Gli Ultimi Maghi

di Zobeyde
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NELLA TANA DEL CONIGLIO – SECONDA PARTE

 




Erano da poco passate le undici quando Maurice O’Malley richiuse il libro contabile.
«A furia di guardare numeri mi si stanno incrociando gli occhi» annunciò, abbandonandosi in poltrona con un grosso sbadiglio. «Ma pare che ci resti un bel gruzzolo per l’inizio del prossimo tour. Adesso ci vuole proprio un goccetto…»
Seduta di fronte a lui, Madame Margot interrogava i suoi tarocchi marsigliesi, disponendoli in una fila ordinata sopra la scrivania.
«Non avevamo stabilito che avresti smesso?» gli ricordò, mentre lo guardava aprire la credenza che occupava un’intera parete del vagone-ufficio. «Lo hai sentito il dottore, al tuo cuore non fa bene…»
«Stronzate!» gracchiò lui afferrando una bottiglia e due bicchieri. «Ci vuol altro che un po’ di whisky per stendere un vecchio cuore irlandese.»
«E non gli fa bene neanche che continui a dare in escandescenza» concluse lei, perentoria. «Dovresti riposare, domani ci attende una giornata intensa.»
«Intensa e piena di imprevisti» borbottò il Folletto in tono polemico. Stappò la bottiglia e riempì i bicchieri fino all’orlo. «Qualcosa mi dice che alla fine il moccioso se ne uscirà con un’altra delle sue…deve solo ringraziare che con Blake al comando ho le mani legate!»
Sebbene la prospettiva di restare in panciolle a contare i soldi fosse esattamente ciò che auspicava per la sua vecchiaia, non gli andava per niente a genio dipendere dai capricci di un finocchio inglese. Era una questione di principio. «Mi domando per quanto ancora debba durare questa situazione!»
Margot voltò uno dopo l’altro i tarocchi: l’Asso di Denari, la Ruota della Fortuna, il Due di Spade…
«Allora?» domandò O’Malley, prima di buttare giù un sorso di whisky. «Vedi qualcosa di interessante in quelle tue carte?»
«Qualcosa» mormorò lei. Voltò l’ultima carta e la osservò a lungo, rabbuiandosi. «Otterrai presto ciò che desideri: vedo una partenza imminente…»
«Era ora!» sbuffò lui, ma Margot sapeva che suo marito non aveva mai prestato troppa fiducia nelle sue previsioni: era un’attrazione del suo circo, esattamente come tutte le altre. Che fosse o no in grado di vedere seriamente il futuro non gli interessava, l’importante era che ci credessero i clienti.
«Una partenza» ripeté lei. «Ma anche una separazione, la perdita di qualcosa di importante…»
Maurice però aveva già perso interesse per i tarocchi; impegnato com’era a rovistare nei cassetti alla ricerca di sigari e acciarino, non si accorse dell’espressione che la moglie aveva assunto mentre rimescola le carte e le riponeva nella tasca. 
L’indovina bevve tutto d’un fiato il suo whisky, dopodiché si alzò asserendo di essere stanca. Mentre Maurice si versava un altro bicchiere, lasciò sulla scrivania una boccettina di vetro. «Non dimenticare di prendere la tua medicina. Buonanotte.»
«Se se, ‘notte.»
Rimasto solo, il Folletto aprì la boccetta e mandò giù un paio di sorsi, torcendo poi la bocca in una smorfia di disgusto.
«Bah! Sarai contenta, donna!»
Per levarsi il saporaccio della medicina, accese un sigaro e accavallò le corte gambe sul ripiano. Per qualche istante osservò i mulinelli di fumo che salivano fino al soffitto, ma i suoi pensieri continuavano a tornare allo spettacolo.
Avrebbe potuto essere il suo più grande successo oppure una totale disfatta, eppure, non riusciva a non sentirsi tremendamente eccitato. Per anni si era accontentato di mandare avanti la baracca tra un espediente e l’altro: la Crisi aveva tarpato le ali ai sogni di gloria giovanili che lo avevano accompagnato, assieme a una valigia di cartone e poco altro, in quel continente, ma una parte di lui non aveva rinunciato all’idea di fare del suo circo uno dei più grandi d’America. Di poter rivaleggiare, un giorno, persino col Barnum & Bailey!
