18.
Due Marlboro
Io
a volte lo immaginavo. Quand’ero in macchina, soprattutto. Arrivavo a casa,
parcheggiavo, ed ero sul punto di spegnere il motore, quando l’immagine si
materializzava proprio di fronte a me. Spesso, in sottofondo, davano l’ultimo
singolo di Sasha, If you believe.
Sasha
mi chiedeva se credessi nell’amore e, anche se non poteva sentire la mia
risposta, gli dicevo sempre che non lo sapevo. Guardavo fuori dal finestrino
del passeggero e mi pareva di scorgerlo lì, con la schiena appoggiata all’auto,
ma non troppo a lungo; perché poi avrebbe cominciato ad andare in su e in giù,
a chiedermi di abbassare il finestrino per poter sentire la radio, e a
rischiare di strozzarsi con quella tosse solo per urlarmi di alzare il volume.
Mi avrebbe detto di scendere, di fargli compagnia e di godermi l’aria aperta e
io gli avrei risposto che quell’aria puzzolente poteva tenersela per sé. Dopo
un po’, si sarebbe finalmente calmato e sarebbe rientrato in auto, più
rilassato e forse al contempo agitato, perché la sua dose di endorfine stava
già calando.
Ogni
volta mi domandavo perché immaginassi cose simili, così scacciavo dalla mente
tutte le scene che si erano formate nella mia testa e aspettavo.
Non
che dieci minuti potessero farmi guarire dalla malattia di cui parlava Sasha.
Non
era ancora l’alba. La città stava dormendo, ma io ero sveglissimo. Riposare mi
avrebbe fatto comodo, perché quella sarebbe stata una giornata impegnativa, ma
non ci riuscivo. Dal balcone sul retro, potevo osservare la mia vita al ritmo
che avrei voluto. Nelle mie notti non c’erano interruzioni, solo tanto tempo
per pensare e per lasciare che il fantasma di Oliver mi spaventasse.
Lui,
infatti, l’aveva capito. Aveva capito che a me Nathan mancava e in un modo che
non era normale. Alla fine, pur conoscendolo da poco tempo, sentivo che era
entrato a far parte della mia vita. Tenevo a mente i suoi impegni come se
fossero stati miei: le materie plastiche, l’esame da dare, l’amico per cui
preoccuparsi e le sigarette da comprare perché oddio, sennò mi viene l’ansia.
Mi
rigirai tra le mani il pacchetto che avevo trovato sotto il divano. Dentro,
c’erano solo due Marlboro.
Ne
sfilai una e la scrutai. Mi tornarono subito alla mente le labbra di Nathan,
che umettavano appena il filtro. La impugnai con pollice e indice e la
avvicinai alla mia bocca, secca come poche.
Mi
faceva paura.
La
sigaretta era Nathan e io sentivo il bisogno di farla mia, anche se solo per
gioco.
La
misi tra le labbra e una scossa mi elettrizzò il corpo, fino al basso ventre.
La
prima volta che avevo parlato con Nathan, stava fumando. Lo aveva fatto molte
altre volte, ma ricordavo chiaramente che non riuscivo a staccare gli occhi di
dosso da lui. Mi aveva come ipnotizzato.
Tolsi
la sigaretta dalla bocca e la tenni tra le dita.
Mi
ricordai del messaggio che mi aveva mandato e mi domandai se l’avrei più
rivisto e, soprattutto, se ne avrebbe avuto così tanta voglia. Avevo sbagliato,
compiuto un gesto da ragazzino, qualcosa che non era da me. Perché lo avevo
fatto? Non riuscivo a trovare una risposta.
Aspettai
che la luce dell’alba mi rischiarasse il viso, sperando che i raggi mi
liberassero dai tormenti che mi avevano attanagliato per tutta la notte.
Gettai
la spugna quasi subito.
Chiavi
della macchina, fascicolo dell’indagine e una buona dose di tremarella addosso:
ero pronto per la giornata. Avevo fatto il punto della situazione con Church e
Ash, che mi aspettava fuori dalla centrale. Lui come al solito sembrava
rilassato, come se ogni evento non lo toccasse davvero, o forse perché sapeva
che io avevo gran parte delle responsabilità. Quello che dovevamo fare a
Michael non era un vero e proprio interrogatorio, ma nemmeno una chiacchierata
informale: lo scopo era strappargli qualche informazione utile all’indagine e,
al contempo, cercare di non farlo stizzire. Non era qualcosa di complicato, ma
Ash non avrebbe pagato nessuna scelta sbagliata; io sì. Mi sentii un po’ come
un fratello maggiore, nel bene e nel male.
Uscii
fuori dall’edificio e sentii subito caldo. La divisa estiva non era realmente
adatta al sole che ti picchiava addosso, e mi domandai perché non le avessero
fatte bianche o grigie, invece che blu. Immaginai di dover ringraziare per il
fatto che non fossero nere. Io avevo proposto di presentarci da lui in
borghese, ma mi era stato risposto che Michael si sarebbe potuto insospettire.
Salutai
Ash, intento a mandare messaggi col cellulare.
«Sei
pronto?»
Lui
alzò appena lo sguardo, annuì e ripose il telefono.
«Certo,
andiamo.»
Provai
un po’ d’invidia per tutta quella tranquillità.
Superata
l’insegna d’ingresso a Chinatown, la prima cosa che mi colpì fu l’odore di
pesce. Annusai l’aria per seguirne la scia, che mi portò a voltarmi verso un
mercatino ambulante gestito da cinesi, ovviamente, e che vendeva specialità di
ogni tipo. Per poco più di due dollari potevi portarti a casa un’ostrica e con
quattro potevi gustarti un granchio.
