Nella foto, come immagino Lucia e il sergente
maggiore Jörg.
L’immagine è tratta dal film “Suite francese”.
Capitolo 54
Lacrime e lividi
“Non t’amo se non perché t’amo e
dall’amarti a non amarti giungo e dall’attenderti quando non t’attendo passa
dal freddo al fuoco il mio cuore.
[…] In questa storia solo io muoio
e morirò d’amore perché t’amo, perché t’amo, amore, a ferro e fuoco.”
Pablo Neruda, Non t’amo se non
perché t’amo
Non si accorse dello scorrere del tempo,
finché il sole caldo di mezzogiorno non sfiorò le sue ciglia socchiuse nel
dormiveglia inquieto e le campane della Cattedrale suonarono a richiamare i
fedeli al saluto alla Vergine, Matteo a far ritorno dalla sua sposa.
La stanchezza derivante dal sonno
perduto e l’emicrania per le troppe ore trascorse in barca, in balia
dell’umidità del clima marino avevano sgombrato la sua mente da ogni pensiero, stordendolo
e acquietando quel suo sentimento di rabbia repressa che cheto restò, fin
quando non scorse in lontananza chi lo attendeva sul porticato di casa, coi
baffi grigi a dargli un’aria distinta e severa, le mani sui fianchi e gli occhi
dardeggianti a preannunciare l’imminente rimprovero.
Nonostante l’insistenza di Davide nel
volergli parlare, Gennaro era rimasto irremovibile nella propria decisione che
tale compito a lui spettava, non solo perché presumeva che qualsiasi discorso
fatto dal maestro di pianoforte non avrebbe sortito nessun effetto su Matteo,
accortosi di come questi non lo vedesse di buon occhio a causa delle malelingue
del paese, ma anche e soprattutto in virtù della promessa fatta all’amico,
compagno di trincea di prendersi cura dei suoi beni. E Sarah era il più
prezioso.
Seppur una parte di sé desiderasse
temporeggiare per ritardare l’incontro, Matteo accelerò con rabbioso vigore la
cadenza dei remi, autoconvincendosi di essere nel giusto verso Sarah per
vincere il timore della paternale e del giudizio di chi gliel’aveva affidata
come una figlia.
Senza rivolgergli lo sguardo, ormeggiò
la barca di fianco alla banchina e, con mani tremule ma celeri, nascondendo
l’espressione corrucciata dietro uno scompiglio di capelli ricci bagnati
dall’umidità, legò le funi alle colonnette. Fingendo di non averlo visto, si
apprestò a pulire le reti che neanche aveva usato e percepì la sua figura dirigersi
verso il molo con austera lentezza.
Più che per vergogna, si nascondeva per
orgoglio e non sollevò il capo nemmeno quando Gennaro fu troppo vicino, sicché
questi dovette fingere un colpo di tosse per attirare su di sé l’attenzione,
prima di rivolgergli un «buongiorno» tra il serio e il canzonatorio.
“Buongiorno a voi”, ricambiò il saluto,
imitandone l’intonazione, ma lo tradì un accento irritato che il distogliere lo
sguardo, facendo finta di rassettare le reti, non fugò dall’attenzione di
Gennaro.
“Tien ’na bella faccia tosta, guagliò”,
ribatté e le parole – a cui il dialetto conferiva maggior enfasi – s’impregnavano
di delusione, mentre pensava a come Matteo lo avesse, fino a quel momento,
ingannato con una parvenza da bravo ragazzo.
Per la bontà e la buonafede dei suoi
sentimenti, non certo perché fosse un buon partito, economicamente e
socialmente parlando, gli aveva, infatti, concesso la mano di Sarah, pur se ne
disapprovasse la frettolosa scelta resa possibile dalla di lei risolutezza nel
mettere in vendita la casa di famiglia.
Quei beni che aveva sottratto agli
artigli del nazifascismo eran comunque finiti in mano
sbagliata, pensò Gennaro pervaso da un senso di colpa verso l’amico che
preferiva credere solo disperso e, indicando la casa con un cenno della testa,
concluse più autorevole: “Trasimm, t’aggia parlà.”