Con la testa ancora affollata di immagini sfolgoranti, di cavalli e pachidermi bardati a festa, notò che il fumo aveva letteralmente invaso la stanza, rendendo difficile vedere a un palmo dal suo naso, oltre che respirare. Spense il sigaro e tra un colpo di tosse e l’altro, andò ad aprire la porta per far arieggiare. La brezza della notte lo fece rabbrividire, mentre contemplava il mare d’erba incolta al di là del binario, dove banchi di nebbia opalescente avevano formato una densa cortina. Il silenzio era tale che riusciva a percepire solo i battiti sempre più accelerati del proprio cuore.
Che diavolo gli prende a questo posto?
O’Malley stava per rientrare nel confortevole tepore del suo ufficio, quando un grido tagliò di netto il silenzio. Un lamento orribile, che riverberò per diversi istanti, inchiodandolo sull’uscio. Un grido di donna.
«Margot?» chiamò con voce stridula.
Si decise a lasciare la piattaforma e muovere qualche passo incerto sul prato, ma nel mentre elencò tutte le bestemmie più colorite che conosceva. Tastò ansiosamente la giacca per accertarsi di avere con sé la pistola.
La nebbia lo inghiottì presto nella sua morsa incorporea e O’Malley mandò giù la poca saliva rimastagli, tenendo la pistola puntata di fronte a sé.
A un tratto, dalla nebbia emerse una distesa di alberi; alberi a perdita d’occhio, vecchi e contorti, che crescevano gli uni sugli altri in ogni direzione.
Il Folletto avanzò cauto in quella strana foresta che sembrava cambiare a ogni suo passo, chiedendosi come avesse fatto in tutti quei mesi a non accorgersi di un posto del genere proprio dietro al suo treno. Non riuscì a trovare una risposta soddisfacente, perché i suoi occhi esterrefatti si posarono su una figura avvolta da una pallida luminescenza, china sulla riva di uno stagno: una donna emaciata vestita di bianco, con sottili capelli simili a ragnatele che piovevano davanti al volto esangue.  O’Malley spalancò la bocca in un grido senza voce.
La donna, invece, cominciò a piangere; un pianto silenzioso, come in una strana pantomima, e mentre piangeva intingeva nell’acqua una specie di giacca verde macchiata di rosso. Gli ci volle un istante per riconoscerla: era la sua uniforme da direttore.
O’Malley indietreggiò, incespicando nelle radici.
Sapeva chi fosse quella donna. Lo sapeva e ne ebbe terrore, lo stesso terrore infantile di quando, in Irlanda, quell’ubriacone del suo patrigno si divertiva a tormentarlo con storie di vecchie megere e fantasmi che vagavano per le colline. Ma quella donna non era un fantasma. Era una banshee, e la sua apparizione significava una sola cosa…
«Sei venuta per me?» domandò con un filo di voce.
Senza parlare, la banshee sollevò una mano scheletrica e indicò qualcosa alle sue spalle. O’Malley si voltò lentamente.
La radura era disseminata di corpi. Dozzine di corpi dilaniati, disarticolati, riversi in pozze di sangue che scintillavano rosse fra l’erba, gli occhi vitrei spalancati verso il cielo notturno. Erano i suoi dipendenti ed erano tutti morti. Anche lui lo era probabilmente, ma ancora non lo sapeva...
O’Malley aveva gli occhi affogati di lacrime, ma vide ugualmente la sagoma di un uomo che dominava quello scenario di morte: un uomo alto e magro, che impugnava un bastone da passeggio. Non riusciva a distinguerne la faccia, perché era avvolto in un turbine di ombre nere, che gli si addensavano intorno, sibilando come creature viventi…
O’Malley cercò di placare i violenti spasmi alle braccia e strinse la pistola con entrambe le mani. «C-chi sei? Che cosa vuoi da noi?»
L’Uomo-Ombra avanzò verso di lui e l’scurità che lo accompagnava sibilò con più forza, affamata, invadendo qualsiasi cosa…
O’Malley spalancò gli occhi con un urlo.
Era seduto alla scrivania nel suo vagone, solo, col cuore batteva tra le costole talmente forte da fargli male. Si gettò uno sguardo impaurito attorno, per accertarsi che non ci fossero pericoli, né ombre in agguato.
Era stato solo un incubo? Margot aveva ragione, doveva darci un taglio col whisky…
Tirò un profondo sospiro, ma quando i suoi occhi incrociarono il riflesso nello specchio di colpo impallidì, rendendosi conto che i suoi vestiti erano fradici e che in mano reggeva ancora la pistola.