A
Brighton il pesce non era certo una novità. Avevo circa quattro anni quando i
nonni decisero di portarmi con loro per la prima volta sul molo, a fare scorpacciate
di pesce per il pranzo del fine settimana. C’erano uomini che scaricavano
numerose casse di merluzzi e sgombri, che emanavano un odore salino talmente
forte da farmi coprire il naso con la maglietta. Quegli uomini mi sembravano
giganti e quelle casse contavano una tale quantità di pesce che non riuscivo
neanche a quantificarla. Anche dopo che il nonno mi ebbe tirato per la mano un
paio di volte, io rimasi lì, col naso tappato e la pancia scoperta, ad
ascoltare quello che allora mi parve un linguaggio in codice tra marinai e
addetti allo scarico merci. Dovette intervenire la nonna a propormi gli anelli
di totani, prima che riuscissi a distogliere lo sguardo da quell’ammasso di
carcasse, che sembravano giganti rispetto al bambino che ero.
Sulla
baia c’ero cresciuto e il mare aveva fatto da sottofondo a più di un mio
tormento. Mi aveva visto bambino e adolescente, aveva ascoltato le litigate per
un giocattolo e le prime storie andate male; mi aveva fatto provare il
desiderio di scappare, quando quella baia, quel molo e quelle persone, che
conoscevo troppo bene, stavano cominciando a starmi strette. Avevo lasciato
quella spiaggia e la sua tranquillità perché avevo preferito catapultarmi in
una realtà caotica e frenetica, così diversa da quella in cui ero cresciuto.
Lasciandomi la baia alle spalle, ci avevo lasciato anche un po’ della mia
gioventù.
A
Manhattan avevo imparato cos’erano le responsabilità. Non c’era stato più
spazio per il ragazzo che ero, ma ne andavo fiero. Quando però mi ricordai cosa
ci facevo lì, in Chinatown, e misi da parte i ricordi dei miei nonni, mi sentii
cogliere da una strana sensazione, accompagnata dal desiderio di non essermene
mai andato.
Osservai
una conversazione tra il gestore del banco del pesce e un suo cliente. Il primo
mugugnò qualcosa in cinese, l’altro cominciò a indicargli i gamberetti e
gesticolarono un po’ per contrattare il prezzo, fino a che il cliente non
riuscì a strappargli una manciata di gamberetti freschi per tre dollari
soltanto.
A
Brighton non c’erano mai state contrattazioni. Si sceglieva e si pagava, e poi
portavi a casa quello che credevi di aver conquistato. Se poi avevi fatto un
buon affare, potevi saperlo solo tu e colui che ti eri lasciato dietro.
Superammo
il mercato e svoltammo in Baxter Street, quando ormai il ricordo della baia era
già svanito. Mi ricordai che ero lì, che il caso era in mano mia e che, senza
scherzare troppo, gran parte della riuscita dell’indagine dipendeva da me; non
c’era nessuno a tenermi per mano, a strattonarmi per dirmi qual era la cosa
giusta da fare.
Quando
arrivammo davanti alla palazzina rossa che stavamo cercando e lessi il cognome
di Clide, provai una fitta allo stomaco. Ashton era già partito in quarta e non
riuscii a impedire che suonasse il campanello. Immaginai Michael alzarsi dal
divano, dove probabilmente era seduto, attraversare il salotto, giungere alla
porta di ingresso, alzare la cornetta e chiedere: “Chi è?”. Tesi l’orecchio
verso il citofono e pensai che avrebbe risposto prima che avessi finito di espirare
tutta l’aria. Poi inspirai un’altra volta, trattenni il fiato senza che me ne
accorgessi e buttai fuori.
Silenzio.
«Forse
non è in casa», propose Ash, ma sapevo che non era così. Michael non poteva
permettersi di uscire.
«Io
dico che dovremmo provare il piano B.»
Premetti
un campanello qualsiasi, di cui non lessi nemmeno il nome, e avvicinai
l’orecchio al citofono. Lo sentii friggere appena, poi rispose la voce di
un’anziana donna, che gracchiava più del citofono stesso.
«Chi
è?»
«Mi
scusi, sono Clide, ho dimenticato le chiavi. Non è che potrebbe almeno aprirmi
il portone giù?»
La
signora aprì senza dire niente. Udimmo solo il fruscio del ricevitore che
veniva riagganciato e lo scatto della serratura.
L’interno
dell’edificio odorava di pesce. I passi rimbombavano e talvolta avevi la
sensazione che le mattonelle ti tremassero sotto ai piedi. Salimmo gli scalini,
consumati quanto il corrimano, ormai liscio, e notai diverse crepe sui muri. Se
quell’edificio fosse stato sulla costa occidentale, non avrebbe resistito
nemmeno a uno strascico di uragano.
Vedere
la porta dell’appartamento mi tranquillizzò. Quello era il mio mostro e avevo
finalmente visto che faccia avesse. La paura si smorzò un poco per lasciare
spazio all’adrenalina, alla voglia di dare il massimo per la causa a cui mi ero
votato: la Giustizia.
Suonai
il campanello. Per un attimo pensai che la mia mente avrebbe lasciato ad Ashton
questo compito, ma fui sorpreso: il dito si mosse senza che me ne accorgessi.
Quando mi resi conto di ciò che stavo facendo, avevo già rilasciato il
pulsante.
Attendemmo
un po’, ma Michael non rispose. Provammo a suonare di nuovo, senza successo;
tentammo anche la carta del “Polizia, aprite”, ma non si fece vivo. Alla fine,
rimaneva solo un asso da giocare.
