Abyss

di orange
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Ringrazio tutti voi, per i vostri preziosi feedback e per il tempo dedicato a queste righe.
Un ringraziamento particolare va alla grande TigerEyes.

Buona lettura.
orange
 
Seijin no hi/Seijinshiki: festa della maggiore età, si celebra il 2° lunedì di gennaio.
Furisode: kimono formale indossato dalle donne nubili.
Kogai: un tipo di kanzashi (ornamento tradizionalmente nelle acconciature femminili).
Tabi: calzini di cotone tradizionali. 
 
 
*
 
Abyss

 
 
Casa Tendo era avvolta nel silenzio. Desolata, senz’anima. Un ammasso di legno corroso dal peso degli anni, non altro che questo. Un polveroso memoriale di quanto si fosse abbassata a desiderare, una tomba che avrebbe voluto bruciare, radere al suolo. Far scomparire, una volta per tutte, dalla faccia della Terra.

Non era stato difficile entrare, c’era sempre una faglia di cui poter approfittare, una finestra rotta, una porta non chiusa a chiave, una riparazione rimandata per pigrizia.  Il tempo non aveva insegnato nulla, a questa famiglia, e sull’ingenuità dei suoi trascurabili componenti avrebbe sempre potuto contare.

Avanzò lentamente nel corridoio buio, così leggera, sulle punte dei piedi, da non fare rumore. Alla sua destra, la camera dei Saotome, la porta scorrevole ben serrata. La tentazione di entrare la colse preparata, questa volta. Distolse lo sguardo e proseguì. Non era quello il motivo della sua visita.    

Trovò presto, anche nella semioscurità, quello che cercava. La porta della camera di Akane, con quell’infantile insegna a forma di papera, era stranamente rimasta aperta, forse per la fretta.
La scostò leggermente, quel tanto che bastava per avere piena visibilità della stanza. Era vuota, naturalmente, se ne era assicurata guardandoli uscire, insieme al resto di quell’assembramento casuale che aveva il coraggio di definirsi famiglia e che si era degnato di uscire, in ordine sparso, dopo uno spreco indefinito di tempo.   

Ridicoli.

Scontati, anche in questo. Avrebbe preferito non festeggiare affatto il Seijinshiki, se la sua unica opzione fosse stata quella di partecipare a una farsa qualunque e visitare il tempio con l’intero clan a contorno.

Silenziosa come la neve che minacciava di cadere, aveva atteso, lasciando che la patetica proiezione le gelasse il sangue.

Loro erano stati gli ultimi a percorrere il vialetto, trattenendosi un momento sulla soglia, dietro al portone di legno. Quello era stato l’unico momento in cui aveva dovuto rendersi invisibile, scomparire a contatto con le tegole fredde del tetto, confondersi con l’assoluta ordinarietà dell’ambiente che la circondava, perché lui non la notasse. Era evidente, infatti, che avesse esitato, indugiando per qualche istante sulla soglia e inclinando leggermente il capo nella sua direzione, superficialmente all’erta. Per sua fortuna, qualcosa l’aveva distratto, una voce – la sua voce – e le aveva finalmente permesso di respirare.
Della fragilità del tocco leggero di lei sul braccio di lui, della naturalezza della mano di lui sulla spalla di lei, della delicatezza delle labbra di lei all’orecchio di lui – di questo, con riluttanza, aveva approfittato. Di quel sussurro sfuggito sulla linea del volto, che l’avrebbe tormentata. Di quella risata ovattata dalla stoffa della sua casacca, che l’avrebbe prosciugata.

Con un cenno nervoso del capo, quasi impercettibile, cancellò l’immagine indegna che le si era disegnata davanti agli occhi. Incenerì la vista di lei – vestita dell’unico furisode che probabilmente possedeva, i capelli disadorni – e la vista di lui – della linea delle spalle su cui lei aveva cercato calore, delle mani che avevano lasciato le tasche per scostarle una ciocca di capelli dagli occhi.
Non aveva potuto evitare di notare quei piccoli movimenti, inutili, insoffribili.
Gesti che lui non le avrebbe mai rivolto e che lei non avrebbe mai più desiderato.  

Mai più.

Tornò a concentrarsi sulla stanza di fronte ai suoi occhi, facendo un altro passo. Sulla sedia, giacevano senz’anima alcuni vestiti, gettati alla rinfusa. Sul letto, due paia di tabi bianchi.
Con la punta delle dita, ne accarezzò la stoffa, prima di seguirne, con l’unghia, il profilo delle cuciture e far scorrere lo sguardo sulla parete accanto al letto. Immagini, fotografie istantanee ingiallite dalla luce, colori che non le parlavano.
Spostò lo sguardo sulla scrivania, attratta da un kogai dimenticato. Lo afferrò senza forza, rigirandolo tra le dita, mentre elencava mentalmente gli altri oggetti collocati con precisione. Un piccolo astuccio verde menta, alcuni libri, una lampada da tavolo. Un piccolo specchio, un pettine di legno, un barattolo di crema senza aroma, una boccetta di profumo. Qualche cosmetico insignificante – niente che potesse davvero servire.
Trattenne una smorfia, un sapore familiare sulle labbra.

Non aveva nemmeno fatto lo sforzo di prepararsi a dovere.

Tutto quello che aveva fatto era stato disporre piccoli pezzi di mediocrità in una prevedibile sequenza di inesperto utilizzo. Riempire la propria stanza di oggetti, nient’altro che oggetti, come se la loro sola presenza potesse scatenare una scadente reazione causa-effetto.
Niente di adulto, in questo.
Quasi ridendo di quell’illusione, sciocca come solo una speranza infantile poteva essere, infilò il kogai nella tasca, piantandolo contro il fianco e soppesando il dolore ad occhi chiusi.