 
 
«Ha visto una ragazza con un vestito rosso?» domandò Jim, affacciandosi al finestrino di un’auto che si apprestava a partire. «Alta più o meno così, capelli neri ricci, molto carina…»
L’uomo alla guida gli fece bruscamente segno di levarsi dai piedi e si dileguò, lasciandosi dietro una scia di gas maleodorante.
La clientela del Black Rabbit stava seguendo il suo esempio, stipandosi nelle auto in un caotico strombazzare di clacson e stridore di pneumatici. Col cuore in gola, Jim setacciò il vicolo che si andava svuotando rapidamente alla ricerca di Alycia, quando dalla via principale giunse l’ululato di sirene in avvicinamento.
Non si fermò a riflettere un secondo di più.
Il salto lo proiettò in un luogo di mezzo fatto di colori invertiti e suoni distorti, mentre il suo corpo attraversava lo iato tra le particelle della materia. Un sibilo accompagnò la sua apparizione all’interno del locale, ormai deserto e completamente a soqquadro. Jim superò un lampadario di cristallo che giaceva in frantumi sulla pista da ballo e inciampò in qualcosa di duro, qualcosa che gli restituì un lamento soffocato: la testa che uno dei musicisti zombie doveva aver perso nella baraonda.
«Ops…scusa, amico.»
Della ragazza non c’era traccia da nessuna parte.
«Maledizione» sibilò Jim fra i denti. Come lo avrebbe spiegato al signor Blake che aveva perso sua figlia nel bel mezzo di una retata in un bar clandestino? Chissà com’era spaventata, smarrita in una città che non conosceva…
«Fermo dove sei.»
Jim si volse di scatto. Sulla porta sfondata erano apparsi una dozzina di agenti in uniforme, ognuno dei quali armato di manganello. Il ragazzo arretrò con le mani sollevate.
«Ti ho detto di non muoverti, ragazzino!» abbaiò un poliziotto con corti baffetti biondi, mostrandogli le manette. «Sei in arresto.»
Jim gli dedicò un sorrisetto e fece saettare le dita per aprire un varco tra le stringhe del Tutto, proprio mentre gli sbirri si lanciavano urlando attraverso la sala. Qualcosa lo colpì alla schiena mentre si apprestava a saltare e subito dopo il varco si richiuse. Prima che potesse realizzare cosa fosse successo, cadde di faccia sul pavimento, spaccandosi il naso.
«Che cazzo!» bofonchiò, la guancia premuta sul parquet. «Io ci lavoro con questa faccia!»
Quando cercò di alzarsi però, si accorse di avere le braccia immobilizzate lungo il corpo da una specie di cavo metallico.
«Ci hai provato, rosso!»
Jim si accasciò su un lato, con la faccia che pulsava e il sangue caldo che grondava dalle narici. I poliziotti avevano ceduto il passo a due uomini, entrambi con lunghi pastrani di pelle pieni di tasche e fibbie; il primo era magro, atletico e con una barbetta appuntita, l’altro invece era più massiccio, con capelli grigi a spazzola e reggeva l’altra estremità del cavo come un lazo da bestiame.
«Bene bene» disse l’uomo con la barbetta, aprendosi in un gran sorriso sornione. «Guarda un po’ cosa abbiamo qui.»
Avanzò con passo militare e si accovacciò accanto a Jim, che si allontanò da lui strisciando. L’uomo ridacchiò e lo afferrò con forza per i capelli, strappandogli un ringhio di dolore.
«Non fare stronzate, demonietto» sussurrò con dolcezza. «Sappiamo cosa sei. Ma con le mani legate non puoi fare le tue stregonerie, eh?»
Jim sentì le ossa farsi molli e i polmoni svuotarsi d’aria. Quegli uomini non erano poliziotti e non erano soldati, ma non erano neanche comuni Mancanti.
Erano la cosa peggiore che potesse capitare a un Dimenticato.
Erano Accalappiatori. Mercenari a caccia di mostri.
«Vice sceriffo McCarthy, da qui in poi ce ne occupiamo noi» disse l’Accalappiatore con la barbetta, senza staccare gli occhi da Jim e senza smettere di sogghignare. «Mike, ci pensi tu a fare gli onori?»
L’Accalappiatore che teneva Jim al guinzaglio estrasse dal pastrano un rotolo di banconote e lo porse allo sbirro coi baffi, che intascò il tutto rapidamente.
«Con gli omaggi di Donald Winters III per la soffiata su questo postaccio, erano settimane che lo cercavamo. Ripulite tutto per bene quando avremo finito.»
McCarthy sfiorò la visiera e fece segno ai suoi uomini di uscire.