«Lascio a te l’onore», dissi rivolto verso Ashton. Lui era
sicuramente più forzuto di me, merito anche dei pomeriggi in palestra. Fece
sciogliere la spalla destra, si caricò molleggiandosi sui piedi e si schiantò contro
la porta, che oscillò in modo piuttosto evidente, tanto che mi chiesi quanto ci
sarebbe voluto prima che cascasse giù come una pera cotta.
Il dubbio mi sarebbe rimasto per l’eternità, visto che bastarono una
manciata di spallate per far accorrere l’inquilino dentro l’appartamento. Lo
sentimmo far scorrere il chiavistello e sfilare la catena che teneva chiusa la
porta, poi aprì. Un ragazzo sul metro e settanta, con uno spruzzo di capelli
biondi in testa e un fisico mingherlino spuntò sulla soglia e ci fissò con uno
sguardo tra il guardingo e lo spaurito.
«Michael Cossner?»
Il ragazzo spalancò gli occhi. Bastò quello per fugare ogni dubbio,
sempre che ve ne fosse mai stato uno.
La casa rientrava nella media del quartiere. Muri con crepe talmente profonde
da sembrare tuoni e improperi incomprensibili che venivano dal piano di sopra,
uniti allo scalpiccio di una manciata di piedi che correvano da destra a
sinistra.
Michael ci offrì un bicchiere d'acqua, ma rifiutammo. Ci guardava con
sospetto e si teneva a debita distanza da noi, benché cercasse di non darlo a
vedere. Era chiaro che stava cercando di capire cosa ci facessimo lì e,
soprattutto, come ci eravamo arrivati. Si capiva che aveva una voglia disperata
di chiederlo, ma non sapeva quanto si sarebbe compromesso nel farlo. Alla fine,
fu lui a rompere il silenzio.
«Come posso aiutarvi?»
Faceva scorrere i suoi occhi da me ad Ashton con fare frenetico.
«Siamo qui per farle alcune domande sulla rapina avvenuta il trenta
luglio, all'ufficio postale di Lexington Avenue.»
Il suo sguardo si irrigidì.
«Io non c'ero quel giorno.»
Ashton intervenne.
«Dov'era?»
Notai un sorriso sardonico comparirgli sul viso. Sembrava quasi che
provasse una sorta di sadico piacere nel metterlo in difficoltà.
«Io...» cominciò con voce esitante. «Ero in malattia.»
«Credevamo che fosse in viaggio per l'Europa.»
Arricciò appena le labbra. Aggrottò le sopracciglia per un attimo, ma
non passò inosservato. Stava pensando, ma sapeva che non poteva impiegare
troppo tempo a formulare una risposta.
«Avete parlato con i miei genitori?»
Mi intromisi nella discussione.
«Non sono informazioni che possiamo rivelarle.»
Era palese che avevamo parlato con loro, anche agli occhi di Michael,
ma a un indiziato era sempre meglio lasciare un dubbio che una certezza. Aveva
smesso di guardarci e ipotizzai che stesse cercando di immaginare chi potesse
averci dato quell'informazione al di fuori dei suoi genitori.
«Che cosa sa dirci della rapina?»
Ash continuò e notai ancora il sorriso beffardo sul suo volto. Mi
chiesi dove volesse arrivare.
Michael tirò un sospiro.
«Be', come ho già detto, non c'ero.»
Ash annuì e cominciò a guardarsi intorno. Osservò il soffitto e così
feci anch'io, notando le chiazze di muffa che sembravano volersi allargare a
macchia d'olio. Finalmente capii cos'era quell'odore pungente.
«Chi le ha dato questa casa?»
Michael esitò ancora. Era una domanda che non c'entrava niente con la
rapina, o almeno non in modo diretto, e fu in quel momento che cominciai a
capire.
«Un amico.»
«Sa che lei non potrebbe allontanarsi da casa, in quanto in stato di
malattia?»
Cominciai ad avvertire il panico negli occhi di Michael. Sembrava
confuso, non riusciva a mettere in piedi una storia che Ashton gli faceva
domande su tutt'altro. Il mio collega si rivelò molto astuto e fui felice di
averlo avuto al mio fianco.
Michael non rispose. Tentava di dire qualcosa, ma non muoveva un
muscolo. Riuscì solo a muovere gli occhi nella mia direzione, ma di rimando gli
suggerii con un'occhiata che Ashton aveva ragione.
«Perché ha mentito ai suoi genitori dicendo loro che andava in giro
per l'Europa?»
Lo aveva preso di nuovo in contropiede. Lo scopo di Ash era quello di
interrompere ogni linea di pensiero di Michael, farlo andare in cortocircuito,
per così dire.
«Perché...»
Le parole non gli uscivano. Notai che le mani avevano cominciato a
tremargli. Pensai che fosse vicino al punto di scoppiare. In quel momento,
capii che era stata una buona idea quella di non fare una convocazione
ufficiale: avrebbe avuto il tempo di prepararsi una storia alternativa. In quel
momento, invece, era stato preso completamente alla sprovvista e stava
crollando con una semplicità disarmante. Quel fatto confermò la mia impressione
che Michael fosse solo una vittima, un ragazzo invischiato in una vicenda che
non sapeva come gestire.
«Forse le converrebbe dire la verità, non crede? Così come ha fatto
il suo amico William Clide.»
Nel sentire quel nome, tornò sull'attenti. Mi domandai cosa stesse
frullando nella sua testa e immaginai che stesse pensando a cosa potesse aver
rivelato Clide. In fondo, me lo stavo chiedendo anch'io: non ero sicuro che
William ci avesse detto tutto, ma che al contrario avesse svelato solo quanto
necessario.
