Il Mago Vikingo - L'alleanza dei 4 Regni -

di Nina Ninetta
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L'idea di partenza per questa epopea fantasy non è stata frutto della mia immaginazione.
Come avrete letto nell'intro, questa storia partecipa a un contest indetto sul forum di EFP dal giudice Spettro94,
perciò - si capisce - che lo spunto iniziale è il suo.
Per onor di cronaca, riporto di sana pianta il suo incipit,
ringraziandolo per l'opportunità di scrivere e fantasticare su questa avventura.
Mi sono divertita un sacco, amico! 


 







 

“Un sussurro, una voce scarlatta che si sparge in un soffio di brezza.

Dama del vento, la chiamano in ogni corte e feudo,

ma la brava gente del volgo si rivolge a lei con un altro e più fosco epiteto:

la Signora della penitenza, la Morte bianco vestita.

Nelle notti in cui la brezza soffia costante e l’oscurità regna incontrastata,

il suono della sua lama che sfrega il selciato risuona come una dolce litania.

Presagio di morte e dei pallidi sudari che avvolgono le sue forme sconosciute,

sospinti dal vento come braccia ansiose di afferrare un’anima innocente e strapparla alla vita.

È una maledizione che infesta ogni reame del continente ma nessuno, neanche tu, è stato in grado di comprenderne l’origine.

Sei il prediletto allievo dell’Arcimago Volkàn, rettore dell’Accademia sita nella capitale del regno di Osihria.

La regina Deme, colei che sussurra all’orecchio del re, ha convocato un potente mago dell’accademia affinché epuri questa minaccia una volta per tutte,

assieme a una guarnigione scelta di guerrieri provenienti da ogni angolo del mondo.

Volkàn ha scelto te per questo incarico...”

 




 
 

IL MAGO VIKINGO
– L’alleanza dei 4 Regni –


 
 
Prologo
 
Osihria, la capitale del Regno Magico, si espandeva in larghezza al centro del Continente Abitato. Non era certo la città più antica dell’intero mondo conosciuto, ma di sicuro quella che era stata in grado di svilupparsi più in fretta e meglio. All’inizio era stata solo un modesto villaggio, abitato perlopiù da rozzi contadini, eppure in pochissimo tempo si era trasformata in una meta ambita da tutti coloro che cercavano fortuna e una maggiore aspirazione per l’avvenire.
Gli abitanti degli altri regni dicevano che era stato facile per il piccolo villaggio diventare tanto grande e potente: l’Accademia della Magia aveva dato loro una bella spinta. Infatti, già quando si stava giungendo alle mura di Osihria, era possibile notare le torri di cristallo troneggiare sull’intero regno, più alte e imponenti anche del castello, dimora del re e della regina.
Le torri secolari erano state il fulcro intorno alle quali si erano erette le prime casupole, fatte di paglia e legno, diventate sempre più prospere nel corso dei secoli, fino a convincere l’Arcimago del tempo che fosse arrivato il momento di eleggere un monarca, affinché portasse ordine tra i cittadini anarchici. Ben presto, ai piedi delle imponenti torri di cristallo, fu eretto il castello reale e venne incoronato re Taliesin, un giovane contadino di soli 16 anni, il quale aveva superato la prova messa in atto dai maghi dell’Accademia per eleggere il primo sovrano di Osihria.
Da quel giorno nacque la lunga dinastia taliesina, mai messa in discussione o minacciata da alcuno. D’altronde, con la schiera di maghi dalla propria, simile a un caldo e rassicurante mantello sulle spalle, a chi sarebbe venuto in mente di attaccare il Regno di Osihria?
Ciò nonostante, una maledizione incombeva da circa un secolo sul Reame Magico e non solo. Tutto il mondo conosciuto, l’intero Continente Abitato, ne era afflitto.
La Dama del Vento, una minaccia velata e impalpabile che ogni notte reclamava giovani e innocenti vite. Qualcuno raccontava di averla vista in viso: era un’anziana donna dalla pelle raggrinzita e le mani tremolanti; altri la descrivevano simile a una dea, con un lungo abito bianco dalle eccessive trasparenze; nel Regno di Metallo invece si diceva che fosse una brutale guerriera che si aggirava di notte con l’elmo calato sulla testa, la spada trascinata sul terreno polveroso che produceva un leggero frusciare da brividi, e la corazza insanguinata di colore chiaro, come il mithril.
Quale fosse il suo vero aspetto nessuno lo sapeva, né tantomeno si conosceva ciò che la spingeva a togliere la vita ai più piccoli, bambine per lo più, non ancora in età da sviluppo, ritrovate la mattina con uno stiletto infilzato nel petto, gli occhi chiusi e un’ombra di sorriso sul volto, come se fossero state contente di seguire la Dama in un mondo nuovo, ignoto, ma evidentemente migliore del presente.
Le grida disperate delle mamme si alzavano al cielo, inorridendo dinnanzi allo spettacolo raccapricciante delle loro figliolette trafitte da una fredda lama d’acciaio, eppure non vi era alcuna goccia di sangue a sporcare le lenzuola o la pelle candida delle piccole vittime. Qualcuno ipotizzava che ne inspirasse l’anima direttamente dal corpo.
Ogni notte, in ogni angolo di regno, gli uomini facevano la guardia alle proprie dimore, si organizzavano in squadre per setacciare l’area circostante, armati di spade e coraggio, invano. L’aria tremava, il vento soffiava lieve, gelido e silenzioso come il sussurro di un amante, la pelle si accapponava, i capelli sulla nuca si rizzavano, mentre un’altra innocente anima seguiva la crudele Dama del Vento, la cosiddetta Morte di Bianco Vestita, colei che non aveva nome e non aveva volto.

 

 

I.