«Allora» disse l’Accalappiatore, rivolto a Jim. «Che mi dici, demonietto? Dove sono andati i tuoi amici mostri? Sono ancora qui in giro? O ti hanno lasciato solo soletto?»
Solomon Blake lo saprà. Si disse Jim, ignorando il groviglio di inquietudine nello stomaco. Ha garantito che mi avrebbe protetto. Starà sicuramente venendo a prendermi e vi farà rimpiangere di essere nati…
Strofinò le dita alla ricerca del familiare contatto con il Vincolo, l’anello d’argento a forma di artiglio che gli garantiva la protezione dell’Arcistregone, ma si sentì nuovamente sprofondare nell’angoscia quando si accorse di non averlo più al dito. Come era possibile? Non lo toglieva mai, neanche quando dormiva! Che lo avesse perso durante la fuga…?
Jim cercò di sottrarsi e iniziò a scalciare, ma la presa dell’uomo era d’acciaio. La paura aveva ormai invaso la sua mente, una paura bianca, accecante e nella disperazione, puntò gli occhi in quelli dell’Accalappiatore.
«Lasciami andare.»
Pronunciò quelle parole come aveva fatto molti mesi prima con la governante di Blake a Parigi, vibrandole. Per esercitare la malia non era necessario usare le mani, bastava un comando impartito con la giusta intonazione.
Per un attimo, l’Accalappiatore lo fissò con aria perplessa e la sua presa sembrò vacillare. Poi però scoppiò a ridere.
«Capisco.» Si indicò le orecchie, nelle cui cavità aveva infilato degli strani tappi metallici. «Te l’ho detto, demonietto: conosciamo tutti i vostri trucchi.»
Jim non poté dar voce al suo stupore, perché l’altro Accalappiatore diede un colpo secco alla fune, strattonandolo in avanti. «Basta chiacchiere, il mio contatto a Berlino vuole che siano tutti imbarcati per domani mattina. In piedi, rosso!»
Completamente inerme, Jim fu costretto a obbedire e si tirò su con fatica; tremava come una foglia, ma si impose di tenere la schiena dritta e l’andatura ferma, sebbene continuasse a perdere copiosamente sangue dal naso.
Non riuscì comunque a percorrere molta strada, perché l’Accalappiatore che lo scortava lanciò un grido e Jim se lo ritrovò lungo disteso ai suoi piedi, rigido come uno stoccafisso; solo gli occhi si muovevano, saettando da una parte all’altra in preda al panico. Il collega che teneva Jim alla fune estrasse subito la pistola.
«Ce n’è un altro!» urlò a qualcuno nel corridoio. «Ho bisogno di rinfor…»
Non riuscì a finire. Le sue labbra si serrarono, assottigliandosi fino a essere assorbite nella pelle. Spaventato, mollò la fune e prese a tastarsi la faccia, alla ricerca della bocca scomparsa.
Jim era sbalordito, ma lo fu ancora di più quando percepì uno spostamento d’aria al suo fianco, accompagnato da un sibilo e da un profumo delicato di gelsomino.
«Calmo, sono io» sussurrò Alycia. Sollevò l’orlo della gonna, rivelando la coscia nuda attorno alla quale era assicurata una fondina con un sottile pugnale. Lo estrasse e recise il cavo metallico come fosse di spago.
«Acciaio alchemico» spiegò brevemente. «Adesso dobbiamo saltare, ma dobbiamo farlo insieme, ok? Al mio tre: uno, due…»
L’Accalappiatore senza bocca puntò contro di loro la pistola.
«Tre!»
Il locale si dissolse in un turbine di luci e di ombre e Jim e Alycia furono risucchiati tra le pieghe dello spazio. Ma prima, la ragazza fece in tempo a scagliare il pugnale contro l’Accalappiatore: un lancio fluido e preciso, che gli fece volare la pistola dalle mani.
Riapparvero all’aperto, con le schiene premute contro un muro di mattoni.
«Dove siamo?» boccheggiò Jim, frastornato. Osservò la larga via alberata, costeggiata su ambo i lati da auto costose ed eleganti cancellate in ferro battuto; al di là, scorse siepi potate e grandi case con colonne scanalate e intuì che fossero nel Garden District. Non sembrava un altro quartiere, ma addirittura un altro paese, in cui persino l’aria profumava di fiori d’arancio.
«Non lo so, ma sembrava sicuro» rispose Alycia. Si accorse dell’insistenza con cui lui la stava guardando e arrossì. «Che c’è?»