«È stato William a dirvi che mi trovavo qui?»
«Sì, ci ha fornito lui l'indirizzo. Alla fine non se l'è sentita di
mentire di fronte alla polizia e ci ha raccontato diverse cose.»
La paura sembrò abbandonarlo completamente. Forse era il pensiero che
non fosse l'unico con l'intenzione di parlare o forse c'era qualcos'altro che
si stava agitando dentro di lui.
«Cos'altro vi ha detto sulla rapina?»
A me e ad Ash scappò una risatina. Dirglielo sarebbe stato stupido e
gli avrebbe dato tempo di costruire una storia ad hoc; proprio per questo, quando
Ash aprì bocca per rispondergli, pensai che quello avrebbe compromesso la
nostra chiacchierata così brillante, almeno fino a quel momento.
«Ci ha raccontato diverse cose, legate
soprattutto a problemi che la riguardano.»
«Di
cosa state parlando?»
Notai
che Ash stava indugiando. Alla fine, Michael non era l’unico che aveva bisogno
di seguire un filo logico, per portare avanti la conversazione. Stava perdendo
tempo prezioso e cercai di trovare un’idea il più in fretta possibile.
«Non
è autorizzato a conoscere queste informazioni. Credo anzi che le convenga dirci
la verità, come ha fatto il suo amico Clide.»
Si
sentiva che stava perdendo il senso della ragione, preso com’era dalla paura di
inciampare in contraddizioni. Sentivo di essere vicino a un risultato, a
qualcosa che non mi avrebbe fatto rimpiangere il giorno in cui avevo deciso di
entrare in polizia. Avevo l’opportunità di non beccarmi l’ennesima sgridata di
Church, sapevo che sarebbe bastato poco, lo sapevo! Sperai che Michael seguisse
la conversazione che avevo creato nella mia mente, quello scambio di battute
che mi avrebbe permesso di segnare il punto decisivo.
«Perché
dovrei?»
«Le
ricordo che ha un certificato di malattia per due settimane, palesemente falso,
e che sta contravvenendo agli obblighi che impone lo stato stesso di malattia.
Da questo ne possiamo dedurre che ci sia un medico compiacente, il cui ruolo
non passerà certo inosservato, oltre al fatto che, alla luce di questi eventi,
non è da escludere un eventuale coinvolgimento dei suoi genitori. Insomma--»
«Va
bene, ho capito!»
Michael
mi apparve come un uccello in gabbia. Lo avevamo messo alle strette ed era
stato una preda facile. I suoi occhi ribollivano di rabbia, forse perché
sperava di poter passare inosservato in quella faccenda, ma non sarebbe
comunque accaduto. I debiti si pagano sempre, specie con certa gente, ed ero
abbastanza sicuro che Waitch o chi per lui non si sarebbe dimenticato di
Michael così facilmente. Avrebbe potuto continuare a nascondersi anche per
l’eternità, ma avrebbe sempre avuto scagnozzi pronti a tendergli una trappola
al minimo passo.
«Lei
è coinvolto in qualche modo nella rapina, vero?»
Michael
ci guardò un attimo, dopodiché fissò il pavimento. Emise un sospiro, si infilò
le mani in tasca e si strinse appena nelle spalle, intento a pensare. Poi tornò
a guardarci.
«Sono
quasi certo che cercassero me. Ho un debito con loro, con questi spacciatori.
Li aspettavo a casa da un momento all’altro, ma credo che abbiano usato
l’ufficio postale per sviare i sospetti. Questo almeno è ciò che penso.
Contenti?»
Io
e Ash ci scambiammo un’occhiata. Michael aveva la stessa supponenza di Nathan,
ma era molto più arrogante. Per certi versi, lo trovai odioso.
«Può
dirci altro? Magari su un certo Waitch?»
Alla
prima domanda sbuffò, per poi irrigidirsi sulla seconda. Mi bastò osservare il
modo in cui si mise sulla difensiva per capire che sapeva qualcosa.
«Ve
ne ha parlato William?»
«Qui
non è lei a fare domande, signor Cossner.»
In
quanto a supponenza, Ash e Michael se la giocavano a pari merito.
«Ho
capito, ho capito. Non ho idea di chi sia Waitch. È un pezzo grosso, ma non
l’ho mai visto. È qualcuno che coordina le attività, quello che fa fare il
lavoro sporco agli altri, se capite cosa intendo. Però, come dicevo, non l’ho
mai visto. Forse qualcuno del giro lo conosce, credo.»
Osservai
Michael e capii che era sincero. Il suo volto era più rilassato, come se
parlare di Waitch alla polizia lo facesse sentire un po’ più sicuro, anche se
ero certo che quella sensazione non gli sarebbe rimasta addosso troppo a lungo.
«Saprebbe
dirci chi, secondo lei, conosce Waitch?»
Michael
fece spallucce e scosse il capo.
«Forse
saprei riconoscerlo, ma io sono infilato in questa vicenda quasi per caso. È
più probabile che William sappia qualcosa, ma non mi conviene parlare senza un
avvocato, giusto?»
Come
sospettavo, nella mente di Michael cominciarono a figurarsi le possibili
conseguenze di ciò che aveva detto, che comunque non avevamo intenzione di
usare in modo sporco, e che non avremmo utilizzato contro di lui in nessun
modo. Michael però si era infilato in un giro di persone che non guardava in
faccia a nessuno e che non si sarebbe fatto scrupoli a ricordargli, se lo
avessero trovato, che la bocca talvolta va tenuta chiusa. E mentre questi
pensieri crescevano probabilmente nella sua testa, i suoi occhi si spalancavano
e stringeva i denti sempre più; poi si guardò intorno, come se quelle mura non
potessero più garantirgli l’incolumità - d’altronde, i criminali hanno occhi e orecchie
dappertutto.
