BERNARDETTE
Affiché Bernardette venga- e Bernardette deve venire,
perché sa cose che a me e a voi sono sconosciute- devo
rimanere in silenzio, nell’ombra fresca e pregna
dell’odore femminile delle felci, dove sibilano vipere e
acqua sepolta; ma soprattutto devo rimanere sola. Ha infatti una
repulsione per l’oro strisciante del sole e la tessitura
musicale delle voci umane.
Inoltre, devo sentire.
La natura di Bernardette è più simile alle
ginestre grigie d’arsura che coronano intonaco rosa intriso
di pianti dissolti, o al fondo assetato di fonti spaccate da spini e
radiche d’ulivi inselvatichiti, piuttosto che alla nostra;
come tutte le cose estranee, va accuratamente ignorata, e sempre
sentita; lei deciderà se venire.
Io, ad esempio, so sempre quando arriva- e che arriverà-
perché penso a tutto tranne che a lei. Penso
all’odore freddo e pruriginoso della terra bagnata, al tenero
raschiare della peluria su foglie di fragola contro le mie dita,
all’umido della crosta di fango contro le ginocchia. Penso
allo zucchero e all’aceto delle more ancora disseminate nel
nero di piccoli grani rossi. Penso a tutto, ma non a lei. Soprattutto,
non penso a cosa Bernardette è.
È per questo che lei vuole me, e non voi. Per questo lei rivelerà
a me, un giorno, e non a voi.
Lei viene sempre come il lento propagarsi della nebbia nello spazio-
qualcosa di silente e fisicamente doloroso, nell’orlo lordo e
consunto della sua gonna bianca, i tacchetti macchiati da un azzurro
impasto di foglie trite e sangue di serpente. Il suo velo
è come un fumo, teso sulle falde di paglia del cappello. Ha
un ramo di pruno infilato alla cintura, piccoli fiori bianchi che
odorano di cipria: è sempre la prima cosa che si avverte di
lei.
Ora, sento il suo odore ma non alzo la testa. Io non le parlo mai
guardandola. Non interrompo il mio lavoro e non mi volto mai prima che
ne venga il tempo- si accumula freddo fango nello spazio infinitesimale
tra l’unghia e la carne, mentre scavo attorno alla radica
dura di una quercia bambina- mentre le dico,
“Prendilo, l’ho preparato per te”. Non ho
mai visto gli occhi di Bernardette.
Non credo mi sia permesso farlo.
Comunque, i suoi occhi corrono sulla mia spina dorsale; e polmoni e
stomaco mi sembrano possedere la qualità rigonfia,
zuccherina e verminosa del frutto che imputridisce lentamente a
contatto con l'umido. Le sue mani di mughetto grattano
l’interno della mia cesta, ed è questo
l’istante in cui concedo al occhio di roteare sotto la
palpebra socchiusa- ma solo quanto basta per intuire la
ripetitività del suo gesto.
Estrarre silenziosa come un soffio la tavola che ho montato per lei,
bella carta di cotone la cui ruvidità è piacevole
al tatto; sollevarla sopra la testa fino a quando sulle sue mani non si
disegni il confine tra l’ombra del fitto della macchia e la
luce che la penetra; orientarla di modo che il sole bagni le erbe
incolori e friabili, legate da nastri sottili di carta, trasformandole
in merletti gialli di cui lei sussurra i nomi con un fruscio di vento
nella polvere.
Quando abbassa la tavola, quando la guarda nuovamente per poi
portarsela al petto e stringerla incrociandovi sopra le braccia, solo
allora ho il permesso di voltarmi.
“Bernardette” dico “Mi dirai mai cosa
c’è dall’altra parte?”
Fa un sorriso da falce di luna, un baluginio giallastro attraverso la
nube del suo velo. Non risponde: non lo fa mai. Ma i suoi tacchetti
scavano nella decomposizione fetida del sottobosco mentre si gira a
darmi le spalle; sempre vedo per ultima la frattura scarlatta che le
spacca in due il cranio come un urlo; e volendola fermare senza poterlo
fare la guardo sparire nell’ombra umida tra le felci, dove
mormora acqua sepolta e le vipere fuggono strisciando al suo passaggio.
________________________________________________________________________________________________________________________
Note
dell'autrice:
Ho basato questa storia sulle mie esperienze naturalistiche: le quali,
tristemente, non includono fantasmi.
|