 
 
Osihria, Capitale del Regno Magico ₰
 
La regina Deme si guardò allo specchio, avvicinandosi sempre più, poi batté un piede sul pavimento di cotto. Eccone un’altra, maledette, sbucavano come niente dalla sera alla mattina, quelle rughe le avrebbero tolto il sonno. Lei non voleva diventare come sua madre, vecchia già a quarant’anni. Doveva fare qualcosa adesso che ne aveva ancora le forze e soprattutto la bellezza per convincere gli uomini ad assecondarla. Con un gesto spazientito indicò il solco al lato destro della bocca e prontamente l’ancella alle sue spalle la tamponò con abbondante cipria.
Già convincere l’Arcimago Volkàn non era stato facile, ma la regina Deme non aveva dato troppo peso al suo iniziale rifiuto. Era un uomo vecchio, senza famiglia, che aveva votato la sua intera vita alla magia e alla reggenza dell’Accademia. Non aveva mai avuto un grande ascendente su di lui a essere sinceri. Volkàn l’aveva sempre trattata con superiorità e anche un pizzico di superbia, quasi che non le spettasse di diritto la corona che reggeva sul capo. Ciò nonostante, Deme sapeva benissimo che avrebbe potuto rifiutare una sua richiesta, ma non un ordine del re: Taliesin l’Ammalato.
Osservò ancora una volta la sua immagine riflessa, qualcuno nella stanza disse che era bellissima, non c’era bisogno di alcun ritocco. Deme sorrise compiaciuta. Lo sapeva di essere bella, perciò stava facendo di tutto per restarlo il più a lungo possibile.
Per sempre, se fosse stato possibile.
Bussarono alla porta e un omino tutto compito annunciò a sua maestà che i primi ospiti erano giunti nella capitale.
«Di chi si tratta?» Chiese lei, scrutando il messaggero attraverso il riflesso dello specchio, un luccichio appena percettibile le attraversò lo sguardo fiero e altezzoso.
«Il principe del Regno del Vento, mia maestà».
Lo brillio si spense, assunse un’aria infastidita e lo licenziò con un cenno della mano. L’omino si chinò in avanti e uscì.
Non era propriamente la guarnigione che stava attendendo, ma qualcuno era davvero giunto a Osihria, ciò significava che il suo piano si era appena messo in moto. Provò un senso di ebbrezza, come se fosse ubriaca, perciò decise che avrebbe accolto il nuovo arrivato sebbene ne aspettasse altri. Molti altri.
Con l’abito ingombrante (degno di una regina!) si mosse per i lunghi e freddi corridoi del castello. A tutti e a nessuno ordinò che il re, suo marito, venisse accompagnato nella sala del trono.
«Sarà fatto, sua altezza». Una donnona al suo canto si prostrò e imboccò la prima curva sulla destra.
La regina sorrise, già pregustava il momento. Era lei l’artefice di tutto, lei aveva smosso mari e monti affinché i migliori guerrieri dell’intero Continente Abitato fossero convocati alla sua corte per porre fine una volta per tutte a quella minaccia di morte e sofferenza.
La Dama del Vento… erano centinaia le leggende che si narravano intorno alla sua figura, centinaia le sembianze che le erano state affibbiate, ma una sola contava per la grande reggente di Osihria, il resto era solo una sceneggiata, una messinscena per convincere l’Arcimago Volkàn a sostenere il suo piano. E per rendere il tutto ancora più credibile, lo aveva invitato personalmente a presenziare al concilio che si sarebbe tenuto quel pomeriggio.
Adesso stava attraversando l’ultimo tratto di corridoio che l’avrebbe condotta direttamente alla sala del trono; attraverso le ampie finestre vide il paese espandersi dentro le mura del castello. Popolani, gente umile e ignorante che non avrebbe mai potuto comprendere i pensieri di una regina, così fessacchiotti e ingenui da essere emozionati di ricevere personalità importanti e stranieri: principi discendenti dalla razza elfica; re imponenti che maneggiavano spadoni di ferro e acciaio; guerriere a cavallo, belle e selvagge. E infine lui, il mago più potente che Volkàn in persona aveva scelto per quella missione, un uomo capace di manipolare i quattro elementi a proprio piacimento, come si fa con un cane fedele.
Al suo cospetto le guardie magiche, all’ingresso della grande sala reale, spalancarono il portone e Deme vi entrò, la testa alta, la schiena dritta, sforzandosi di tenere lo sguardo puntato davanti a sé, nonostante la curiosità di voltarsi per osservare i presenti fosse molto forte. Sentiva un leggero brusio, voci maschili, qualcuno ridacchiò, ma lei tenne gli occhi castani fissi sul re, già accomodato nel trono. La regina si chinò dinnanzi a Taliesin che parve non accorgersi della sua presenza, né tantomeno del perché fosse lì e chi fossero quelle persone nella camera.
Deme finalmente poté sedersi e scoprire chi, dei guerrieri chiamati, fosse già lì.
«Mia regina…» la voce calda e profonda del monarca del Regno di Metallo parve rimbombare contro le pareti di cemento crudo e tornare indietro. Deme si mosse a disagio sul suo trono, alzò il mento per evitare che la guardasse dritto negli occhi.
«… mio re. Il Regno di Metallo ha risposto alla vostra chiamata, sempre devoti al patto che i nostri avi siglarono per il bene di entrambi i regni…», quindi si voltò a guardare l’arciere con le spalle contro una delle colonne che reggevano la sala, «… e del mondo conosciuto».
L’arciere non si mosse.
«Grazie per essere qui, re Namor» parlò la regina Deme. Sentiva le gote in fiamme, a stento riusciva a tenere ferma la voce. «Purtroppo, il sovrano Taliesin è ancora molto malato, oggi in particolare è una brutta giornata per lui, la notte non gli ha portato vigore, ma farò io le sue veci».
Il sovrano Namor fece un leggere inchino di approvazione e indietreggiò di qualche passo, mettendosi fra i tre guerrieri che aveva portato con sé, pronto a presentarli uno per uno, quando il portone principale della sala del trono si spalancò.
 