«È che non conosco molte ragazze che vanno a ballare armate di coltelli da lancio.»
Alycia riavviò i capelli spettinati. «Merito degli insegnamenti di Boris Volkov: mai farsi trovare impreparati. Perché sei tornato indietro?»
«Per te. Ti ho persa di vista…»
«Ero fuori da un pezzo» obiettò lei, stupita. «Ho saltato non appena ci hanno divisi.»
Jim si sentì un vero idiota per non averci pensato. «Ah.»
«Mi sono ricongiunta con Vanja e gli altri: credevo di trovarti insieme a loro, ma non sapevano dove fossi…poi abbiamo visto gli Accalappiatori entrare con la polizia.» Aggrottò la fronte in un cipiglio severo. «Non saresti dovuto tornare là da solo. È stato stupido.»
Lui avrebbe tanto voluto sprofondare nel marciapiede. «Sì, lo è stato.»
Lei gli venne più vicino. «Stai sanguinando. Sono stati quegli uomini?»
«Veramente è stato il pavimento.» Che razza di eroe…
«Sta’ fermo.»
La sua mano tracciò un arco nell’aria e Jim sentì la faccia scottare, poi una leggera pressione all’interno del setto nasale. Quando alzò la mano per tastarsi, sembrava che fosse tornato come prima. «Grazie.»
Alycia non disse nulla e non cambiò espressione, gli occhi scuri che brillavano alla luce dei lampioni. E poi lo baciò.
Jim fu preso talmente alla sprovvista che restò impalato come un tronco, mentre una scarica di elettricità pura attraversava il suo corpo dalla testa ai piedi. Alycia si tirò subito indietro.
«Scusa» sussurrò, stupita quanto lui. «Non so cosa…»
Jim non le diede tempo di finire e la baciò a sua volta. Alycia premette i palmi sul suo petto e inizialmente sembrò volerlo respingere. Alla fine, chiuse i pugni sulla sua camicia, attirandolo più vicino. Tutto il resto non aveva importanza: il cuore di Jim era un cavallo imbizzarrito che correva a tutto spiano.
Saltarono un’altra volta insieme e pochi istanti dopo, stavano correndo mano nella mano attraverso l’accampamento bagnato dalle prime gocce di pioggia. Si insinuarono tra le tende del circo, evitando le zone illuminate dove pochi membri della compagnia si erano trattenuti a chiacchierare o fumare.
Finalmente raggiunsero il treno. Jim diede una spallata alla porta della sua cabina e cercò a tentoni l’interruttore.
«Scusa, c’è disordine» borbottò togliendo di mezzo vestiti qua e là. «Ehm, vuoi qualcosa da bere? Oppure vuoi sentire della musica? O vuoi…?»
Le ultime parole caddero nel vuoto quando vide che lei si stava sbottonando il vestito, scoprendo il merletto della brassière.
Un’ondata di calore gli divampò nel basso ventre e dovette deglutire un paio di volte. «Che stai facendo?»
Alycia rise, un chioccolio dolce e roco che gli fece ribollire il sangue; l’umidità aveva reso selvaggi i suoi capelli e le labbra, gonfie e rosee, reclamavano baci e morsi. Non era mai stata tanto desiderabile.
«Usa un po’ di immaginazione.»
Un getto d’aria calda lo spinse all’indietro e Jim cadde sul letto con una piccola esclamazione. Alycia gli si mise a cavalcioni e lo baciò, un lungo, lento bacio ingordo. Lui la afferrò per i fianchi, sorpreso, ma anche molto eccitato da quella presa di iniziativa, e servì una presenza di spirito non da poco per resisterle.
«F-forse dovremmo avvisare il signor Blake, si preoccuperà se non ti vede tornare...»
Lei sospirò, concentrata sui bottoni della sua camicia. «Stai veramente pensando a mio padre adesso?»
«No! Voglio solo dire...voglio dire che...che non dobbiamo correre per forza...»
Alycia lo fissò, assumendo un’espressione ferita che lo fece morire dentro. «Capisco.»
Scivolò via da lui e si sedette sul letto, passandosi le mani sulle pieghe del vestito.
«Devo aver frainteso» mormorò. «Credevo di piacerti in quel senso....»
«Mi piaci!» rispose lui senza esitazione. «Non è questo! Il fatto è che...insomma, io...» Prese una buona dose di coraggio e si decise a sputare il rospo: «È che non l’ho mai fatto prima.»