«Loro
mi troveranno, vero? Lo faranno. Se William ha parlato con voi, perché non
dovrebbe farlo con loro? Racconterà la versione che gli permetterà di uscirne
pulito e lascerà me e tutti gli altri nella merda. Scommetto che non ha fatto
accenno al fatto che c’è dentro fino al collo, vero? Ha spalato merda su di me
solo per salvarsi il culo, lo so. Lo so!»
Non
seppi se rispondere, ma sapevo che dovevamo calmarlo il prima possibile.
Intervenne Ashton, con meno esperienza di me, ma con una lingua certamente più
lunga.
«Si
calmi, Michael. Potrà raccontare tutto in commissariato. Le arriverà una
lettera di convocazione nel giro di qualche giorno, così potrà contattare un
avvocato e vedremo se e come farla rientrare in un programma di protezione. Se
deciderà di collaborare, sono certo che troveremo il modo di risolvere il
piccolo disguido sul suo certificato di malattia.»
Michael
ci fissò con il cipiglio offeso e incrociò le braccia. Sospirò, indeciso se
risponderci o meno, ma optò per il silenzio. Ash si voltò verso di me e mi
domandò se avessi altro da dire. Risposi che potevamo andare e il mio collega
rifilò a Michael il suo biglietto da visita, dopodiché gli intimò di non fare
cavolate, come il tentare la fuga. Ero abbastanza fiducioso sul fatto che si
sarebbe presentato in commissariato, ma non potevamo dare niente per scontato.
Se avesse deciso di uscire allo scoperto, si sarebbe dovuto guardare dai
nemici, ma non meno dagli amici.
Quando
uscimmo di lì, mi sembrò di aver perso dieci chili. Improvvisamente ritrovai il
piacere di vivere, di pensare alla serata che mi si prospettava o anche solo a
cosa preparare per cena; le immagini catastrofiche su Church, sulla mia
vocazione e sui problemi della mia vita erano state spazzate via dal sole che
splendeva e sembrava sorridermi, come a ricompensarmi di tutta l’ansia che mi
ero portato dietro.
Cominciammo
a percorrere a ritroso la strada che avevamo fatto dalla macchina e lasciai che
i cinesi di passaggio mi importunassero con la loro merce, come i venditori
ambulanti dell’antica Tebe che avevo visto qualche anno prima in un cartone
animato. Si paravano davanti, spalancavano la giacca e sfoderavano una quantità
incredibile di orologi falsi, attaccati alla fodera interna, per poi richiudere
tutto nell’attimo in cui notavano la scritta “Polizia” sul taschino. Li vedevi
scappare via talmente veloci che quasi si lasciavano un polverone dietro.
La
macchina non era lontana, ma tutto quel caldo, complici le maniche lunghe, mi
fece sudare la schiena. Non appena sentii la brezza dell'aria condizionata sul
viso, mi sentii riavere.
Avevamo
ottenuto informazioni interessanti e conferme più o meno prevedibili. Michael
si stava nascondendo ed era un pesce piccolo, all’oscuro delle decisioni dei
piani alti. Trovai credibile quella versione e mi convinsi che i coniugi
Cossner fossero del tutto estranei alla faccenda. Il personaggio che al momento
trovavo più ambiguo era William Clide, cantante dei Wit Matrix. Sentii che era
come ci aveva detto Michael: William rifilava versioni diverse a seconda delle
esigenze; non diceva il falso, semplicemente ometteva alcuni dettagli, e lui si
sarebbe sempre potuto difendere con la scusa che non era stato sollecitato su
certi argomenti. Mi segnai mentalmente il fatto che avremmo dovuto preparare
delle domande che non avrebbero lasciato zone d’ombra.
«L’hai
sentito?»
Mi
guardai intorno.
«Cosa?»
Il
traffico era quello di sempre: nessuno schianto, solo una colonna infinita di
macchine che somigliava a una processionaria.
Ash
ridacchiò e intuii il senso della sua domanda nello stesso istante in cui mi
rispose.
«Sto
parlando di Nathan.»
Persi
un battito, forse per lui, forse per l’incidente quasi sfiorato davanti ai
nostri occhi. Mi tornò in mente l’appuntamento che avevo quella sera, con
Nelly. Non sapevo bene neanch’io perché l’avessi chiamata, io che solo qualche
settimana prima avrei voluto chiudermi in una bolla di vetro.
«No,
ancora no.»
«Non
dovevi chiedergli di uscire?»
«Dovevo
chiedergli di vederci», ribattei seccato.
«Vabbè,
nel vostro caso è la stessa cosa.»
Per
fortuna a guidare non ero io e pensai che Ash dovesse ritenersi fortunato per
il fatto che la mia pistola era al sicuro nella fondina.
«Cosa
vorresti dire?»
Ci
fermammo al semaforo. Una Chevrolet si fermò accanto a noi e l’odore del
profumatore al pino selvatico arrivò fin dentro al nostro abitacolo.
«Secondo
me, state bene insieme. Se non fosse che ti è successo quello che ti è
successo, penso che ti avrei spinto a conoscerlo un po’ meglio.»
Passammo
davanti a un gruppo di afroamericani impegnati in un’esibizione di break-dance.
Poi rientrammo in quella parte della città che era un nugolo di persone
confuse, uomini d’affari col telefono in mano, madri che portavano a spasso i
figli piccoli e gli irriducibili con birra e patatine in mano. Che accoppiata.
«Mah,
siamo così diversi. Non penso che potrebbe esserci qualcosa in quel senso.»