Una donna dalla corporatura importante, alta quanto un uomo – difatti non fu costretta ad alzare lo sguardo per fissare Namor negli occhi quando gli passò accanto – muscolosa e dai lunghi capelli biondi, si fermò a pochi metri dalle altezze reali di Osihria. Indossava un lungo mantello intarsiato di pietre preziose, che lasciava scoperta la parte anteriore e teneva al posto del collo una alta e rigida gorgiera. Sollevò un piede e lo posò sul primo dei cinque scalini che portavano ai troni, scoprendo la gamba per intero. I denti perfetti e bianchi si aprirono in un sorriso sornione, di sfida; dietro di lei una scia di giovani donne.
«Charlotte.»
«Deme.»
«Sarei la regina Deme.»
«E io la regina amazzone Charlotte.»
La donna bionda lanciò un’occhiata al re Namor che si era lasciato alle spalle e quindi ai suoi accompagnatori: un uomo dai pettorali scolpiti che indossava una specie di gonna di pelle e gambieri di metallo, con lunghi capelli scuri e una folta barba che gli copriva il viso dai lineamenti marcati, ma non spiacevoli. Alla destra del re invece c’erano due ragazzi, decisamente più giovani, molto simili nell’aspetto: poco muscolosi, di carnagione olivastra e capelli neri, ricci, fino alla nuca. Si muovevano in continuazione, come se stessero ballando, forse erano solo impazienti di fare qualcosa, tipo picchiare.
Charlotte fissò infine l’arciere con le spalle contro la colonna in fondo alla sala, se ne stava con le braccia conserte e gli occhi chiusi. Era alto, la pelle olivastra, in tenuta da caccia, i capelli rasati ai lati e lunghi fino alle spalle lasciavano scoperte le orecchie a punta, segno evidente del suo sangue elfico.
Infine strizzò l’occhio alle sue guerriere, prima di tornare a guardare Deme:
«Perché siamo qui?»
«Il mio messaggero non te l’ha spiegato?»
«Sì, l’ha fatto, ma sai…» tirò via il piede dallo scalino, «proprio non riesco a capire perché noi siamo qui».
«Sei un po’ ritardata, mia regina?!» la schernì Deme, stuzzicando il riso del grande guerriero alla sinistra di Namor.
D’improvviso, una delle ragazze di Charlotte afferrò un pugnale che teneva nascosto negli stivali e lo puntò alla gola dell’uomo, il quale prontamente mostrò i palmi senza tuttavia smettere il suo sorrisetto divertito.
«Ehi, ehi! Siamo un tantino nervose, eh?!» scherzò.
«Le armi non sono ammesse nella sala del trono!» La regina Deme balzò dal seggio, indispettita per quella mancanza di rispetto.
«Queste ragazze sono tremende, hai ragione» intervenne Charlotte, facendo poi cenno all’amazzone di lasciare andare il guerriero. «Va tutto bene, Shayna, si è tra amici… suppongo».
La ragazza di nome Shayna mollò la presa, soffiando simile a una fiera verso la sua preda. Il guerriero poté notare che non aveva affatto un bel viso, né forme femminili, solo un paio di seni appena accennati al di sotto della tenuta di pelle scura. I corti capelli castani erano raccolti in un codino e le gambe erano muscolose, simili a quelle di un uomo. Fu così che l’ideale secondo il quale le amazzoni erano tutte bellissime e sensuali decadde, come può decadere un principio morale e religioso dinnanzi alla verità.
Uno dei maghi di guardia all’ingresso della sala si avvicinò a Shayna per prelevare il coltello con il quale aveva minacciato il guerriero pocanzi.
«Perché lui può tenere l’arco?» Chiese.
«Non ha frecce» fu la risposta repentina del mago e solo quando la regina Charlotte le fece cenno che poteva darglielo, lei lo fece, seppur contrariata.
«Dunque, dunque, dunque…» riprese Charlotte rivolgendosi a Deme, «perché noi siamo qui?» Si mosse per la sala, il mantello svolazzante, la gorgiera rigida, i colori scintillanti e la postura imponente le donavano un’aria da unica e indiscussa sovrana.
«Lo sai perché, altrimenti non saresti qui», continuò Deme. «La Dama del Vento va fermata prima che il mondo conosciuto rischi di estinguersi. Troppe, infatti, sono le bambine che vengono ammazzate senza pietà, e se un domani non ci saranno più femmine, chi popolerà il mondo?».
Charlotte finalmente si fermò, fissò a lungo Deme negli occhi.
«La Dama del Vento non ha mai neanche ferito una di noi, né donna, né bambina. Perché, dunque, dovremmo combatterla al vostro fianco?».
«Hai ragione, regina del Regno di Scizia» intervenne Namor, la solita voce pacata e profonda si sposava bene con il suo bell’aspetto: le spalle larghe; i muscoli delle cosce che aderivano al pantalone di tessuto scuro; i capelli nerissimi raccolti dietro al capo e infine la barba ispida di qualche giorno che gli nascondeva il mento e il collo. Sembrava impossibile che non avesse una sposa al suo canto, né tantomeno una prole che un giorno prendesse il suo posto sul trono. «La Dama del Vento attacca i nostri regni, ma lascia in pace il tuo, eppure indirettamente vi colpisce».
«Vi ascolto, Namor, proseguite», disse Charlotte senza abbassare mai lo sguardo.
«Se non ci saranno più bambine a questo mondo, anche il vostro regno è destinato a finire. Chi, infatti, verrà da voi per diventare una guerriera se non ce ne saranno più?»
«La Dama del Vento non può ammazzarle tutte, dai!».
A parlare era stata un’altra delle ragazze amazzoni, anche lei alta quanto un uomo e dal fisico possente, muscoloso, con corti capelli biondi e diversi cerchi d’oro all’orecchio destro. La pelle del viso era molto giovane, ma il trucco marcato la invecchiavano di diversi anni.
«Non hai capito!». Intervenne questa volta il guerriero che Shayna aveva minacciato. «Le poche bambine sopravvissute potrebbero avere l’ingrato compito di evitare l’estinzione della specie umana, perciò andranno protette e obbligate a riprodursi, e voi…» le indicò con una mano grossa quanto il raggio di una ruota da carro. «… voi di fare figli non se ne parla neanche».
«Bada a come parli, guerriero di latta!». Ringhiò l’amazzone, poi la regina di Scizia le posò una mano sulla spalla.
«Rhia…» la riprese con fermezza, ma non c’era rimprovero nella sua voce. «Ho capito» aggiunse poi guardando Deme, «avrete il nostro appoggio». Indicò le sue donne guerriere e con orgoglio le presentò:
«I miei generali di armata, le mie fidatissime consigliere, i miei occhi, le mie gambe e le mie braccia: Becky e Rhonda».
Entrambe avanzarono di un passo. La prima era la più mingherlina del gruppo di amazzoni, poco muscolosa rispetto alle altre, la folta chioma ramata le copriva l’intera schiena, quattro trecce ad ambo i lati del viso erano tirate indietro, lasciando scoperti lineamenti dolci e uno sguardo fiero.
Rhonda invece superava la compagna in statura e peso, sebbene non vi fosse neanche un filo di grasso sul suo corpo statuario e allenato. I capelli biondi erano legati in una semplice coda che scendeva morbida oltre il seno poco abbondante; due linee nere tatuate le attraversavano le gote pallide; le labbra sottili erano strette in una specie di ghigno e gli occhi scaltri non si chinarono neanche dinnanzi al cospetto della regina del Regno Magico.
«Rhia, Shayna e Beanka sono le mie tre migliori amazzoni. Potenza, violenza, scaltrezza…», la regina Charlotte le guardò come si farebbe con delle figlie di cui si è particolarmente fiere, poi tornò con l’attenzione su Deme. «Deciderò più avanti chi di loro sposerà questa causa e chi no».
«E sia…» la sovrana di Osihria lanciò uno sguardo a suo marito, quest’ultimo sedeva scomposto sul trono alla sua destra, le palpebre semichiuse sotto folte ciglia bianche, un rivolo di bava schiumosa gli si era incollato agli angoli della bocca. Deme sperò che da lontano non si notasse, almeno quello…
«Reggente Namor», proseguì rivolgendo l’attenzione sull’affascinate sovrano del Regno di Metallo. «Vuole presentarci i suoi guerrieri?».
«Con piacere, mia regina.» Namor indietreggiò appena per concentrare l’attenzione sui cavalieri che lo accompagnavano. «Avete già avuto modo di fare la conoscenza di Drew, il corazziere gentiluomo.»
Drew era l’omone attaccato da Shayna con un pugnale, sentendosi nominare si gettò i capelli all’indietro, lisciandoli in tutta la loro lunghezza.
«Loro invece sono i gemelli Jay e Joy, scaltri e abili nel combattimento corpo a corpo, nonché figli di mia sorella.»
Jay e Joy erano i due giovani che scalpitavano e scalciavano come puledri al pascolo, i loro occhi scuri parevano urlare al mondo che nulla li spaventava, neanche la Morte di Bianco Vestita.
«Sono il meglio che il mio regno ha da offrire. Confido nelle loro capacità» concluse Namor.
«Sicuramente adempiranno al volere del loro sovrano». Deme e Namor si osservarono per un attimo, un secondo che a Charlotte dovette sembrare comunque eterno, poiché roteò gli occhi al cielo, annoiata, suscitando alcuni risolini da parte delle sue fedelissime. Poi spostò di nuovo l’attenzione sulla figura silenziosa confinata alle loro spalle. Avanzò nella sua direzione:
«E tu, arciere d’infamia, chi sei?»
L’uomo sollevò le palpebre, tenute abbassate per la maggior parte del tempo, fissando la regina del Regno di Scizia.
Arciere d’infamia.
Era da tanto che qualcuno non si rivolgeva a lui con l’epiteto che le amazzoni erano solite affibbiare a quelli della sua stirpe. Non correva buon sangue tra le due razze, anzi, non si davano battaglia solamente perché i confini dei rispettivi reami erano lontani e al centro vi era il regno di Namor, che nei millenni aveva fatto un po’ da spartiacque.
Arciere d’infamia.
Chissà perché gli piaceva quel soprannome, vi si rispecchiava in un certo senso.
«Io sono Da’miàn di Delundel, figlio di Delundel III, re del Regno del Vento, dodicesimo di dodici figli, protettore delle sacre Montagne Ululanti e…».
«Per Scizia, che noia!» esclamò Charlotte, questa volta generando un’ilarità tra tutti i presenti. «Rilassati, sei un così bel ragazzo…» gli carezzò il viso glabro mandandogli un bacio a labbra unite. Da’miàn non si mosse di una virgola, né chinò il capo, né arrossì. Lui era pur sempre un erede al trono del Regno del Vento, certo, il dodicesimo, ma pur sempre un principe, e un principe non china mai il capo, neanche dinnanzi a una regina. O almeno questo gli aveva detto una volta suo padre, quando si era offerto di aiutare sua madre in una faccenda che neanche ricordava più.
«Regina Deme», riprese Charlotte allontanandosi dall’arciere per tornare al centro della sala. «Abbiamo un esponente del Regno del Vento, ben tre guerrieri di metallo, amazzoni pronte alla grande guerra, ma non vedo alcun rappresentante del vostro regno fatato.»
«Magico, non fatato!», sottolineò la sovrana. Charlotte aveva il potere di farla irritare anche senza intenzione. «Io e re Taliesin abbiamo chiesto all’Arcimago Volkàn di supportarci in questa avventura con il suo migliore allievo. Colui che sa adoperare le arti magiche nella maniera più assoluta e completa, che sia di aiuto alla squadra, una guida, non un peso. Ebbene, Volkàn mi ha assicurato che metterà a disposizione della missione il suo prediletto, un mago che negli anni si è distinto per intelligenza e disciplina, conosciuto nei regni noti con il nome di Mago Vikingo.»
«Molto interessante», disse Charlotte mostrando i palmi all’insù, «e dov’è?».
Proprio in quel preciso istante, le porte si spalancarono e una lunga risata accompagnò l’ingresso del famigerato Mago Vikingo, temuto e rispettato nell’intero Continente Abitato, come se fosse tutto preparato, come se la persona citata pocanzi fosse nascosta dietro alla grande porta, in attesa che arrivasse il suo momento di entrare in scena.
 