Tutto sembrava arrecarle fastidio: l’apprensione
nelle parole della moglie del signor Gennaro, mentre insisteva affinché
riposasse; l’eccessiva gentilezza in quelle di Hannah – artifizio col quale
tratteneva il nodo di lacrime per la sorte dell’amica –, mentre s’offriva di
svolgere il lavoro al posto suo.
Aveva già rifatto il trucco Sarah e, di
nuovo, indossato la maschera di donna forte, stavolta per nascondere l’orgoglio
ferito. Mai avrebbe voluto rivelare il fallimento del suo matrimonio, lo
sgretolarsi dei suoi sogni alle persone a lei più care – soprattutto, a chi ne
aveva inizialmente disapprovato la brevità del fidanzamento – e in un modo poi
così disperato, tra lacrime e lividi.
Inibita da un certo timore reverenziale,
non era riuscita a contraddire la signora Carmela, ma, rimasta da sola con
Hannah, frenò le sue mani in procinto di sollevare il vassoio dal bancone con
un gesto rude, inaspettato.
“Faccio io”, esclamò risoluta, mentre le
afferrava il polso, colpendoglielo. E il colpo riecheggiò nell’aria, innanzi
all’assente presenza di spettatori distratti, e nel cuore, già conscio
dell’errore.
Incontrando lo sguardo rugiadoso
dell’amica, gli occhi di Sarah, un attimo prima dardeggianti, ne assunsero la
stessa espressione di stupore e un varco s’aprì nella sua memoria. Aveva già
vissuto una scena simile.
Campo di Fossoli, 16 luglio 1944
Al solo vederla di spalle coi capelli
biondi raccolti in un perfetto chignon con la treccia, quasi a voler pavoneggiarsi
di sembianze ariane, sentì ribollire in sé un inconfessato sentimento di sdegno
e gelosia che si esplicitò con la rabbia di un gesto irriflesso, quand’ella si
accinse a sollevare il vassoio dal ripiano della cucina.
Avvicinatasi fulminea e silenziosa,
Sarah le colpì il polso, afferrandoglielo e, con una forza sprezzante, le
allontanò la mano che batté contro il fianco, mentre il vassoio ricadeva
rumorosamente sul ripiano.
Alcune donne presenti si dileguarono,
altre, compresa Giuditta, guardavano di sottecchi la scena, senza la benché
minima intenzione di intervenire per timore di una punizione conseguente
all’eventuale litigio e tutte furon prese da
meraviglia dinanzi al comportamento di Sarah della quale pensarono di non
potersi più fidare, com’era per l’amante del sergente maggiore.
Dal giorno dell’ingiusta esecuzione
subita dagli internati politici, perdurava, nell’animo di tutte, un profondo
stato di turbamento e vulnerabilità, perfino in quello della tanto determinata cameriera
bionda. Solo Sarah, sebbene fosse oltremodo empatica, sembrava aver dimenticato
la strage di cui era stato vittima anche un ragazzino di sedici anni, obliando
la tragica realtà, le incertezze sul futuro e l’angoscia di morte per
rincorrere illusioni d’amore.
“Faccio io”, disse e si concesse il privilegio
di un tono altero, sentendosi forte della protezione di Hermann, “il signor
tenente non ha più bisogno dei tuoi servizi.”
Sul volto dell’altra, il cipiglio
corrucciato per l’indelicato gesto subito, di colpo, svanì per lasciar posto a
un’espressione di stupore, la stessa che, incontrando i suoi occhi color
smeraldo, luccicò, quasi simultaneamente, come impercettibile velo di lacrime
trattenute, anche nello sguardo di Sarah, sconcertata dalla propria reazione.
In essa riconobbe la tracotanza riconducibile ad Hermann al quale era finita,
in quel momento, ad assomigliare, mostrando di sé un lato violento,
prevaricatore che non le apparteneva e affibbiandosi il marchio di donna da
temere, con l’affermazione, seppur inconscia e implicita, del proprio ruolo di amante
del comandante del campo.