Li riaprì solo per accorgersi che la luce stava cambiando. Era quasi il tramonto.
Non potendo rischiare di essere colta di sorpresa, sapendo che lui non avrebbe lasciato correre una seconda volta, decise che era ora di ritornare sui propri passi. In un soffio, con la stessa velocità con cui era entrata, uscì.

 
§
 
 
La fiamma della candela che aveva acceso per festeggiare il suo giorno importante oscillava fioca, come un battito rallentato, accompagnando il suo respiro nel silenzio della stanza avvolta dalla penombra.

Shan pu avvicinò al volto lo specchio, tenendone ben salda l’impugnatura, le gambe incrociate sul futon. Studiò attentamente il proprio riflesso, partendo dalla linea della mandibola, scendendo fino al mento, per poi risalire alla curvatura leggera delle labbra, strette nervosamente in una smorfia.

Riempì, con la punta delle dita, il piccolo spazio tra le labbra e il naso. Lì, sull’arco delle labbra, poteva sentire il primo bacio dato a chi non l’aveva voluta. Sarebbe scomparso, lentamente.

Sfiorò la punta del naso, percorrendone il profilo fino alla pelle tesa della fronte. Le sopracciglia contratte celavano due occhi forse troppo grandi per un viso così vuoto, un contrasto troppo evidente.
Eppure, le sembrava di ricordare un tempo in cui quel viso era stato pieno, forse persino felice, in cui quello sguardo immenso aveva avuto una direzione. Quella versione di lei era mai realmente esistita?
Eppure, quando chiudeva gli occhi, le sembrava di vederla, la se stessa di prima. Una persona scomparsa, ormai. Era stato solo un sogno?  

Strinse la presa sullo specchio, la mano tremante. Ora, i suoi occhi cosa guardavano? Cosa racchiudevano? Se qualcuno ci avesse guardato dentro, quale storia avrebbe trovato?
Forse, la storia di un altro mondo, la storia di altri – una storia in cui lei era stata solo un accessorio marginale, personaggio secondario in uno spettacolo goliardico.

Le sfuggì una risata, trattenuta dai denti che affondavano nelle labbra doloranti. Anche il suo stesso volto sembrava farle male, ora.

Lanciò un’occhiata sfuggente alla candela al suo fianco. Le gocce di cera iniziavano ad accumularsi, stancamente, una sull’altra, una dopo l’altra – ricordi che non potevano più essere separati. 

Portò velocemente la mano alla testa, affondandola tra i capelli che iniziavano a tirare la pelle. Afferrò tra due dita il kogai che li raccoglieva e lo sfilò.
In fondo, non le apparteneva.

Chiuse gli occhi, davanti allo specchio, per rivedersi in un’altra storia, una storia in cui non era sola, in cui non era stata dimenticata, in cui qualcuno aveva saputo amarla. Li chiuse solo per un istante, solo per un momento di sollievo, prima di riaprirli di fronte all’abisso nello specchio.
Nemmeno quella storia, in fondo, le apparteneva.

Lasciandosi andare a un sospiro, sperò che l’abisso le rivelasse il significato dell’essere adulti, il senso di quel silenzio assordante che le impediva di dimenticare. Sperò che l’abisso le rispondesse, che le sussurrasse il segreto della solitudine.
Quello era il futuro nello specchio, la solitudine.

Passò le dita tra le ciglia folte, asciutte. Da quanto tempo non piangeva? Era certa di non esserne più capace.  
D’altra parte, nessuno le aveva mai insegnato cosa fare della tristezza. Aveva sempre pensato che, crescendo, sarebbe stata in grado di affrontarla. Non era forse questo lo scopo? Sapere come sciogliere quel nodo aggrovigliato nel petto? Imparare a concedersi anche la tristezza, consapevoli che presto o tardi si sarebbe dissolta?
Invece, quel nodo lei se lo era ritrovato tra le mani, un corpo estraneo che dettava ogni sua decisione e che lei non riusciva a controllare, in un circolo che aveva imparato a prevedere al meglio delle sue capacità.
Ora sapeva che, con la tristezza, tornava la rabbia. Con la rabbia, lei sentiva di nuovo.

Avrebbe voluto imbottigliare quella sensazione, quell’odio che la divorava ogni volta in cui guardava in quello specchio, quel veleno che bruciava sottopelle, che aveva consumato tutto il buono.
Avrebbe voluto conservarlo, per farne uso nei momenti in cui la nostalgia prendeva il sopravvento, in cui riaffiorava quel profumo – il suo profumo, in cui il brivido di quella voce – la sua voce, le tagliava ancora il cuore.
Per berne, all’occorrenza, solo un sorso. Per sentirne appena, sulle labbra, l’amarezza. Per rigettarlo, in un istante, nell’oblio da cui era riemerso.

Quanto l’aveva desiderato.
Quanto l’aveva odiato, per questo.

Nauseata da quel pensiero, lasciò che il kogai scivolasse a terra.
In fondo, non era altro che un oggetto. 

Ormai stanca, poggiò lo specchio sul tatami, aspettando che il suono offuscasse la stanza, prima di svanire.
Anche lui sarebbe svanito, come quel suono. Lei avrebbe atteso, senza fretta, che di lui non rimanesse più nulla. Dell’attesa non aveva paura, l’avrebbe trascorsa nell’abisso.
Di quei ricordi non suoi, così affilati da impedirle di avvicinarsi, invece, aveva paura. D’altronde, se si fosse avvicinata, quei ricordi l’avrebbero annientata. 

Sfinita dalle immagini che impietose le attaccavano la mente, spense con un soffio la candela che illuminava la stanza.
Di nuovo, oltre all’abisso, non rimase più nulla.

 
***
 




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