L’uomo che entrò non aveva le fattezze tipiche di un mago, né di un vikingo bellicoso a dire il vero. Indossava scarpe di pelle chiara, mentre il vestito consisteva in un abito dal taglio elegante, con fondo arancio e ghirigori neri. I capelli scuri erano lucidi, bagnati, lunghi e ondulati fino alla spalla; anche la barba era scura e ne ricopriva le guance e il mento. I denti bianchi spiccavano dalla bocca aperta che continuava a emettere quell’assurda risata. Avanzava a piccoli passi alternati, due a destra e due a sinistra, sembrava ballasse un ritmo che sentiva solo lui.
Nella sala i presenti si guardarono con fare interrogativo, intanto che l’ultimo arrivato giungeva ai piedi del trono dove anche il re Taliesin l’Ammalato parve ridestarsi appena dal suo torpore perenne.
«TA_DAAN!» Urlò l’uomo spalancando le braccia.
«Chi siete? Presentatevi!» Aggiunse Deme con tono imperativo.
«Come chi sono? Il vostro grande mago! Seth!» Poi si voltò indietro, verso le amazzoni, l’arciere e i guerrieri scelti. «Il mago più forte e potente che la storia dell’Accademia abbia mai conosciuto», mentre parlava teneva le braccia spalancate e fissava il soffitto ad arco del castello. «Immenso, imbattibile, incorruttibile, ineguagliabile, insuperabile, ins…».
«Abbiamo capito! Sei un buffone! Dov’è il vero mago?». La regina delle amazzoni arrestò il fiume in piena di parole insensate e lui parve dispiacersi per quella domanda, ma lei rincarò la dose, parlando piano per scandire al meglio le sillabe: «Dov’è – il – vero – mago?».