Il
mondo mi scorreva davanti agli occhi come una trottola impazzita, troppo veloce
perché potessi distinguere qualcosa. Persi rapidamente interesse per quelle
immagini e mi rifugiai nella mia mente, poi mi intrufolai tra i miei ricordi.
Era
la sera del diciotto agosto. Lui era arrivato in casa e io avrei voluto solo
scappare. Aveva aperto le dispense sulle materie plastiche… sì, poi eravamo
arrivati ad arrotolare le sigarette. La sua lingua era scorsa sulla cartina, da
destra a sinistra, un paio di volte. In quel momento, qualcosa dentro di me si
era mosso. Poi ci eravamo seduti sul divano… io gli avevo accarezzato le gambe.
Dopo c’erano un sacco di ricordi inutili, finché non arrivavo al suo profilo,
in quel parcheggio, quella nicchia dove forse avevo pensato, per un attimo…
«Io
invece penso che qualcosa tra voi potrebbe nascere. E poi, secondo me, tu a lui
piaci.»
La
trottola mi sbatté dritta in faccia.
«Te
l’ha detto lui?»
«Ah-ha»,
rispose lui, con un tono che lasciava sottintendere qualcos’altro. «Vedi che ti
interessa?»
«La
mia è semplice curiosità. E comunque non siamo compatibili. Siamo due opposti,
finiremmo per litigare su tutto.»
Con
la coda dell’occhio riuscivo a vedere il sorrisetto stampato sul viso di Ash.
Lui si era piccato con questa storia fin dall’inizio, con la storia del finto
appuntamento, ma in quel momento capii che ci si era proprio incaponito.
«Puoi
saperlo solo se ci esci. Oppure se hai il potere di prevedere il futuro, ma
allora non saresti solo un semplice agente.»
Rise
della sua battuta e lo stesso feci anch’io. La mia era solo una risata esterna,
però. Cos’era che mi impediva di chiedere a Nathan di uscire? Cos’era che me lo
impediva davvero?
«E
comunque lui sta con Harvey.»
«Intendi
il ragazzo-fantasma? Ma dai, è solo una scusa.»
Una
scusa? Forse. Nella mia testa, c’ero io che chiedevo a Nathan di vedersi. Una
cosa informale, tra amici. E poi, all’improvviso, c’era tutto: l’atmosfera, il
momento, quello sguardo nei suoi occhi… Non era un bacio a tradimento come lo
era stato il suo: io sapevo che sarebbe successo e lo sapeva lui, così io mi
avvicinavo, finché non riuscivo a sentire pure il suo respiro, la pelle del suo
naso contro il mio, ora il suo odore, ora il mio… E lui si allontanava. “Forse
non è il caso”, e mi liquidava così. Con quale coraggio avrei potuto guardarlo
ancora negli occhi?
«Alan?»
«Mh?»
«Guarda
che non ci sarebbe niente di male. Nathan è un tipo a posto. Capisco le tue
paure, ma certe occasioni capitano una sola volta nella vita ed è meglio non
farsele scappare.»
Tutto
ciò che volevo dire si tradusse in un sospiro secco. La verità è che non avevo
speranze. Se anche in qualche modo mi fosse interessato, di certo non sarei
stato all’altezza degli standard di Nathan in fatto di uomini. Io non ero
niente di speciale, quasi insignificante e, per certi versi, spesso apatico.
Lui era un turbinio di colori e di emozioni, e se mi fosse stato troppo vicino
avrei finito col spegnere la sua luce.
Guardai
fuori dal finestrino e sospirai di fronte all’amara verità: Nathan si meritava
molto, molto di più.
La
vecchia libreria non era cambiata molto, dall’ultima volta che ci ero stato.
L’intonaco verde marino era scrostato come sempre e, laddove aveva resistito
alle aggressioni del tempo, lo strato di coppale stava lasciando posto alla
vera natura della vernice, opaca e fragile. Il bandone, semi-abbassato,
presentava ancora quelle vere e proprie conversazioni tra i teppistelli della
zona: c’era chi affermava la supremazia del gruppo Shiva, chi invece
rivendicava una presunta superiorità su di esso, firmandosi con una svastica
all’incontrario.
Abbassai
la testa ed entrai. La libreria del padre di Nelly, passata poi alla figlia,
odorava di muffa come sempre, forse per via di un’intera sezione di libri
antichi che si trovava al piano superiore. Chi entrava per dare uno sguardo
cercava l’ultima uscita; ma chi aveva lo spirito di addentrarsi, di lasciarsi
alle spalle quella città moderna e frenetica, saliva quegli scalini, ne
apprezzava il cigolio, ed entrava in quello che per il vecchio Bartz era sempre
stato l’odore del paradiso. “Non c’è bisogno di morire, per trovare
l’eden”, diceva sempre. C’era uno scaffale, all’angolo sinistro vicino alla
finestra, davanti al quale c’era un panchetto di legno a tre gambe, appartenuto
alla loro famiglia da secoli. Si era rotto già in un paio di occasioni e, tutte
le volte che il vecchio Bartz ci si sedeva, mandava sempre una preghiera a Dio
e al Superattack. Ripeteva sempre che la sua schiena non avrebbe retto un’altra
caduta.
Seduto
sul panchetto, con un libro in mano, potevi tornare indietro nella storia di
qualche decina d’anni - o di secoli, se eri fortunato. C’era narrativa, ma
soprattutto saggi, ristampe impreziosite di qualche opera famosa o anche solo
le novelle della propaganda americana nel periodo della guerra. C’era di tutto
dentro quel piccolo angolo di paradiso, l’orgoglio del padre di Nelly.
