L'assaggio

di AliceDaQuelPaese
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Il coltello affondò nella pasta lucente. Trattenni un urlo di gioia nel vedere il contenuto scivolare sul piatto guadagnando il suo spazio con lentezza. Non avevo mai sopportato quelle robe filanti che escono dai dolci, e odiavo ancor di più la consistenza della ricotta, così sgraziata e molliccia.

Vidi l’uomo con il coltello osservare il piatto. «Bello». Alzò lo sguardo compiaciuto. «Veramente un bell’effetto». Scrisse un appunto sul taccuino alla sua sinistra.

Il mio aiuto cuoco sorrideva. Aveva sempre apprezzato il mio lavoro, ma “questa volta ti sei superato”, mi aveva detto. Ed era vero. Era il dolce perfetto: un ensemble ricercato di formaggi, spezie e dolcificanti. Mesi di ricerche sino a notte fonda, dopo il lavoro, nella solitudine della cucina. Prove, fallimenti, piccoli successi per arrivare a quel risultato.

Avevo trasformato una banale seada in un piatto raffinato: un’alchimia di formaggi finemente aromatizzata al peperoncino, racchiusa in un sottile raviolo croccante accarezzato dal miele di corbezzolo profumato all’arancia rossa.

Carletti continuò a scrivere sul taccuino. «Rivisita un piatto caratteristico della cucina povera dei pastori. Coinvolge i sensi, in primo luogo la vista, che…» guardò il piatto come se potesse parlare e fornirgli le parole. Infine, scrisse ancora, in silenzio.

Poggiò la penna. «Bene. Chissà se è anche commestibile». Rise della sua battuta.

Risi anch’io. O, almeno, cercai di farlo in modo credibile.

«Ma, prima di assaggiarlo...»

Conoscevo il rito di Carletti: era la penisola che portava in mezzo al viso a decretare il successo o il fallimento delle creazioni dello Chef. Sentii una goccia di sudore scivolare dalla tempia in direzione del mio sorriso. Ricordavo l’umiliazione subita dal mio predecessore.

Luigi era un omone il doppio di me, con un pizzetto che incorniciava un sorriso fermo e sicuro. Sorrideva sempre, anche nei momenti di tensione, anche quella volta che Carletti non aveva voluto comprare gli ingredienti perché “tanto domani chiudiamo per le ferie e non verrà nessuno” e ci eravamo ritrovati con la sala piena e il frigo semivuoto. Inventò e improvvisò, incoraggiando il gruppo con quel sorriso. Oltre alla serata, portammo a casa anche i complimenti del Presidente e della sua Signora, che si erano quasi voluti scusare con noi per aver invaso il ristorante senza preavviso.

Ricordo ancora il suo trionfo di branzino in salsa di more e pepe rosa scagliato contro l’acciaio del frigorifero e Carletti in piedi davanti al tavolo, che urlava insulti e indicava la porta.

Il fatto che il suo fallimento avesse fatto avanzare me nella gerarchia della cucina non aveva reso il trauma meno sconvolgente. Sentii l’occhio iniziare a pulsare.

Mi sorpresi a spiare l’espressione del mio aiutante. Il mio esilio l’avrebbe innalzato al ruolo di Chef. “Pensi di meritarlo, piccolo ingrato? Per chi tifi?”. Incrociammo lo sguardo e sorrise incoraggiante, pollici in su. Risposi tirando le labbra in una smorfia.

Il taglio della crosta aveva liberato nell’aria l’aroma delicato delle spezie.

Carletti si chinò ad annusare quel profumo celestiale. Aspirò rumorosamente.

Osservai le sue narici dilatarsi e comprimersi, come ali ai lati del porro che ornava la sua appendice.

Lo vidi tirarsi su, guardarmi sorpreso e starnutire sul piatto.

Una. Due volte. Sul dolce. Cinque. Dieci volte. Mille starnuti tutti sulla mia creatura.

Si allontanò bestemmiando, intimando di “buttare al cesso quella robaccia”.

Non è stato un incidente, signor Giudice. Carletti non è inciampato nella rastrelliera dei coltelli. L’ho spinto io, proprio col naso sulla mannaia.





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