 

 
Continente Abitato ₪
In un villaggio tra il Regno del Vento e il Regno di Metallo

 
Le porte di legno della taverna si aprirono con un tonfo, l’uomo le tenne spalancate con tutto il peso del corpo schiacciato contro una delle ante. I pochi presenti si voltarono a guardarlo, i boccali di birra fermi a mezz’aria e i sensi vigili.
Gli stranieri non erano graditi in quel piccolo villaggio abitato da contadini e allevatori di vacche, la maledizione della Dama del Vento aveva reso tutti più scettici e poco inclini alla solidarietà. Solo la sera precedente, infatti, la figlia del capo villaggio era stata uccisa durante il sonno: lo stiletto di ghiaccio nel petto, senza sangue, con un sorriso dolce sulle labbra. Aveva solo sette anni.
Lo straniero fece un passo in avanti, poi un altro. Si trascinava le gambe e riusciva a stare in piedi a stento, se non fosse stato per i tavoli e le sedie contro i quali si reggeva, sarebbe caduto con le ginocchia sul sudicio pavimento della locanda.
A fatica raggiunse il bancone in fondo alla sala e si accomodò issandosi sopra uno degli sgabelli traballanti. La donna dall’altra parte del bancone si pulì le mani sul grembiule macchiato di chissà cosa e gli chiese cosa preferisse.
«Da bere» rispose l’uomo senza alzare lo sguardo. «Qualcosa di forte».
La donna lo osservò per un po’. Nonostante fosse vestito di stracci, avesse i capelli spettinati e una barba disordinata, si poteva notare la sua giovane età dalla pelle del viso e dal fisico asciutto, forse addirittura allenato al di sotto della camicia di lino stropicciata e impolverata. La cameriera fece per afferrare una delle bottiglie alle sue spalle, ma lo straniero la fermò prima che potesse anche solo sfiorarle:
«Uno buono, donna.»
«Puoi pagare, straniero?»
Lui lasciò cadere una moneta d’oro sulla superficie di legno del bancone, attese che la donna la scrutasse per bene alla luce della lampada a olio, poi la vide chinarsi per prelevare una bottiglia nascosta alla bell’e meglio nei mobili ai suoi piedi. Gli versò un liquido dal colore del fuoco.
«Ratafià» disse lei.
Lui lo odorò a lungo, poi tenne la tazza di legno grezzo tra i palmi, socchiudendo gli occhi, mentre un vapore gelato avvolgeva il liquore di ciliegia. Nella locanda calò il silenzio, qualcuno andò via in fretta e furia, altri continuarono a fissare lo straniero con rabbia.
«Un mago» disse la donna, sporgendosi verso di lui, osservandolo bere il Ratafià. «Qual è il tuo nome, stregone?».
«Gareth Edgemas Anders».
«Sembri ridotto male. Hai litigato con un demone, per caso?»
L’uomo alzò lo sguardo su di lei. Probabilmente, un tempo doveva essere stata una bella ragazza, ma la vita era stata alquanto infame nei suoi confronti. Una lunga e vistosa cicatrice le attraversava la parte destra del viso, partendo dalla fronte, oltrepassando l’occhio ormai cieco, e scemando oltre la curva del collo. Eppure, c’era qualcosa di dannatamente affascinante in lei, qualcosa che sembrava attirarlo simile a un orso in cerca di miele.
«Devo raggiungere Osihria prima possibile, puoi aiutarmi?»
«Se mi dici quello che ti è capitato, potrei anche trovare il modo…», lui non rispose, si limitò a osservarla direttamente nell’unico occhio buono e lei ridacchiò, tornando con la schiena diritta mentre gli versava altro liquore e gli offriva due pezzi di carne essiccata. «Tranquillo, Gareth Edgemas Anders, per questa moneta d’oro che mi hai dato avresti diritto a un trattamento completo» gli fece l’occhiolino e lui semplicemente rispose:
«Chiamami Edgemas», bevve. «Allora, puoi aiutarmi?»
«Alle prime luci dell’alba di domani, una carovana sarà in partenza per la capitale del Regno Magico. Immagino che tu sia diretto all’Accademia.»
«Domani mattina» meditò, «… troppo tempo.»
«Potresti impegnarlo con me», la cameriera si sporse nuovamente in avanti e questa volta il mago fu certo che doveva essere stata proprio una bella ragazza, prima di allora. Decise che sì, di lei si sarebbe potuto fidare.
 
