo stesso pensiero nello stesso momento.
Siamo soli.
Akane si schiarì la voce e disse senza troppa convinzione, nonostante il suo impegno: «Beh, in effetti è tardi. Finiamo questa partita e andiamo a dormire anche noi!» 
Un altro rintocco di campana, un altro bonno.
 
«Qual è il tuo desiderio terreno, Akane?»
La sua voce la colse di sorpresa. Era sussurrata, profonda. 
Con l’indice Ranma spostò verso il basso il ventaglio di carte dietro il quale si era nascosta per non guardarlo.
Cielo del crepuscolo illuminato dalla luna. Velluto caldo, soffice e morbido. 
«Il… il mio desiderio? Non... non so… fammici pensare! Tu… tu pesca intanto»
Deglutì e inspirò confidando di essere al sicuro per un po’, convinta che ci avrebbe messo qualche minuto a scegliere la carta, dandole il tempo di inventare una risposta plausibile ad una domanda tanto insidiosa.
Invece lui, con la sua mano profumata di agrumi, in pochi secondi prese la prima che gli capitò, continuando a guardarla negli occhi. Distolse lo sguardo per controllare velocemente cosa avesse pescato, dandole tregua solo per un attimo e quando lo rialzò, Akane si stupì nell’ascoltare la propria voce sussurrare in fretta: «Vorrei che fosse finito diversamente» deglutì «il matrimonio».
Un ronzio sordo fu tutto quello che trovò nella sua testa per giustificare ciò che aveva appena fatto uscire dalla bocca.
Sei impazzita?!
Eppure la forza di quella verità, detta ad alta voce per la prima volta, le esplose nel petto togliendole il respiro. 
Ranma di fronte a lei era una statua di sale. Indecifrabile. 
Fortunatamente, considerò, sarebbe di sicuro morta di infarto di lì a pochi minuti. Con questa certezza buttò via quel che restava della sua dignità, richiamò a sé tutto il coraggio di cui era capace e decise di andare fino in fondo. 
O la va o la spacca.
 