Poi
un giorno un ictus stroncò il povero Bartz e la libreria passò alla figlia,
perché Oliver non ne voleva sapere, troppo preso dal suo sogno di diventare
medico. Non lo si poteva certo biasimare, ma quella libreria era una rarità e
un gioiello, in un tempo dove tutto scorre, forse fin troppo, così tanto da non
lasciarti niente.
Nelly
aveva la stessa meticolosità del padre. Era curva sulla scrivania, la testa
illuminata a fare ombra al foglio dove stava appuntando chissà cosa.
«Ciao,
Nelly.»
Lei
alzò la testa e mi sorrise. Si alzò in quella penombra e mi venne incontro, poi
mi gettò le braccia al collo.
«Alan!
Che piacere vederti.»
Ci
guardammo, come a volerci dire altro, ma nessuno dei due continuò. La sua
espressione mutò ed ero certo che riuscisse a leggere qualcosa dentro di me,
nonostante non ci fosse così tanta luce. Dalla strada provenivano rumori
indistinti e ovattati, un cicaleccio di persone rinchiuse in una scatola.
«Pensavo
che non saresti più passato, sai?»
«Lo
pensavo anch’io.»
Osservai
i libri negli scaffali. In quello subito accanto alla cassa c’erano un paio di
volumi inclinati per non far cadere il resto. Immaginai che fossero così da
molto tempo e che lo sarebbero stati per altrettanto. Pensavo che sarei rimasto
così anch’io, un libro vecchio e ammuffito, che poteva solo rievocare il
fascino dei ricordi.
Invece
ero lì, perché a New York tutto scorre, e io stavo scorrendo con lei; ma in
mezzo a quel fiume in piena io avevo bisogno di fermarmi un attimo, di tornare
in quel luogo che aveva il sapore di uno spazio eterno e immobile. Ci sono cose
che cambiano, come i sentimenti, immutabili solo per chi ormai non vive più; e
poi c’erano dei fatti che sarebbero rimasti tali, come il legame di fratellanza
che legava Nelly e Oliver.
«Sei
passato a prendere quella cosa di Oliver?»
Io
la guardai per un attimo. Lei non aspettò una mia risposta e cominciò ad andare
verso il bancone.
«No»,
risposi, e lei si fermò di scatto. «Non sono venuto per Oliver.»
Tornò
verso di me, a passi lenti; poi, quando fu abbastanza vicina, mosse appena il
capo in uno scatto, come a dirmi di parlare.
Non
sapevo bene perché lo stessi facendo, né se fosse giusto. Sapevo solo che lei
era l’unica persona, su un totale di sei miliardi, a cui avrei potuto confidare
tutto ciò che stavo per dire.
«Ho
bisogno… » cominciai, ma le parole uscivano a fatica. «… di te.»
Nelly
schiuse le labbra. Mi sorrise, poi annuì. Lasciammo che l’eternità dei libri ci
risucchiasse, mentre i nostri occhi scandagliavano il mondo interiore
dell’altro, senza bisogno di parole. Lì, sospesi in un attimo di tempo che non
poteva esistere, comunicavamo tutto ciò che sentivamo dentro, talvolta con un
sorriso, talvolta no.
«Tu
credi che sia troppo presto?»
Nelly
fece spallucce.
«Questo
lo puoi sapere solo tu. Io non posso sapere quanto ti coinvolga.»
«Sì,
ma…», incespicai nel trovare le parole. «Tu credi che nove mesi siano pochi
per…»
«Alan.
Tu non mi stai chiedendo se nove mesi siano pochi per te, lo sai? Mi stai
chiedendo se siano abbastanza per la gente, perché non pensino che tu abbia già
dimenticato il tuo grande amore. Sbaglio, forse?»
Io
non riuscii a rispondere. Nelly aveva ragione e sapevo quale fosse la vera
natura dei miei tormenti, ma volevo una conferma o, al contrario, una smentita.
«Tu
mi stai chiedendo il permesso per innamorarti. E chi sono io per dirti di no?
Tu stai provando delle emozioni e questo significa che sei vivo. Sei vivo,
Alan.»
Ero
vivo, da un mese a quella parte. Molte emozioni si erano risvegliate in me,
emozioni che credevo perdute per sempre. Nathan mi aveva strappato dall’apatia,
mi aveva fatto rinascere dalle ceneri sotto cui mi ero sepolto, e ora ero lì,
davanti a Nelly, a chiederle se fosse sbagliato innamorarmi di lui, se fosse
lecito anche solo pensarlo. Guardai oltre, nella penombra, e mi parve di vedere
due occhi, rossi e severi, che avrebbero scagliato su di me l’apocalisse se
avessero potuto.
Io
sapevo a chi appartenevano quegli occhi.
«E
Oliver?»
«Oliver
è morto, Alan. Puoi costruirti castelli in aria col suo ricordo, ma non puoi
costruirti una vita con lui. Nessuno ti criticherà per questo.»
«E
se…», provai a dire, prima che il groppo in gola mi bloccasse ogni parola. Non
era Nathan il problema, non era nemmeno Oliver: ero io. Io e i miei sentimenti,
nemici del mio ordine pubblico, della mia salute mentale.
«E
se mi innamoro di lui e poi scopro che…»
Non
potevo dirlo. Era un crimine. Sarebbe stato come investirlo due volte, uccidere
la sua memoria, la nostra memoria.
«Che
cosa?»
Cercai
di frenare una lacrima, che invece scivolò e mi rigò la guancia destra.
Abbassai lo sguardo, perché non potevo macchiarmi di quell’omicidio guardando
Nelly negli occhi.