Gareth Edgemas Anders era un uomo solitario. Non amava muoversi in grandi gruppi di persone, né in due se è per questo. Preferiva la solitudine, quella assoluta, perciò aveva scelto di lasciare l’Accademia poco tempo dopo il suo percorso di Elementalista. Ricordava ancora la disperazione dell’Arcimago Volkàn quando gli aveva annunciato che sarebbe andato via, che avrebbe lasciato Osihria per non farvi più ritorno.
«Di cosa vivrai, Edgemas?» gli aveva chiesto disperato. «Qui hai tutte le comodità che ti servono per condurre una vita di agi.»
«Non me ne faccio niente. Vivrò di natura» era stata la risposta del mago, mentre gli dava le spalle e si incamminava verso le porte di cristallo, nella Grande Sala dei Magi, dove i maggiori maestri si riunivano per prendere le più importanti decisioni.
Improvvisamente il portone si era chiuso, sigillato da lucchetti magici grandi quanto un elefante. Edgemas aveva sospirato, non era così che voleva andarsene.
«Ti ho cresciuto come un figlio! Ti ho tenuto sotto la mia ala, insegnato le arti magiche personalmente, confidato i segreti più oscuri mirati a destreggiare al meglio i quattro elementi. Sei destinato a sedere qui un giorno, dove siedo io, a reggere l’Accademia e l’armonia del mondo conosciuto. Non ti permetterò di gettare al vento anni della mia vita e del mio tempo.»
«Hai Seth, non ti servo io».
L’Arcimago aveva stretto i pugni, battendo il bastone magico sul pavimento di cristallo, scintille erano spruzzate dalla pietra bianca incastonata sulla sommità dell’arma: Diamante.
«Seth non è all’altezza. La sua superbia lo porterà alla distruzione di sé e dell’intero Continente Abitato.»
«Non è un mio problema» aveva concluso Edgemas, mentre con un movimento lento del palmo destro aveva aperto i lucchetti magici che sigillavano il portone.
«Va dunque, mago guerriero, ma ricordati che mi sei debitore, la tua esistenza è legata alla mia, devi ubbidienza all’Accademia», queste furono le ultime parole divinatorie dell’Arcimago, poi il suo prediletto era sparito oltre le immense porte di cristallo.
Edgemas aveva viaggiato per i regni del mondo noto, vivendo di piccole missioni: ammazzare un demone volpe che distruggeva i campi di uva di un povero contadino; combattere la siccità estiva che ardeva la terra; liberarsi di una colonia di goblin che da anni attentava alla vita dei pastori sedentari.
Non gli importava del suo aspetto trasandato, nonostante fosse poco più che trentenne, portava i capelli chiari e spettinati oltre la spalla, solo di rado si radeva il volto, ma sempre senza cura. Indossava un lungo mantello logoro, sporco di polvere e incrostato di fango, con un cappuccio che era solito calare sulla testa. I pantaloni erano ormai larghi sulle cosce, così come la camicia senza collo. A causa del suo aspetto, gli abitanti dei piccoli villaggi lo chiamavano con l’appellativo di Mago Vikingo, in onore di un antico e leggendario popolo guerriero che si diceva abitasse un mondo lontano, alieno.
Edgemas era entrato in Accademia a sedici anni. Alcuni maghi lo avevano portato al cospetto di Volkàn dopo una missione nei pressi del Regno di Scizia. Lo avevano trovato a vagare ai confini del reame amazzone e sarebbe morto di sicuro per mano delle donne guerriere, le quali lo avevano già circondato con le loro lance, se non fossero intervenuti.
Le amazzoni di Scizia mal tolleravano gli uomini, qualsiasi età essi avessero, né questi potevano avvicinarsi ai propri territori. Cosa ci facesse Edgemas lì, non era stato in grado di raccontarlo, o non aveva voluto. I maghi lo avevano allora portato con loro, presentandolo all’Arcimago come un ottimo inserviente: avrebbe potuto pulire le stalle o riassettare le camere dell’Accademia. Volkàn gli aveva lanciato a malapena uno sguardo, annuendo distrattamente: era troppo impegnato a insegnare al suo allievo preferito Seth i rudimenti della magia.
Nel frattempo, Edgemas era diventato invisibile. Si aggirava nelle stanze dell’Accademia come un fantasma, addirittura spesso prendeva parte alle lezioni magiche senza che nessuno degli apprendisti o degli insegnanti si accorgesse di lui. Poi un giorno, era uscito allo scoperto, proprio contro il prediletto dell’Arcimago Volkàn. Tra i due era scaturito un litigio dopo l’ennesima prepotenza di Seth nei confronti del galoppino, il quale inaspettatamente si era difeso in uno scontro magico, avendo addirittura la meglio sullo studente. L’Arcimago era intervenuto di persona, mettendo la parola fine tra i due, poi aveva afferrato Edgemas per un braccio trascinandolo nelle prigioni sotterranee. Qui gli aveva ordinato di mostrargli la sua arte magica, chiedendogli dove avesse imparato a maneggiare gli Elementi, chi gli avesse insegnato.
«Nessuno» aveva risposto il garzone.
«Parla, ragazzo!» aveva poi tuonato il grande mago.
«Ho imparato da solo».
Volkàn aveva deciso di credergli, non c’era menzogna nei suoi occhi, né paura né furbizia. Edgemas sembrava l’uomo che aveva sempre sperato di incontrare un giorno: sicuro di sé ma non superbo, era come se la magia gli scorresse in modo naturale nel sangue, una belva allo stato brado da disciplinare. Da allora era sempre stato al suo fianco, causando la reazione avversa di Seth che, mosso da invidia, era entrato in competizione con l’ormai ex inserviente dell’Accademia magica.
Tuttavia, il prediletto di Volkàn un giorno aveva deciso di andare via, lui era sempre stato un animale libero e questo l’Arcimago lo sapeva, eppure aveva sperato di smussare quella sua voglia di libertà offrendogli tutto ciò che un uomo può desiderare.
Quando, però, la regina Deme aveva convocato a palazzo Volkàn per mostrargli il suo piano di eliminare una volta per tutte la maledizione della Dama del Vento, chiedendogli – imponendogli per conto di Taliesin l’Ammalato – di inviare in missione il più potente dei suoi maghi, l’Arcimago non aveva avuto dubbi. Inoltre, auspicava che Edgemas facesse così ritorno all’Accademia, per prendere un giorno la reggenza del palazzo di cristallo. Aveva allora chiamato Seth, comandandogli di cercare Edgemas per annunciargli che l’Arcimago Volkàn chiedeva di lui. Aveva un compito da affidargli: uccidere la Dama del Vento.
Seth si era indispettito:
«Sono io il mago più potente di tutti! Dovreste mandare me in missione!» Aveva urlato, ma l’anziano mago non si era lasciato intimidire dalle sue minacce, ribadendo di attenersi al compito datogli.
 