Ed ebbe paura di se stessa, ricordando
anche il monito di don Franco a non trasformarsi in ciò che non era.
Intanto, onde evitare un possibile coinvolgimento
nella situazione che andava surriscaldandosi, le poche donne rimaste in cucina
si apprestarono ad uscirvi e la cameriera bionda rivolse loro uno sguardo e un
sorrisetto ironici, più per stemperare la tensione che per schernirle.
“Voi mi vedete come una menefreghista,
una traditrice”, esordì e ruppe quel silenzio che, nella sua eloquenza, si
prestava a mostrar di lei la vera essenza, rivolgendosi unicamente a Sarah con
un tono sempre più lapidario, “come un’arrivista, una poco di buono e fate
bene, ma non sono sempre stata così.”
Inaspettatamente per entrambe, sulle
ultime parole, la voce s’era incrinata e un’espressione di tristezza mista a
rassegnazione aveva disteso i tratti del suo viso. Il silenzio riprese a
svelarne il lato vulnerabile.
Poi, d’un tratto, dinanzi al crescente
stupore di Sarah, in un’alternanza di risolutezza e commozione, confessò: “Per
vigliaccheria ho vestito i panni di staffetta partigiana e mi sono ritrovata a
combattere una guerra che non m’apparteneva e che – non me ne volere – non m’importava
granché.” Fece una pausa, alzando le spalle, forse, soltanto per poterle
riabbassare in segno di resa. “Ma la preferivo alla mia.”
Emise un esile sospiro, prima di
proseguire, dicendo: “Non ho avuto il coraggio di affrontare il fallimento del
mio matrimonio e sono andata via di nascosto. Senza dire una parola, senza
chiedergli il perché.”
Spostò il colletto della camicia e volse
lievemente il capo verso destra, mostrandole una cicatrice di forma circolare
sul collo, indubbiamente riconducibile a una bruciatura di sigaretta, ma Sarah
equivocò su chi ne fosse l’artefice.
“Io cercherò di fare qualcosa per te”, affermò,
tornando ad essere quella di sempre, con un tono empatico e, allo stesso tempo,
risoluto, pur sapendo che ad Hermann non sarebbe importato nulla.
Le labbra dell’altra si aprirono a una
fievole risata sardonica, nervosa per poi esprimersi con mestizia: “Non è stato
lui.” Si fermò per emettere un sospiro, stavolta, più profondo. “La cosa brutta
è che da uomini come questi, dal tuo nemico te lo aspetti – e anche lui mi ha
picchiata –, ma non dall’uomo che ami e che dice di amarti.”
La spiazzò, suscitandole una sensazione
d’imbarazzo che divenne, nuovamente, di stupore, quand’ella, in modo improvviso,
riprese il suo contegno altezzoso e la sua voce da oca giuliva, mentre,
cambiando discorso, le diceva: “Sei una brava persona, Sarah. Fuori di qui,
avremmo potuto essere amiche.” E le porse la mano per presentarsi. “Lucia.”
Mai
s’innamorarono Lucia e Jörg ai quali toccò la sorte che fu da Sarah ed Hermann
elusa. Morì il sergente maggiore nei primi attimi della battaglia partigiana di
Gonzaga e lei finì su un treno diretto a Ravensbrück, uno degli ultimi treni di
deportazione partiti dal territorio italiano.
Esitante, Sarah le strinse la mano e,
con un sospiro di meraviglia mista a rammarico, esalò la sua risposta: “Sì,
avremmo potuto.”
“E
la domanda finale
è
se hai più gioia o pene,
se
sia più miele o sale,
se
un bene può far male
e
un male fare bene.
Se
conviene il male,
se
è irreale o c’è
e
se ci tiene insieme,
se
è uguale anche per te.
[…]
Nemmeno un ultimo addio.
Il
tuo è il mio,
ognuno
con il suo.”
Claudio
Baglioni, Mal d’amore