«E
se scopro che lo amo più di lui? Più di Oliver? Non dico ora, ma tra qualche
anno… Sai…»
La
prima lacrima fu seguita da molte altre. Nelly mi gettò le braccia al collo, in
un abbraccio dalla sorella che era sempre stata per me. Mi donò un conforto
privo di giudizio, ma solo pieno di affetto e vicinanza per quello che sentivo.
Le opinioni di Nelly erano sempre oggettive per quanto possibile, e la sua
imparzialità, il suo comprendermi, mi fecero sentire in pace.
Le
lacrime cessarono poco dopo, mentre raccoglievo i cocci del mio animo spezzato,
violato da quell’unica paura che, a quel ritmo, non avrebbe impiegato molto a
diventare una certezza. Lei calmò il mio animo con carezze lente sulla schiena,
mentre mi sussurrava all’orecchio di non preoccuparmi.
Poi
ci sciogliemmo dall’abbraccio e passò i pollici sulle mie guance, per ripulirmi
dalle prove del mio crimine.
«Forse
amerai qualcuno più di Oliver, sì. E sai cosa? Forse sarebbe stato qualcuno che
non avresti mai conosciuto se Oliver non fosse morto, e allora ringrazierai il
destino, con un po’ di amarezza, per quello che ti ha riservato. Vedila così.»
«Già.»
«E
poi chissà, magari esiste qualcuno di più giusto di Oliver per te. Potrebbe
essere proprio questo ragazzo nuovo. Come si chiama?»
Ripensai
all’immagine che mi si era formata in testa, in macchina con Ash. Era veramente
difficile pensare a Nathan come a qualcuno di più giusto di Oliver, a partire
dal semplice fatto che non era interessato a me. Nathan aveva il cuore giovane,
di chi ha voglia di cambiare ed è disposto a farlo, ed ero abbastanza convinto
che una vita con me l’avrebbe annoiato. Non c’erano speranze per me; non ce ne
sarebbero mai state.
«Si
chiama Nathan.»
«Ah,
che nome adorabile! Mi ricorda un ragazzo che conosco. E poi? Dai, racconta.»
Le
raccontai qualcosa su di lui, del fatto che eravamo completamente agli antipodi
e che avrei dovuto trovarlo insopportabile per quel motivo, e invece la
situazione era quella che era. La feci divertire con la trovata di Ashton -
“Voglio proprio conoscerlo, questo genio!” - e fu la prima persona a cui
raccontai del bacio che ci eravamo scambiati.
Fu
una lunga chiacchierata, in cui non ci fu spazio per i sensi di colpa.
«Dunque
siamo arrivati al punto dove tocca a te fare la prossima mossa, e questo ti ha
mandato in crisi. Corretto?»
«Corretto,
come sempre.»
«Qual
è il problema?»
«Il
problema è capire in che direzione voglio far andare questa storia. Non so se
invitarlo da amico o se… »
Mi
riempii di imbarazzo. Parlarne in quei termini era qualcosa di nuovo e
sconvolgente insieme.
«Quante
storie. Invitalo da amico e poi, se la situazione lo permette, fai un
passettino in avanti. Un regalo, un’offerta, magari ci scappa pure un bacio.»
Schioccai
la lingua per canzonarla.
«Tu
e Ash andreste sicuramente d’accordo. E non è questo il punto. È che a lui ci
tengo, e preferisco rimanere amici che subire una delusione. C’è qualcosa tra
di noi, Nelly, qualcosa che non riesco a spiegare. Un’intesa che non ho mai
provato con nessuno. È qualcosa di magico, da qualunque prospettiva tu la veda,
e non voglio perderlo.»
Nelly
rise di gusto.
«Deve
averti proprio stregato. Sarei curiosa di conoscerlo, l’uomo che ha fatto
capitolare il nostro Alan. Senti, vuoi un consiglio? Buttati. Non sta mica lì
ad aspettare te, sai? E se poi andrà male, potrai sempre venire a piangere
sulla mia spalla.»
Il
suo ragionamento filava; eppure, ciò che continuava a preoccuparmi era la magia
che c’era tra me e lui, che con ogni probabilità con un bacio si sarebbe
spezzata.
Io
e Nelly passammo una buona serata. Lei non fece altro che dire quanto mi
brillavano gli occhi quando parlavo di lui, che era tanto felice per me e via
discorrendo. Io non sapevo se ero felice per me stesso. L’unica certezza era la
paura che quella situazione mi metteva. Stavo uscendo sul campo di battaglia
senza armatura, senza spada, pronto a farmi pugnalare, se era così che dovevano
andare le cose. Dovevo solo trovare il coraggio di rendere tutto reale, ma non
ero sicuro di averlo, quel coraggio.
No,
non ero sicuro per niente.
Angolo
autrice
Salve
a tutti! Tante rivelazioni in questo capitolo, tra indagini e sentimenti J
A quanto pare ci sono già un paio di persone che cercano di dare una
spintarella a questa coppia ahahah XD Le cose andranno per il verso giusto?
Oppure succederà un casino di dimensioni bibliche? :P
Ne
approfitto anche per aggiornarvi sulla revisione: sono a buonissimo punto, mi
manca solo da revisionare il 30 e poi finalmente passerò alla scrittura del 31,
32 e 33. Confesso che le settimane mi stanno passando velocissime e a questo
punto ho quasi il terrore di non riuscire a finire la stesura in tempo, ma voglio
(e posso) farcela!
Ancora
una volta ne approfitto per ringraziare tutte le persone che hanno deciso di
dare una possibilità a questa storia, vi giuro che mi rendete felicissima ç__ç
A
giovedì prossimo, allora, e grazie per il sostegno <3
holls