Seth era partito alla volta dei regni, in cerca dell’ex rivale. Dopo diversi giorni lo aveva scovato, intento a portare a termine l’ennesima noiosa missione che un contadino gli aveva commissionato: estirpare la colonia di demoni talpa che ogni notte gli distruggevano il raccolto.
Seth aveva atteso che Edgemas terminasse l’incarico, poi l’aveva informato che l’Arcimago chiedeva di lui.
«Il vecchio ha una missione per te.»
«Che tipo di missione?» aveva domandato.
«Uccidere la Morte di Bianco Vestita.»
«La Dama del Vento…» aveva sussurrato Edgemas, quasi incredulo. «Come pensa di riuscirci?».
Seth gli aveva spiegato che l’intera missione prevedeva l’intervento anche degli altri tre regni del Continente Abitato. Si temeva che presto il mondo si fosse estinto senza più donne adulte. Edgemas conosceva bene l’afflizione che portava la maledizione. Più di una volta gli era capitato di vedere i cadaveri di quelle povere bambine, la disperazione delle madri e la paura folle negli occhi dei padri. Il popolo ignorante si chiedeva come fosse possibile che le vittime non perdessero neanche una goccia di sangue, nonostante il pugnale di ghiaccio infilzato nel petto. Ci avevano costruito decine di leggende intorno, ma lui sapeva benissimo che lo stiletto, penetrando nel cuore, congelava il sangue delle giovani impedendone la fuoriuscita.
Aveva udito le urla strazianti delle madri, le aveva viste abbracciare il corpo esamine e cereo delle figlie, intere famiglie distrutte dal dolore.
«Verrò con te» era stata la sua risposta.
Avevano viaggiato per un giorno intero, poi si erano fermati nel piccolo villaggio nei pressi del Regno di Metallo di Namor, ma al suo risveglio Edgemas si era reso conto che Seth gli aveva teso una trappola. Quando aveva riaperto gli occhi era già mattino inoltrato, il sole alto nel cielo e il suo corpo impossibilitato nel muoversi.
Seth, l’occultista, gli aveva lanciato addosso un incantesimo di immobilità a scoppio. Il Mago Vikingo giaceva al centro di linee magiche che unendosi formavano un’antica runa, se si fosse mosso anche solo di un millimetro sarebbe saltato in aria.
«Dannato Seth!» aveva detto a denti stretti, chiamandolo più volte, sperando che non fosse lontano, ma ovviamente non aveva ottenuto alcun risultato. Aveva meditato a lungo, non poteva restare lì incatenato per sempre. Aveva chiuso gli occhi, borbottato una formula, schermendo il suo corpo con una barriera di ghiaccio spessa e dura, lasciando libero solo un mignolo che mosse appena per innescare la trappola. Ci fu un forte boato, il corpo di Edgemas venne sbalzato diversi metri più in là, per fortuna la corazza di ghiaccio aveva attutito almeno in parte l’impatto. Alcuni contadini erano accorsi allo scoppio della trappola, ma nessuno di loro si propose per aiutare il mago a rimettersi in piedi. Così, lo straniero era giunto a fatica alla taverna del paesello, dove ora sedeva su uno sgabello sgarrupato, di fronte alla donna sfregiata che lo aveva ascoltato senza batter ciglia.
«E adesso dov’è questo Seth?» chiese alla fine.
«Credo voglia prendere il mio posto nella squadra», Edgemas bevve l’ultimo sorso di Ratafià. «Si farà ammazzare e manderà all’aria l’intera missione.»
«Uccidere la Dama del Vento… come pensate di riuscirci?»
«Non ne ho idea» fu la confidenza onesta del mago, poi la guardò, in particolare si soffermò sulla cicatrice che le attraversava il volto. «Qual è il tuo segreto, invece?»
«Hai bisogno di un bagno caldo, straniero, e di riposare prima di rimetterti in viaggio». Fu invece la risposta della donna, indicando il tramonto che ormai aveva sfumato di arancio le vecchie casupole del villaggio pastorizio.
La taverna era quasi vuota, fatta eccezione per un paio di tavoli occupati da uomini ubriachi, mezzo addormentati, con il capo riverso sulla superficie ruvida del legno grezzo.
Lei lo precedette oltre la piccola porta alle sue spalle, nascosta da tende di tessuto stinto. Edgemas la seguì, attirato come una mosca sulla carne marcia, salì la rampa di scale scricchiolanti ed entrò nell’unica stanza sita al piano superiore. La camera, austera, era immersa nella penombra, non vi erano mobili, solo uno scadente letto a baldacchino, un comò sopra al quale la donna stava adagiando una candela accesa, e una vasca datata colma d’acqua. La cameriera gli si accostò e senza parlare lo liberò del mantello prima, della camicia poi. Il mago non obiettò, neanche quando lei si chinò per slacciare la cinta che gli teneva su i pantaloni, quindi si rialzò adagiandogli entrambi i palmi sull’addome. Aveva un fisico scolpito per essere un mago. Con lentezza estrema lo spinse fino alla vasca, nella quale Edgemas si immerse. L’acqua era tiepida e sentì i muscoli sciogliersi, chiuse gli occhi lasciando che lei gli strofinasse la schiena con una vecchia spugna ingiallita.
«Rilassati, mago» gli bisbigliò all’orecchio, un brivido lo percorse tutto. Poi la donna prese a discendere lungo il torso, su e giù, in un moto perenne ed estremamente lento, fin quando lo straniero l’afferrò per il polso e la tirò nella vasca con sé, baciandole la bocca con tale ardore che ne poté sentire il sapore ferroso del sangue.
L’aveva ferita, non era sua intenzione farle del male, ma lei non replicò, forse era abituata a essere presa con veemenza. Pensò di scusarsi, se non fosse stato per il piacere che le mani di lei gli stavano donando, muovendosi sull’intero suo corpo rinvigorito. Edgemas chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro, sistemandosi al meglio nell’angusto spazio della vasca, troppo piccola per la sua stazza, sebbene la donna sembrasse muoversi con grande agilità, anche grazie alla sua statura minuta. La lasciò fare con le dita e con la lingua ciò che volesse, permettendole di lambire quello che preferiva, soprattutto le disse di continuare quando si concentrò sul suo membro eretto. Infine, la sollevò di peso e, ancora entrambi bagnati, si sdraiò sopra di lei sul letto, possedendola fino al calar delle tenebre.
 