«Qual è il tuo desiderio, Ranma?» chiese in un soffio.
Lui rimase immobile e Akane si accorse che era ancora vivo solo perché dopo un tempo indefinito batté le palpebre, tornando lì, nella stanza con lei. 
Lo vide abbassare meccanicamente uno sguardo vitreo sulle sue mani poggiate sulle gambe sotto il tavolo. Più di una volta inspirò come per parlare, senza riuscirci. Infine, ostinandosi a guardare altrove, sussurrò con voce malferma: «Vuoi davvero conoscere il mio desiderio?» 
Il cuore di Akane si fermò.
Dirà che il suo unico bonno è tornare normale. Non gli importa niente di me, ecco la verità. 
Alzò gli occhi su di lei, finalmente, e Akane si sentì mancare.
Il grigio velluto notturno si era liquefatto in un oceano placido, immenso, l’unico in cui Akane si sarebbe mai lasciata andare tuffandosi senza paura, sicura che sarebbe stata cullata, accudita, accolta; certa di essere finalmente a casa.
La voce non le uscì quando mosse le labbra per dire sì, voglio saperlo, sono pronta. Luì capì comunque e, senza smettere di guardarla, con lentezza si allungò sul tavolo e le prese una mano tra le sue, il viso in fiamme e gli occhi lucidi. 
Sentì che le toccava le dita ma non ebbe il coraggio di distogliere lo sguardo da quel Ranma inedito. 
Sembrava così… commosso? Radioso? Trepidante? Di più. Mise da parte ogni pudore e confessò incredula al suo cuore imbizzarrito: Ranma sembrava… innamorato…!
Per l’ennesima volta lui aprì la bocca e la richiuse. 
Poi, con un filo di voce rotta dall’emozione, disse: «Il mio più grande de… desiderio è che... che tu… tu… diventi mia mo… moglie, Akane Tendo».
Gli occhi di Akane caddero sulla propria mano sinistra. All’anulare era comparso un piccolo, odoroso, irregolare anello di buccia di mandarino.
Alzò lo sguardo e lui era lì. Bellissimo, imbarazzato, speranzoso; distorto dalle lacrime che ormai Akane non poteva più trattenere. 
A quel punto, tutto quello che fece fu ubbidire al suo corpo che, da due anni, non chiedeva altro che essere ascoltato: scattò in avanti all’improvviso per saltargli al collo, felice, dimenticando di fare i conti con la propria goffaggine. Nella foga Akane urtò il kotatsu con le ginocchia ribaltandolo, inciampando e cadendoci sopra, rovinando sul povero Ranma che rimase schiacciato dal peso del tavolo e di Akane. 
Dalle lacrime di gioia passò rapidamente ad una risata isterica.
«Ranma?» chiamò ridendo. Ma non ci fu alcuna risposta. «Ranma?» chiese, tentando di arginare il riso e il pianto. «Ci sei?»
Con due dita scostò lentamente l’oki che copriva il volto di Ranma ma subito lui, con una mano, trattenne la coperta sulla sua testa. 
Akane domandò di nuovo con un velo di preoccupazione: «Ranma?!» 
«Non ho intenzione di uscire da qui finché non mi risponderai» rispose seria la sua voce ovattata dall’imbottitura della trapunta. E aggiunse, tradendo una fatica immensa nel dirlo: «Akane, tu… tu mi… mi ami, non è vero?» 
La domanda la colpì come uno schiaffo. Erano le esatte parole che gli aveva posto lei diversi mesi prima nella sua stanza, quando con l’inganno era stato infilato in un vestito da sposo e scaraventato in quella situazione assurda di cui lei si era resa complice. E non ne andava affatto fiera. 
Solo adesso capiva quanto quella domanda avesse continuato a risuonare nella testa di Ranma, oltre che nella propria.
Guardò l’anello di mandarino al suo dito e si disse che era giunto il momento di crescere e di lasciarsi alle spalle ogni incomprensione e ogni insicurezza. Ranma aveva fatto la sua parte, ora toccava a lei. 
«Ranma Saotome» disse semplicemente «sei un baka arrogante, un testardo pallone gonfiato, egoista, egocentrico e un fannullone per qualunque cosa non riguardi le arti marziali» fece una pausa per tentare di sciogliere il nodo che le rendeva sempre più faticoso parlare. «Nonostante questo - o forse proprio per questo - ti amo e non desidero altro che diventare tua moglie. Ora esci di lì prima che cambi idea».
Ranma abbassò l’oki talmente in fretta che lo spostamento d’aria le scompigliò i capelli e le fece chiudere gli occhi. 
Non ebbe nemmeno il tempo di riaprirli che lui le aveva già preso il volto tra le mani e, senza possibilità di fraintendimenti, senza nastro adesivo, senza trasformazioni feline, senza nessuno che li interrompesse, minacciasse, incitasse, filmasse o fotografasse… Ranma la baciò. 
La baciò, ancora e ancora. E Akane non si tirò indietro, restituendo ogni bacio e dandone di nuovi molte e molte volte, con grande generosità e profonda gratitudine.
 
Quando diverse ore dopo le campane smisero di suonare e il silenzio cadde sui sogni degli abitanti di casa Tendo e di tutta Nerima, l’alba del primo giorno dell’anno li sorprese ancora lì, sdraiati a terra, separati da un kotatsu ribaltato, intenti a recuperare tutto il tempo perduto e, attraverso la realizzazione dei loro desideri terreni, muovendo i primi passi sulla lunga e tortuosa via dell’illuminazione. 
 
 
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Ciao a tutt* e buone feste!
Tempo fa ho letto su qualche blog che i giapponesi amano passare il capodanno in famiglia a giocare a carte. Questo, ovviamente, mi ha fatto correre a riprendere i capitoli 150-153 su “King, il Re del gioco” (n°21 ed. Neverland) e tutto è partito da lì (grandi risate per la terribile faccia da poker di Ranma XD).
Un enorme GRAZIE alla mia adorata Tiger Eyes che ha beta letto questa os e a tutti voi lettori arrivati fin qui! Spero vi sia piaciuta, fatemi sapere cosa ne pensate, vi prego!
 
P.S. Mi scuso se sono stata superficiale o se ho scritto castronerie sul buddismo: ho letto qualcosa sul sito dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai sulle correnti giapponesi e ho sfruttato (biecamente!) a mio vantaggio quello che mi sembrava utile ai fini della storia, mi auguro di non aver toppato o aver offeso qualcuno!
 