Alycia si volse a guardarlo, sbalordita. «Stai dicendo sul serio?»
«Sì» ammise lui, le orecchie sempre più vergognosamente rosse.
«Oh.» Anche Alycia arrossì. «Scusa, avevo capito che ... tutte quelle ragazze di cui parlava Vanja...»
«Diciamo che con gli altri ho ingigantito un po’ le cose» rispose Jim, molto in imbarazzo. «Ci si aspetta che un mago sia anche un gran seduttore, ma è una recita. Ho frequentato parecchie ragazze, è vero...però non sono mai riuscito ad andare fino in fondo. Non che non ne avessi voglia!» aggiunse in fretta, per evitare fraintendimenti. «Ma al momento di arrivare al sodo, vado nel panico: che succede se una di loro rimane incinta? O se diventa una cosa seria? Senza contare che avrei potuto perdere il controllo dei miei poteri in qualsiasi momento e terrorizzarle a morte...perciò, è più facile comportarmi da stronzo e piantarle in asso.» Sospirò ancora, afflitto. «Mi dispiace, ho rovinato tutto.»
«Non c’è niente di cui dispiacersi. Anzi, sono contenta che tu me l’abbia detto.»
«Non volevo darti una delusione. Magari ti aspettavi chissà cosa e invece...»
«Per quello che ho visto io» disse Alycia. «Quando non fingi di essere qualcun altro non sei male.»
Lentamente, lui si sciolse in un piccolo sorriso e lei ricambiò.
«Allora» disse poi. «Che ti va di fare adesso? Senza pressione.»
Jim si strinse nelle spalle. «Be’, siamo entrambi qui...»
«Fuori piove» convenne lei.
«E poi, non è neanche mezzanotte...»
Alycia rise e si avvicinò per baciarlo ancora, delicatamente stavolta.
La lampada sul soffitto emise un leggero ronzio e la luce sfarfallò, ma nessuno dei due ci fece caso. Si sdraiarono sul letto senza staccare le loro bocche, esplorandosi a vicenda; Jim decise di mettere da parte i dubbi, di fidarsi di lei e abbandonarsi all’istinto per una volta, e presto il bacio smise di essere delicato e divenne famelico. Lei si sciolse al suo tocco, ondeggiando come la fiamma di una candela, mentre la sua pelle si scaldava e il suo piacere colorava l’aria.
Era qualcosa di splendido: viticci sottili di potere le si avviluppavano intorno, fremendo, e nella sua aura pulsavano strisce scure di desiderio.
A un certo punto, Alycia gli prese la mano e la guidò fra le sue gambe e Jim la seguì, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Aveva appena iniziato a toccarla, piano, con esitazione, che un gemito si liberò dalla sua bocca e a quel punto, le luci impazzirono del tutto e gli oggetti nella cabina tremarono. L’intero treno oscillò come se ci fosse il terremoto ed entrambi ne risero, divertiti. Assecondando le risposte del suo corpo, lui la toccò in modo più sicuro e la tensione si accumulò tra loro fino a esplodere in un singolo istante, amplificato, bruciante, vivo ed elettrico, e di colpo la mente di Jim fu invasa dalla luce.
Aveva già sperimentato lo straniamento dovuto al legame con il Tutto, la perdita di alterità e l’assenza di distinzioni tra dentro e fuori, ma niente era mai stato così sconvolgente come quell’invito, potente e intimo. Un fiume di energia impetuoso scorreva dal corpo di Alycia al suo e viceversa, mescolando ogni sensazione in una frenesia di potere e di piacere. Come la prima volta nella palude, Tutto era Uno, ed era più inebriante del whisky, dell’erba, quasi meglio del sesso in sé... maledizione! Sarebbe potuto venire subito e si trattenne con difficoltà.
Alycia lo liberò della camicia sfilandogliela dalla testa, mentre Jim sosteneva il peso sul gomito sinistro. Con l’altra mano allentò la cintura dei pantaloni, perché l’erezione era così intensa che iniziava a fargli male…
Un attimo dopo, stava volando attraverso la stanza.
Se ne rese conto solo quando colpì con violenza la parete di fronte e batté la nuca contro il pannello di legno del vagone.
«Ma che cazzo...?»
Frastornato e dolorante, Jim alzò gli occhi per interrogare quelli di lei.
Alycia era rizzata a sedere, tesa come una molla. Una mano era aperta e puntata contro di lui, l’altra cercava di tenere su il vestito.
«Tu» disse in un ringhio. «Tu che cosa sei?»




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