Quando il Mago Vikingo riaprì gli occhi il sole non era ancora sorto, ma a nord stava già schiarendo. La candela si era ormai consumata del tutto e l’acqua nella vasca aveva un colore simile alla paglia nelle stalle. Della cameriera neanche l’ombra, ipotizzò che fosse di sotto, nella locanda. Si vestì velocemente, si acconciò i capelli con lei mani e si lisciò la barba. Non aveva brutti lineamenti, anzi, con maggiore cura sarebbe potuto essere considerato anche un bel ragazzo dalle giovani, le quali sembravano spaventate dai suoi modi tutt’altro che garbati e dal suo aspetto dimesso.
Della donna non c’era traccia neanche nella taverna, dove invece trovò un uomo, sulla cinquantina, la pelle cotta dal sole e con addosso un vecchio e sporco grembiule che citava “Il Pellegrino Stanco”.
Si guardarono.
«Cerco una donna» disse Edgemas
«Anche io, bello, anche io».
Il mago uscì senza aggiungere altro e si avviò alla stazione del villaggio, dove sostava una dirigenza in attesa dei passeggeri. Vi salì a bordo, meravigliandosi di trovare nella tasca anteriore della camicia la moneta d’oro che la sera prima aveva lasciato sul bancone della taverna. Se la rigirò fra le dita, sorridendo:
«Non le ho neanche chiesto il nome» notò con una punta di vergogna. Aveva avuto altre donne nella sua vita, tutte avventure di una notte; donne che si erano concesse non potendo pagare in altra maniera i suoi servigi, dopo che aveva portato a termine il facile compito che gli avevano chiesto, o donne come quella della taverna, semplicemente in cerca di compagnia. Eppure, l’eccitazione provata quella notte faceva fatica a dimenticarla, si era sentito come una fiera in calore, un toro nel periodo dell’amore. Forse, era stata colpa di quei due bicchieri di Ratafià, o dell’incantesimo di Seth.
La carrozza partì non appena il sole allungò i suoi raggi sui tetti decadenti delle case, diretta alla capitale del Regno Magico.
 
La donna della taverna attese di vederla sparire all’orizzonte, nascosta in un vicolo cieco tra due stalle, le braccia intrecciate e un sorriso che le increspava le labbra. Lentamente la cicatrice che le correva lungo il viso si attenuò, rivelando un volto dalla pelle candida e dai lineamenti perfetti, gli occhi dello stesso colore delle foglie brillavano divertiti, i corti capelli castani si allungarono fino a sfiorare le ginocchia, diventando incolori, né bianchi né grigi, simili all’avorio. Quindi si incamminò a piccoli passi, poi il suo corpo mutò, si dissolse, divenne uno sbuffo d’aria e s’innalzò verso il cielo azzurro, sospinta da un leggero alito di vento.


 
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