Auguro a tutti un 2022 colmo di felicità e di desideri realizzati!
 
 
 
 
 
GLOSSARIO
 
DaishoninIl grande santo” è il titolo attribuito al monaco Nichiren (1222-1282), fondatore di una delle maggiori correnti del buddismo giapponese. Il suo insegnamento sui desideri sembra contraddire l’immagine ascetica del Buddismo. Secondo la sua interpretazione, infatti, i bonno si trasformano nel “carburante” del processo di Illuminazione.
Bonno soku bodai, letteralmente: “I desideri terreni sono illuminazione”, è un principio chiave del Buddismo di Nichiren Daishonin. Attraverso la pratica buddista, anche l’impulso più banale e illusorio può essere trasformato in qualcosa di più ampio e nobile e i nostri desideri si purificano in modo molto naturale dal loro egocentrismo fino ad ampliarsi comprendendo le nostre famiglie, gli amici, la comunità e, in definitiva, tutto il mondo. In questo modo, la natura del desiderio si trasforma profondamente: da materiale diventa esigenza di vivere una vita spiritualmente più appagante.
Bonno è l’espressione giapponese che indica le tendenze profondamente radicate che ci legano ai desideri, viene tradotta come “desideri terreni”, ma poiché in esse sono compresi sentimenti come odio, arroganza, animalità, diffidenza e paura, la traduzione “istinti illusori” potrebbe, in alcuni casi risultare più appropriata.
Wakizashi è spada della tradizione giapponese di lunghezza compresa tra i trenta ed i sessanta centimetri ed era solitamente portata dai samurai insieme alla katana. Il samurai non si separava mai dalla wakizashi che veniva chiamata, infatti, "la guardiana dell'onore".
Kiseru è la pipa tradizionale giapponese. Caratterizzata da un fornelletto di dimensioni ridotte e una forma molto sottile, veniva utilizzata anche come arma di difesa personale dal proprietario.
Kotatsu è il telaio in legno di un basso tavolino, sopra il quale viene posto un futon o una pesante coperta(oki). Sopra la coperta è presente un piano di appoggio per consentirne l'uso come un normale tavolo, mentre sul lato inferiore della struttura viene montata una fonte di calore (tipicamente una resistenza elettrica). 
Baba nuki (la cameriera) è un gioco di carte molto semplice che può essere giocato a tutte le età, equivale al “l’uomo nero” o "Asino". Si sceglie una carta (di solito il jolly o il fante di picche) e si eliminano dal mazzo tutti i doppioni. Distribuito tutto il mazzo tra i giocatori, inizia la fase di gioco vera e propria. Ricevute le carte, ogni giocatore scarta dal proprio mazzo le coppie di carte dello stesso valore. Le carte rimanenti sono quelle che entreranno in gioco: il primo giocatore di mano è colui che possiede più carte al termine dello scarto iniziale. Il giocatore di mano porge le proprie carte (coperte) al giocatore alla sua destra, che ne pesca una a caso. Se la carta pescata fa coppia con un'altra in suo possesso allora il giocatore le scarta entrambe, altrimenti la inserisce nel proprio mazzo. Adesso è il turno di gioco di questo giocatore, che porge le carte a quello alla sua destra, che pesca dal suo mazzo. Questa fase viene ripetuta per tutti i giocatori per tanti giri quanti ne servono a scartate tutte le coppie. Chi, durante i giri, esaurisce le carte, termina la sua partita.  Alla fine resta una sola carta in gioco, baba nuki: il giocatore che l'ha in mano perde la partita e sarà sbeffeggiato dagli altri partecipanti. (Curiosità: sulla pagina Wikipedia del gioco “Asino” è espressamente citato Ranma 1/2!)
Oki trapunta che viene posizionata tra il piano di appoggio e la struttura del kotatsu.
Fusuma pannelli verticali rettangolari che, scorrendo, ridefiniscono la struttura delle stanze, o fungono da porte, all'interno delle abitazioni tradizionali.
Amaguriken la leggendaria “tecnica delle castagne”, uno dei cavalli di battaglia di Ranma.




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